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Baudelaire per il clinico. Parte II

27 Mar 21

A cura di Sabino Nanni

Baudelaire per il clinico – Parte II

 

Sottotitolo: L’essenza curativa dei “Fiori del male”
Tableaux parisiens – Le vin

 

In queste due sezioni dei Fleurs du mal, Baudelaire passa ad illustrare specifiche situazioni umane. Le trova fra le strade di Parigi, fra quegli esseri umani che gli sguardi distratti dei cittadini frettolosi non notano neppure. Vi coglie il dramma della miseria, della vecchiaia, della morte. Nella terza sezione (Le vin), partendo da quello che, ad un osservatore superficiale  potrebbe apparire come il gregge anonimo ed omogeneo dei bevitori, il Poeta, con la sua Arte, restituisce a ciascuno la sua particolare personalità e la sua storia.

 
 
II Tableaux parisiens
 
87 – Le soleil – Pag. 150
 
Le long du vieux faubourg, où pendent aux masures
Les persiennes, abri des secrètes luxures,
Quand le soleil cruel frappe à traits redoublés
Sur la ville et les champs, sur les toits et les blés,
Je vais m’exercer seul à ma fantasque escrime,
Flairant dans tous les coins les hasards de la rime,
Trébuchant sur les mots comme sur les pavés,
Heurtant parfois des vers depuis longtemps rêvés.
 
Ce père nourricier, ennemi des chloroses,
Eveille dans les champs les vers comme les roses ;
Il fait s’évaporer les soucis vers le ciel,
Et remplit les cerveaux et les ruches de miel.
C’est lui qui rajeunit les porteurs de béquilles
Et les rend gais et doux comme des jeunes filles,
Et commande aux moissons de croître et de mûrir
Dans le cœur immortel qui toujours veut fleurir !  
 
Quand, ainsi qu’un poète, il descend dans les villes,
Il ennoblit le sort des choses les plus viles,
Et s’introduit en roi, sans bruit et sans valets,
Dans tous les hôpitaux et dans tous les palais.
 

(Lungo i vecchi sobborghi, dove pendono dalle catapecchie / le persiane, rifugio delle segrete lussurie, / quando il sole crudele colpisce a raggi raddoppiati / sulla città e i campi, sui tetti e le messi, / io m’esercito tutto solo alla mia bizzarra scherma, / annusando in tutti gli angoli le combinazioni della rima, / inciampando nelle parole come sul selciato, / urtando talora in versi a lungo sognati. // Questo padre putativo e nutritivo, nemico delle clorosi, / sveglia nei campi tanto i vermi come le rose; / fa svaporare gli affanni verso il cielo, / e riempie di miele i cervelli e gli alveari. / È lui che ringiovanisce coloro che vanno con le stampelle / e li rende allegri e dolci come fanciulle, / e ordina alle messi di crescere e maturare / entro il cuore immortale che vuol sempre fiorire! // Quando, simile ad un poeta, scende nelle città / nobilita la sorte delle cose più vili, / e s’introduce, come un re, senza rumore e senza domestici, / in tutti gli ospedali e in tutti i palazzi.)    

 

[Il sole è qui simbolo di una presenza antica, definita “crudele” perché scuote energicamente dall’inerzia, ossia dal terreno da cui riemerge la “segreta lussuria” (la vita pulsionale primitiva). Il sole è portatore di luce (di visione chiara delle cose), ed è una forza che dà vita ai vegetali ed anima l’esistenza degli esseri umani. Esso evoca e, per chi ne sa cogliere il significato interiore, sostituisce il genitore arcaico: è come un “père nourricier” (padre “putativo” e “nutritivo”) che lenisce le sofferenze, riempie di dolcezza, “nobilita le cose più vili”. Questa fonte di luce e di calore, favorendo la crescita e la maturazione dei cuori (della vita interiore) come delle messi, catalizza lo sviluppo del linguaggio e, attraverso questo, stimola l’attività creativa del Poeta. Si rinnova, così, il rapporto idealizzato con l’oggetto arcaico, il cui riflesso è rappresentato dallo sviluppo della “funzione alfa” (Bion): l’attitudine che consente di tradurre in segni e in parole (ossia mentalizzare e rendere pensabili) le oscure sensazioni senza nome che promanano dal mondo interno. L’attività creativa poetica è una forma particolare di tale funzione; è l’eredità del rapporto più antico che consente di contenere e sublimare la spinta pulsionale e conferisce, all’espressione verbale della vita interiore, la capacità di suscitare sentimenti di Bellezza e di Verità.]

 
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89 – Le cygne – Pag. 154, 156, 158
                     
                        I  
Andromaque, je pense à vous ! Ce petit fleuve,
Pauvre et triste miroir où jadis resplendit
L’immense majesté de vos douleurs de veuve,
Ce Simoïs menteur qui par vos pleurs grandit
 
A fécondé soudain ma mémoire fertile,
Comme je traversais le nouveau Carrousel.
Le vieux Paris n’est plus (la forme d’une ville
Change plus vite, hélas ! que le cœur d’un mortel) ;
 
Je ne vois qu’en esprit tout ce camp de baraques,
Ces tas de chapiteaux ébauchés et de fûts,
Les herbes, les gros blocs verdis par l’eau des flaques,
Et, brillant aux carreaux, le bric-à-brac confus.
 
Là s’étalait jadis une ménagerie ;
Là je vis, un matin, à l’heure où sous les cieux
Froids et clairs le Travail s’éveille, où la voirie
Pousse un sombre ouragan dans l’air silencieux,
 
Un cygne qui s’était évadé de sa cage,
Et, de ses pieds palmés frottant le pavé sec,
Sur le sol raboteux trainant son blanc plumage.
Près d’un ruisseau sans eau la bête ouvrant le bec
 
Baignait nerveusement ses ailes dans la poudre,
Et disait, le cœur plein de son beau lac natal :
« Eau, quand donc pleuvras-tu ? quand tonneras-tu foudre ? »
 
Je vois ce malheureux, mythe étrange et fatal,
 
Vers le ciel quelquefois, comme l’homme d’Ovide,
Vers le ciel ironique et cruellement bleu,
Sur son cou convulsif tendant sa tête avide
Comme s’il adressait des reproches à Dieu !
 

(Andromaca, io penso a voi! Quel fiumiciattolo / povero e triste specchio dove un tempo rifulse / l’immensa maestà delle vostre pene di vedova, / quel Simoenta bugiardo che le vostre lacrime ingrossarono, // ha d’improvviso fecondato la mia fertile memoria / mentre attraversavo il Carosello nuovo. / La vecchia Parigi non c’è più (l’aspetto di una città / cambia più in fretta, ahimè, che il cuore di un mortale); // vedo solo nello spirito tutto il campo di baracche, / il mucchio di capitelli sbozzati e di fusti di colonne, / le erbe, i grandi massi inverditi dall’acqua delle pozzanghere / e, brillanti nelle vetrine, le cianfrusaglie confuse. // Laggiù un tempo c’era un serraglio; / e là vidi un mattino, all’ora in cui sotto cieli / freddi e chiari il Lavoro si sveglia, in cui la nettezza urbana / emette un oscuro uragano nell’aria silenziosa, // un cigno evaso dalla sua gabbia; / fregando il selciato arido coi suoi piedi palmati, / trascinava il suo bianco piumaggio sul terreno accidentato; / aprendo il becco presso un ruscello senz’acqua // bagnava nervosamente le ali nella polvere, / e diceva, il cuore colmo del suo bel lago natìo: / “Acqua, quando pioverai? Fulmine, quando tuonerai?” // Vedo quell’infelice, mito strano e fatale, // talvolta verso il cielo, come l’uomo di Ovidio, / verso il cielo ironico e crudelmente azzurro, / protendendo l’avida testa sul suo collo convulso, / come se lanciasse rimproveri a Dio! 

 
II
Paris change mais rien dans ma mélancolie
N’a bougé ! palais neufs, échafaudages, blocs,
Vieux faubourgs, tout pour moi devient allégorie,
Et mes chers souvenirs sont plus lourds que des rocs.
 
Aussi devant ce Louvre une image m’opprime :
Je pense à mon grand cygne, avec ses gestes fous,
Comme les exilés, ridicule et sublime,
Et rongé d’un désir sans trêve ! et puis à vous
 
Andromaque, des bras d’un grand époux tombée,
Vil bétail, sous la main du superbe Pyrrhus,
Auprès d’un tombeau vide en extase courbée ;
Veuve d’Hector, hélas ! et femme d’Hélénus !
 
Je pense à la négresse, amaigrie et phthisique
Piétinant dans la boue, et cherchant, l’œil hagard,
Les cocotiers absents de la superbe Afrique
Derrière la muraille immense du bruillard.
 
A quiconque a perdu ce que ne se retrouve
Jamais, jamais ! à ceux qui s’abreuvent de pleurs
Et tettent la Douleur comme une bonne louve !
Aux maigres orphelins séchant comme des fleurs !
…………………………………………………….
 

(Parigi cambia! Ma nulla, nella mia malinconia / si è mosso! Palazzi nuovi, impalcature, massi, / vecchi sobborghi, tutto per me diviene allegoria, / e i miei cari ricordi sono più grevi delle rocce. // Così, davanti al Louvre un’immagine m’opprime: / penso al mio grande cigno, con i suoi gesti folli, / come gli esuli, ridicolo e sublime, / e divorato da un desiderio senza requie! E penso a te, // Andromaca, caduta dalle braccia di un grande sposo, / vile bestiame, sotto la mano del superbo Pirro, / curva su di una tomba vuota, in estasi; / vedova di Ettore, ahimè, e sposa di Eléno! // Penso alla negra smagrita e tisica / che avanza lentamente nel fango e cerca, col suo occhio sconvolto, / gli alberi di cocco assenti della sua superba Africa / dietro il muro immenso della nebbia; / penso a chiunque ha perduto quel che non si ritrova / mai più, mai più! A coloro che si abbeverano di lacrime / e succhiano il Dolore come da una buona lupa! / Ai magri orfanelli che appassiscono come fiori! …)

 

[C’è, in queste due poesie, la nostalgia struggente per la città-madre com’era prima di mutare e “inaridirsi” (con tutto il valore emotivo-simbolico di “madre”, “acqua” e perdita dell’humus, dell’elemento vitale). Per contro, la situazione presente in cui si dibatte il povero cigno, esiliato dal lago natio, è descritta con parole le cui dure consonanti denotano tutta l’asprezza del suo dramma: “…frottant le pavé sec, / Sur le sol raboteux trainant son blanc plumage. / Près d’un ruisseau sans eau la bête ouvrant le bec”. Andromaca, divenuta vedova, fa pensare ad una donna-madre decaduta nel suo status e divenuta incapace di provare altri affetti al di fuori delle pene del lutto. Evoca, inoltre, la perdita della città-madre Troia. Il pensiero si rivolge, qui, a tutti gli esiliati privi della possibilità di ritornare alla terra-madre, agli orfani abbandonati, a tutti coloro che soffrono ricordando il loro “paradiso perduto”. Il Poeta, grazie alla sua “fertile memoria”, riesce a cogliere, nel destino di questi poveretti, quel che accomuna tutti gli esseri umani: la perdita, avvenuta all’inizio della vita, di quel luogo accogliente che non si troverà mai più (Jamais, jamais !), e che si cercherà invano per tutta la vita, senza possibilità di rassegnarsi.]

 
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90 – Les sept vieillards – Pag. 158, 160, 162
                        
Fourmillante cité, cité pleine de rêves,
Où le spectre en plein jour raccroche le passant !
Les mystères partout coulent comme des sèves
Dans les canaux étroits du colosse puissant.
…………………………………………………….
 
Un brouillard sale e jaune inondait tout l’espace
Je suivais, roidissant mes nerfs comme un héros
Et discutant avec mon âme déjà lasse,
Le faubourg secoué par les lourds tombereaux.
 
Tout à coup, un vieillard dont les guenilles jaunes
Imitaient la couleur de ce ciel pluvieux,
Et dont l’aspect aurait fait pleuvoir les aumônes,
Sans la méchanceté qui luisait dans ses yeux,
 
M’apparut. On eût dit sa prunelle trempée
Dans le fiel ; son regard aiguisait les frimas,
Et sa barbe à long poils, roide comme une épée,
Se projetait, pareille à celle de Judas.
…………………………………………………
Son pareil le suivait ; barbe, œil, dos, bâton, loques,
Nul trait ne distinguait, du même enfer venu,
Ce jumeau centenaire, e ces spectres baroques
Marchaient du même pas vers un but inconnu.
 
A quel complot infâme étais-je donc en butte,
Ou quel méchant hasard ainsi m’humiliait ?
Car je comptai sept fois, de minute en minute,
Ce sinistre vieillard qui se multipliait !
 
Que celui-là qui rit de mon inquiétude,
Et qui n’est pas saisi d’un frisson fraternel,
Songe bien que malgré tant de décrépitude
Ces sept monstres hideux avaient l’air éternel !
 
Aurais-je, sans mourir, contemplé le huitième,
Sosie inexorable, ironique et fatal,
Dégoûtant Phénix, fils et père de lui-même ?
Mais je tournai le dos au cortège infernal.
……………………………………………….
Vainement ma raison voulait prendre la barre ;
La tempête en jouant déroutait ses efforts,
Et mon âme dansait, dansait, vieille gabarre
Sans mâts, sur une mer monstrueuse et sans bords !
 

(Città formicolante, città piena di sogni, / dove lo spettro in pieno giorno ferma il passante! / Dappertutto i misteri colano come linfe / negli stretti canali del possente colosso. // […] un nebbione sudicio e giallo inondava tutto lo spazio, / io percorrevo, tendendo i nervi come un eroe / e discutendo con la mia anima già spossata / il sobborgo scosso da pesanti carriaggi. // D’improvviso, un vecchio i cui stracci gialli / imitavano il colore di questo cielo piovoso, / e il cui aspetto avrebbe fatto piovere elemosine / se la cattiveria non gli avesse brillato negli occhi, // m’apparve. Si sarebbe detto che la sua pupilla fosse temprata / nel fiele; il suo sguardo rendeva acuta la galaverna, / e la sua barba dai lunghi peli, rigida come una spada, / sporgeva, simile a quella di Giuda. // […] Uno del tutto simile lo seguiva: barba, occhio, schiena, bastone, brandelli, / nulla distingueva, venuto dallo stesso inferno, / questo gemello centenario; e questi spettri barocchi / procedevano con lo stesso passo verso una meta sconosciuta. // Da quale complotto infame ero dunque fatto segno / o quale caso malvagio mi umiliava? / Poiché io contai sette volte, di minuto in minuto, / quel sinistro vegliardo che si moltiplicava! // Chi ride della mia inquietudine / e chi non è fraternamente colto da un brivido, / tenga presente che, malgrado tanta decrepitezza, / questi orribili sette mostri avevano l’aria d’essere eterni! // Avrei potuto, senza morire, contemplare l’ottavo, / sosia inesorabile, ironico e fatale, / disgustosa Fenice, figlio e padre di sé stesso? / Ma volsi le spalle all’infernale corteo. // […] Invano la mia ragione voleva riprendere il timone; / la tempesta, mulinando, dirottava i suoi sforzi, / e la mia anima ballava e ballava, vecchia barca / senza alberi, su di un mare mostruoso e senza limiti!)       

 

[Esperienza perturbante, collegata per contrasto alle immagini evocate nelle poesie precedenti: immagini di precarietà, di una città-madre perduta, di rimpianto. Al contrario irrompe, qui, questa figura “orrenda” di vecchio “dall’aria eterna”, capace di moltiplicarsi, “padre e figlio di sé stesso”; insomma, la negazione della precarietà e, nello stesso tempo, la condanna ad una pena e ad una persecuzione destinate a non finire mai. Potrebbe essere intesa come contrappasso per la colpa d’aver provato soddisfazione (ed un senso di liberazione) nella fine dei genitori, e forse averla favorita in rapporto ad inconsci desideri parricidi e matricidi: il soggetto è condannato per l’eternità ad assistere allo spettacolo di questa figura orribile che non muore mai, che si moltiplica all’infinito, e che risponde con malvagità e tradimento (Giuda) alla malvagità e al tradimento del soggetto.]

 
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91 – Les petites vieilles
 
                         I – Pag. 162, 164                       
Dans les plis sinueux des vielles capitales,
Où tout, même l’horreur, tourne aux enchantements,
Je guette, obéissant à mes humeurs fatales,
Des êtres singuliers, décrépits et charmants.
 
Ces monstres disloqués furent jadis des femmes,
Eponime ou Laïs ! Monstres brisés, bossus
Ou tordus, aimons-les ! ce sont encor des âmes.
Sous des jupons troués et sous de froids tissus
 
Ils rampent, flagellés par les bises iniques,
Frémissant au fracas roulant des omnibus,
Et serrant sur leur flanc, ainsi que des reliques,
Un petit sac brodé de fleurs ou de rébus ;
 
Ils trottent, tous pareils à des marionnettes ;
Se traînent, comme font les animaux blessés,
Ou dansent, sans vouloir danser, pauvres sonnettes
………………………………………………………….
 

(Nelle pieghe tortuose delle vecchie capitali, / dove tutto, persino l’orrore, si trasforma in incanto, / io spio, obbedendo ai miei fatali umori, / degli esseri singolari, decrepiti e affascinanti. // Questi esseri sconquassati furono un tempo donne, / Éponine o Laìde! Mostri frantumati, ingobbiti, / o contorti, amiamoli! Sono ancora anime. Sotto gonne piene di buchi e sotto freddi tessuti // strisciano, flagellate da inique tramontane, / sussultando al fracasso degli omnibus rotolanti, / e stringendo al fianco, come reliquie, / una borsettina ricamata a fiori e indovinelli; // trottano, in tutto simili a marionette; / si trascinano come animali feriti / o danzano, senza voler danzare, povere campanelle […])

 
                       IV – Pag. 166, 168
Telles vous cheminez, stoïques et sans plaintes,
A travers le chaos des vivantes cités,
Mères au cœur saignant, courtisanes ou saintes,
Dont autrefois les noms par tous étaient cités,
 
Vous qui fûtes la grâce ou qui fûtes la gloire,
Nul ne vous reconnaît ! un ivrogne incivil
Vous insulte en passant d’un amour dérisoire ;
Sur vos talons gambade un enfant lâche et vil.
 
Honteuses d’exister, ombres ratatinées,
Peureuses, le dos bas, vous côtoyez les murs ;
Et nul ne vous salue, étranges destinées !
Débris d’humanité pour l’éternité mûrs !
 
Mais moi, moi qui de loin tendrement vous surveille,
L’œil inquiet, fixé sur vos pas incertains,
Tout comme si j’étais votre père, ô merveille !
Je goûte à votre insu des plaisirs clandestins :
 
Je vois s’épanouir vos passions novices ;
Sombres ou lumineux, je vis vos jours perdus ;
Mon cœur multiplié jouit de tous vos vices !
Mon âme resplendit de toutes vos vertus !
 
Ruines ! ma famille ! ô cerveaux congénères !
Je vous fais chaque soir un solennel adieu !
Où serez-vous demain, Eves octogénaires,
Sur qui pèse la griffe effroyable de Dieu ?
 

(Così voi camminate, stoiche e senza lamenti / attraverso il caos delle città viventi, / madri dal cuore sanguinante, cortigiane o sante, / i cui nomi un tempo tutti citavano. // Voi che foste la grazia, voi che foste la gloria, / nessuno vi riconosce! Un ubriacone incivile / v’insulta, passando, con un amore derisorio; / alle vostre calcagna, saltella un ragazzo vile e meschino. // Vergognose d’esistere, ombre avvizzite, / impaurite, curve, rasentate i muri; / e nessuno vi saluta, strani destini! / Relitti d’umanità, maturi per l’eternità! // Ma io, io che vi sorveglio teneramente da lontano, / l’occhio inquieto, fisso sui vostri incerti passi, / proprio come se fossi, o meraviglia, vostro padre, / assaporo, a vostra insaputa, piaceri clandestini: // vedo sbocciare le vostre passioni novelle; / oscuri o luminosi, vivo i vostri giorni perduti; / il mio cuore moltiplicato gode di tutti i vostri vizi! / La mia anima risplende di tutte le vostre virtù! // O rovine, o mia famiglia, o cervelli consimili! / Io vi do ogni sera un addio solenne! / Dove sarete domani, o Eve ottuagenarie, / su cui incombe l’artiglio terribile di Dio?)

 

[Capacità riparativa della poesia, in grado di restituire dignità, nobiltà e persino fascino a questi esseri deformi e patetici. Il Poeta contrappone il suo affettuoso interessamento verso queste donne all’ostilità beffarda dell’ubriacone, o a quella insolente del ragazzaccio, o alla cinica indifferenza del passante. Si tratta, qui, di manifestazioni di rivalsa verso una figura femminile-materna, ora decaduta, che un tempo fu capace di soggiogare con il suo fascino e con la sua capacità di soddisfare i bisogni vitali. Contrapponendo il suo affetto a tali atteggiamenti ostili, egli recupera la possibilità di rendersi partecipe dei vizi e delle virtù di quelle che furono giovani donne. Torna, cioè, a sentirsi tutt’uno con il suo antico oggetto d’amore. Al tempo stesso rinnova, a ruoli rovesciati (come fosse padre di queste madri decrepite) il rapporto di tenera sollecitudine che, in un remoto passato, diede conforto e sostegno a lui, nei suoi primi, incerti passi nella vita.]

 
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92 – Les aveugles – Pag. 168
 
Contemple-les, mon âme ; ils sont vraiment affreux !
Pareils aux mannequins ; vaguement ridicules ;
Terribles, singuliers comme les somnambules ;
Dardant on ne sait où leurs globes ténébreux.
 
Leurs yeux, d’où la divine étincelle est partie,
Comme s’ils regardaient au loin, restent levés
Au ciel ; on ne les voit jamais vers les pavés
Pencher rêveusement leur tête appesantie.
 
Ils traversent ainsi le noir illimité,
Ce frère du silence éternel. O cité !
Pendant qu’autour de nous tu chantes, ris et beugles,
 
Eprise du plaisir jusqu’à l’atrocité
Vois ! je me traîne aussi ! mais, plus qu’eux hébété,
Je dis : Que cherchent-ils au Ciel, tous ces aveugles ?
 

(Guardali, anima mia; sono veramente spaventosi! / Simili a manichini, vagamente ridicoli; / terribili, bizzarri come i sonnambuli; / dardeggiando non si sa dove i globi tenebrosi. // I loro occhi, da dove la divina scintilla è sparita, / come se guardassero lontano, restano alzati / al cielo; non li si vede mai verso il selciato / reclinare con aria trasognata la testa appesantita. // Attraversano così il nero illimitato / questo fratello del silenzio eterno. O città! / Mentre attorno a noi tu canti, ridi e urli, // appassionata al piacere fino all’atrocità, / vedi, anch’io mi trascino! Ma, più di loro inebetito, / dico “Che cercano in Cielo tutti questi ciechi?)

 

[Perdita della vista come recupero dello “occhio della mente”, che consente di percepire il “nero illimitato”, il “silenzio eterno”, ossia ciò che si trova nelle profondità del nostro essere. Si tratta di quella dimensione priva di limiti spazio-temporali che è sedimento della nostra preistoria, ossia dell’esperienza vissuta di quel tempo in cui non esistevano ancora i confini del nostro essere individuale, e “spazio e tempo non avevano distrutto le cose” [Gustav Mahler]. Il cieco non ascolta i rumori della città mondana che, presa da piaceri materiali, ha dimenticato la vita interiore; non reclina il capo, preso da ciò che è infimo e deprimente nella vita. Egli rivolge il suo “sguardo” unicamente verso il “Cielo” infinito ed eterno.]

 
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93 – A une passante – Pag. 168, 170
                       
La rue assourdissante autour de moi hurlait.
Longue, mince, en grand deuil, douleur majestueuse,
Une femme passa, d’une main fastueuse
Soulevant, balançant le feston et l’ourlet ;
 
Agile et noble, avec sa jambe de statue.
Moi, je buvais, crispé comme un extravagant,
Dans son œil, ciel livide où germe l’ouragan,
La douceur qui fascine et le plaisir qui tue.
 
Un éclair… puis la nuit ! – Fugitive beauté
Dont le regard m’a fait soudainement renaître,
Ne te verrai-je plus que dans l’éternité ?
 
Ailleurs, bien loin d’ici ! trop tard ! jamais peut-être !
Car j’ignore où tu fuis, tu ne sais où je vais,
O toi que j’eusse aimée, ô toi qui le savais !
 

(La strada assordante, attorno a me, urlava. / Alta, snella, in lutto stretto, maestoso dolore, / una donna passò, con una mano sfarzosa / sollevando, agitando il festone e l’orlatura della gonna; // agile e nobile, con la sua gamba statuaria. / Io bevevo, teso come un folle, / nel suo occhio, cielo livido dove prende corpo l’uragano, / la dolcezza che incanta e il piacere che uccide. // un lampo… poi la notte! O fugace bellezza / il ci sguardo m’ha fatto di colpo rinascere, / non ti vedrò più che nell’eternità? // Altrove, ben lontano da qui, troppo tardi! Forse mai! / Poiché io ignoro dove fuggi, tu non sai dove vado, / o te che avrei amato, o te che lo sapevi!) 

 

[La fugace comparsa di una passante (proprio perché, in quanto fugace, lascia spazio alla fantasia più che alla percezione) evoca, nel Poeta, un’immagine arcaica e seducente, che attrae con la sua dolcezza e ottenebra la coscienza con il piacere; insomma: una Madonna che incanta e, nel contempo, una Circe che trasforma l’essere umano in animale capace solo di desiderare. Per quanto fugace, quest’esperienza gli restituisce la vitalità delle origini, lo fa rinascere. Sparita la passante, questo tipo di rapporto, in cui non occorrono le parole per capirsi (la ama e lei lo sa), il Poeta lo può solo ritrovare al di fuori del tempo e dello spazio (altrove e forse mai), nella dimensione arcaica dell’immaginazione.]

 
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94 – Le squelette laboureur – Pag. 170, 172
 
Dans les planches d’anatomie
Qui traînent sur ces quais poudreux
Où maint livre cadavéreux
Dort comme une antique momie,
 
Dessins auxquels la gravité
Et le savoir d’un vieil artiste,
Bien que le sujet en soit triste,
Ont communiqués la Beauté,
 
On voit, ce qui rend plus complètes
Ces mystérieuses horreurs,
Bêchant comme des laboureurs,
Des Ecorchés et des Squelettes.
 
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Voulez-vous (d’un destin trop dur
Épouvantable et clair emblème !)
Montrer que dans la fosse même
Le sommeil promis n’est pas sûr ;
 
Qu’envers nous le Néant est traître ;
Que tout, même la mort, nous ment,
Et que sempiternellement,
Hélas ! il nous faudra peut-être
 
Dans quelque pays inconnu
Écorcher la terre revêche
Et pousser une lourde bêche
Sous notre pied sanglant et nu ?
 

(Nelle tavole d’anatomia / che si trascinano su quei lungo-fiume polverosi / dove più di un libro cadaverico / dorme come un’antica mummia, // disegni ai quali la gravità / e l’esperienza di un vecchio artista, / benché il soggetto sia triste, / hanno infuso la Bellezza, // si vede, il che rende più completi / quei misteriosi orrori, / mentre vangano come degli aratori / Scorticati e Scheletri. // […] // Volete (di un destino troppo duro / spaventoso e chiaro emblema!) / dimostrare che neppure nella fossa / il sonno promesso è sicuro? / Che verso di noi il Nulla è traditore, / che tutto, persino la Morte, ci mente, / e che per l’eternità, / ahimè, dovremo forse // in qualche paese sconosciuto / raspare la terra aspra / e spingere una pesante vanga / sotto il nostro piede sanguinante e nudo?)  

 

[L’incontro casuale del Poeta con vecchie tavole d’anatomia suscita in lui una riflessione su cosa ci attende dopo la morte – a voler essere precisi fino alla pignoleria, in quei pochi istanti prima della fine che, soggettivamente, corrispondono all’eternità –; riflessione che evoca il celebre monologo di Amleto. Anche qui, il “nulla” non è inteso come un sonno quieto in cui ogni tensione e affanno sparirebbero (un ritorno al grembo materno), ma come qualcosa di tormentoso: la condanna, per l’eternità, ad un lavoro massacrante e inutile (o fatto per il profitto di altri); una nuova immagine dell’Inferno. Per contrasto se ne deduce che, quella del Paradiso, sarebbe l’immagine di un lavoro gratificante e proficuo, ossia la sensazione d’aver raggiunto le proprie mete ideali o, almeno, d’aver fatto tutto il possibile per perseguirle. Il Paradiso è il ricongiungimento definitivo con un Oggetto Arcaico Idealizzato che aiuta a realizzarsi; l’Inferno è la condanna a soggiacere ad un oggetto persecutorio che sfrutta, non offre nulla per il benessere e tormenta.]

 
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95 – Le crépuscule du soir – Pag. 172, 174
 
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O soir, aimable soir, désiré par celui
Dont les bras, sans mentir, peuvent dire : Aujourd’hui
Nous avons travaillé – C’est le soir qui soulage
Les esprits que dévore une douleur sauvage,
Le savant obstiné dont le front s’alourdit,
Et l’ouvrier courbé qui regagne son lit.
Cependant des démons malsains dans l’atmosphère
S’éveillent lourdement, comme des gens d’affaire,
Et cognent en volant les volets et l’auvent.
A travers les lueurs que tourmente le vent
La Prostitution s’allume dans les rues ;
Comme une fourmilière elle ouvre ses issues ;
Partout elle se fraye un occulte chemin,
Ainsi que l’ennemi qui tente un coup de main ;
Elle remue au sein de la cité de fange
Comme un ver qui dérobe à l’Homme ce qu’il mange.
On entend ça et là les cuisines siffler,
Les théâtres glapir, les orchestres ronfler ;
Les tables d’hôte, dont le jeu fait les délices,
S’emplissent de catins et d’escrocs, leurs complices,
Et les voleurs, qui n’ont ni trêve ni merci,
Vont bientôt commencer leur travail, eux aussi,
Et forcer doucement les portes et les caisses
Pou vivre quelques jours et vêtir leurs maîtresses.
 
Recueille-toi, mon âme, en ce grave moment,
Et ferme ton oreille à ce rugissement.
C’est l’heure où les douleurs des malades s’aigrissent !
La sombre Nuit les prend à la gorge ; ils finissent
Leur destinée et vont vers le gouffre commun ;
L’hôpital se remplit de leurs soupirs – Plus d’un
Ne viendra plus chercher la soupe parfumée,
Au coin du feu, le soir, auprès d’une âme aimée.
 
Encore la plupart n’ont-ils jamais connu
La douceur du foyer et n’ont jamais vécu !
 

(O sera, amabile sera, desiderata da colui / le cui braccia, senza mentire, possono dire: oggi / abbiamo lavorato! – È la sera che conforta / gli spiriti divorati da un dolore selvaggio, / il dotto ostinato la cui fronte s’appesantisce, / e l’operaio curvo che ritrova il suo letto. / Però demoni malsani nell’atmosfera / si svegliano pesantemente, come uomini d’affari, / ed urtano volando le imposte e la tettoia. / Attraverso le luci fioche tormentate dal vento / la Prostituzione s’accende nelle vie; / come un formicaio dischiude le sue uscite; / dovunque si apre un occulto cammino / come un nemico che tenta un colpo di mano; / essa si muove in seno alla città di fango / come un verme che ruba all’Uomo ciò di cui si nutre. / Si sentono, qua e là, soffiare le cucine, / gridare i teatri, ronzare le orchestre; / le trattorie, che il gioco rende deliziose, / si riempiono di puttane e d’imbroglioni, loro complici, / e i ladri, che non hanno né requie né pietà, / vanno anche loro ad iniziare il loro lavoro, / a forzare con dolcezza le porte e le casse / per campare qualche giorno, per vestire le loro amanti. // Raccogliti, anima mia, in questo grave momento, / e chiudi le tue orecchie a questo ruggito. / È l’ora in cui le sofferenze dei malati s’inaspriscono! / La cupa Notte li prende alla gola; pongono fine / al loro destino e vanno verso l’abisso comune; / l’ospedale si riempie dei loro sospiri. Più d’uno / non verrà più a cercare la zuppa profumata, / accanto al focolare, la sera, vicino ad un’anima amata. // E i più non hanno mai conosciuto / la dolcezza del focolare e non hanno mai vissuto!)   

 

[La sera è il momento in cui la vita interiore passa in primo piano, si dischiude il mondo dei sogni ed il controllo sulle pulsioni distruttive s’allenta. Essa è vissuta con tutta l’ambiguità propria di ogni contatto con noi stessi. La sera porta sollievo, nostalgia ed inquietudine: si collega ad esperienze di amore, di focolai ritrovati, di intimità domestiche; ma anche a desideri di tipo predatorio: le prostitute, i ladri. Porta momenti di felicità, ma inasprisce anche le sofferenze dei malati che tale felicità hanno perduto; porta all’estremo lo strazio degli agonizzanti e di coloro che, non avendo mai conosciuto la gioia di un amore felice, muoiono senza aver mai vissuto.]

 
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96 – Le jeu – Pag. 174, 176
 
Dans des fauteuils fanés des courtisanes vieilles,
Pâles, le sourcil peint, l’œil câlin et fatal,
Minaudant et faisant de leurs maigres oreilles
Tomber un cliquetis de pierre et de métal ;
 
Autour des verts tapis des visages sans lèvre,
Des lèvres sans couleur, des mâchoires sans dent,
Et des doigts convulsés d’une infernale fièvre,
Fouillant la poche vide ou le sein palpitant ;
 
………………………………………………….
 
Voilà le noir tableau qu’en un rêve nocturne
Je vis se dérouler sous mon œil clairvoyant.
Moi-même, dans un coin de l’antre taciturne,
Je me vis accoudé, froid, muet, enviant.
 
Enviant de ces gents la passion tenace,
De ces vieilles putains la funèbre gaieté,
Et tous gaillardement trafiquant à ma face,
L’un de son vieil honneur, l’autre de sa beauté !
 
Et mon cœur s’effraya d’envier maint pauvre homme
Courant avec ferveur à l’abîme béant,
Et qui, soûl de son sang, préférerait en somme
La douleur à la mort et l’enfer au néant !
 

(Su logore poltrone, vecchie cortigiane, / pallide, le sopracciglia dipinte, l’occhio carezzevole e fatale, / fanno moine e, dalle loro magre orecchie / lasciano cadere un tintinnio di metallo e di pietre; // intorno ai tappeti verdi, visi senza labbra, / labbra senza colore, mascelle senza denti, / e dita rese convulse da una febbre infernale, / che frugano la tasca vuota o il seno palpitante; […] ecco la nera visione che in un sogno notturno / vidi svolgersi davanti al mio occhio chiaroveggente. / Vidi me stesso, in un angolo dell’antro taciturno, / appoggiato sui gomiti, freddo, muto, invidioso; // invidioso della passione tenace di quella gente, / della funebre allegria di quelle vecchie puttane, / e di tutti che, davanti a me, facevano commercio / l’uno del suo antico onore, l’altro della sua bellezza! // E il mio cuore ebbe paura d’invidiare quei poveri disgraziati / che correvano con fervore verso l’abisso spalancato, / e che, ubriachi del proprio sangue, preferirebbero / il dolore alla morte e l’inferno al nulla!)

 

[Una disperata voglia di vivere porta questi vecchi, attraverso il gioco, a smentire la convinzione comune che li vuole rassegnati, ritirati dalla vita, spenti. Tale aspetto trasgressivo del loro comportamento conferisce loro un’aria perversa, oltre che patetica. Essi preferiscono vivere fino in fondo il dolore e l’inferno della propria degradazione, anziché anticipare la morte, l’annientamento totale. Essi s’aggrappano ai prodotti della disintegrazione del Sé (Kohut), alle pulsioni, in un estremo sussulto della loro vitalità di fronte alla più totale disperazione]

 
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97 – Dance macabre – Pag. 176, 178, 180
 
Fière, autant qu’un vivant, de sa noble stature,
Avec son gros bouquet, son mouchoir et ses gants,
Elle a la nonchalance et la désinvolture
D’une coquette maigre aux airs extravagants.
 
Vit-on jamais au bal une taille plus mince ?
Sa robe exagérée, en sa royale ampleur,
S’écroule abondamment sur un pied sec qui pince
Un soulier pomponné, joli comme une fleur.
 
La ruche qui se joue au bord des clavicules,
Comme un ruisseau lascif qui se frotte au rocher,
Défend pudiquement des lazzi ridicules
Les funèbres appas qu’elle tient à cacher.
 
Ses yeux profonds son faits de vide et de ténèbres,
Et son crâne, de fleurs artistement coiffé,
Oscille mollement sur ses frêles vertèbres. 
O charme d’un néant follement attifé !
 
Aucuns t’appelleront une caricature,
Qui ne comprennent pas, amants ivres de chair,
L’élégance sans nom de l’humaine armature.
Tu répons, grand squelette, à mon goût le plus cher !
 
Viens-tu troubler, avec ta puissante grimace,
La fête de la Vie ? ou quelque vieux désir
Eperonnant encor ta vivante carcasse,
Te pousse-t-il, crédule, au sabbat du Plaisir ?
 
Au chant des violons, aux flammes des bougies,
Espères-tu chasser ton cauchemar moqueur,
Et viens-tu demander au torrent des orgies
De rafraîchir l’enfer allumé dans ton cœur ?
 
Inépuisable puits de sottise et de fautes !
De l’antique douleur éternel alambic !
A travers le treillis recourbé de tes côtes
Je vois, errant encor, l’insatiable aspic.
 
Pour dire vrai, je crains que ta coquetterie
Ne trouve pas un prix digne de tes efforts ;
Qui, de ces cœurs mortels, entend la raillerie ?
Les charmes de l’horreur n’enivrent que les forts !
 
Le gouffre de tes yeux, plein d’horribles pensées,
Exhale le vertige, et les danseurs prudents
Ne contempleront pas sans d’amères nausées
Le sourire éternel de tes trente-deux dents.
 
Pourtant, qui n’a serré dans ses bras un squelette,
Et qui ne s’est nourri des choses du tombeau ?
Qu’importe le parfum, l’habit ou la toilette ?
Qui fait le dégoûté montre qu’il se croit beau.
 
Bayadère sans nez, irrésistible gouge,
Dis donc à ces danseurs qui font les offusqués :
« Fiers mignons, malgré l’art des poudres et du rouge,
Vous sentez tous la mort ! O squelettes musqués,
 
Antinoüs flétris, dandys à face glabre,
Cadavres vernissés, lovelaces chenus,
Le branle universel de la danse macabre
Vous entraîne en des lieux qui ne sont pas connus !
 
Des quais froids de la Seine aux bords brûlant du Gange,
Le troupeau mortel saute et se pâme, sans voir
Dans un trou du plafond la trompette de l’Ange
Sinistrement béante ainsi qu’un tromblon noir.
 
En tout climat, sous tout soleil, la Mort t’admire
En tes contorsions, risible Humanité,
Et souvent, comme toi, se parfumant de myrrhe,
Mêle son ironie à ton insanité ! »
 

(Fiera, come un essere vivente, della sua nobile statura, / con il suo grande mazzo di fiori, il suo fazzoletto e i suoi guanti, / ella ha la noncuranza e la disinvoltura / di una magra civetta dall’aria stravagante. // Si vide mai al ballo una vita più sottile? / La sua veste esagerata, nella sua ampiezza regale, / cade abbondantemente su di un piede secco, stretto / da uno scarpino infiocchettato, grazioso come un fiore. // La ruche che si snoda al bordo delle clavicole, / come un ruscello lascivo che si strofina sulla roccia, / difende pudicamente dai lazzi beffardi / le formosità che essa tiene a nascondere. // I suoi occhi profondi son fatti di vuoto e di tenebre, / e il suo cranio, artisticamente coperto di fiori, / oscilla mollemente sulle sue esili vertebre. / O incanto d’un nulla follemente agghindato! // Ti dirà una caricatura qualcuno / che, ebbro di carne, non comprende / l’eleganza senza nome dell’umana armatura. / Tu rispondi, grande scheletro, ai miei gusti più cari! // Vieni forse a turbare, con la tua possente smorfia, / la festa della vita? O qualche antico desiderio, / speronando ancora la tua vivente carcassa, / ti spinge, credulo, al sabba del Piacere? // Al canto dei violini, alla fiamma delle candele, / speri tu di cacciare il tuo incubo beffardo, / e vieni a chiedere al torrente delle orge / di rinfrescare l’inferno acceso nel tuo cuore? // O inesauribile pozzo di dissennatezza e di colpe! / Eterno alambicco dell’antico dolore! / attraverso il traliccio ricurvo delle tue costole / vedo, ancora errante, l’insaziabile aspide. // A dire il vero, temo che la tua civetteria / non trovi un compenso degno dei tuoi sforzi; / chi, fra questi cuori mortali, capisce lo scherzo? / Le grazie dell’orrore non inebriano che i forti! // L’abisso dei tuoi occhi, pieno d’orribili pensieri, / esala la vertigine, ed i ballerini prudenti / non contempleranno senza nausee amare / il perenne sorriso dei tuoi trentadue denti. // Tuttavia, chi non ha stretta tra le sue braccia uno scheletro, / e chi non s’è nutrito con le cose della tomba? / Che cosa contano il profumo, l’abito, la toeletta? / Chi fa il disgustato, mostra di credersi bello. // Baiadera senza naso, sgorbio irresistibile, / di’ dunque a questi ballerini che fanno gli offesi: / “Tesorucci fieri, malgrado l’arte della cipria e del belletto, / puzzate tutti di morte! O scheletri profumati, // Antinoi sfioriti, dandy dal viso glabro, / cadaveri verniciati, donnaioli canuti, / l’impulso universale della danza macabra / vi trascina verso luoghi che nessuno conosce! // Dai freddi lungo-Senna ai bordi roventi del Gange, / il gregge dei mortali salta e s’inebria, senza vedere / in un buco del soffitto la tromba dell’Angelo / sinistramente spalancata come la tromba di un nero schioppo. // In ogni clima, sotto qualsiasi sole, la Morte ti contempla / nelle tue contorsioni, risibile Umanità, / e sovente, come fai tu, profumandosi di mirra, / mescola la sua ironia alla tua dissennatezza!”)

 

[Anche se gli esseri umani cercano di solito di renderla invisibile, la morte è onnipresente nell’esistenza di chiunque. La sua comparsa nel corso dell’esistenza (il momento in cui ci si accorge del suo carattere ineludibile) turba la “festa della vita”; una festa, in realtà, animata da un’allegria priva di fondamento. Chi, ebbro di piaceri carnali, non vuole essere distolto dalla sua “festa”, cercherà di soffocare il proprio turbamento prendendosi beffe della morte, trasformando la sua immagine perturbante in caricatura. Oppure, spinto dall’antico desiderio di non rinunciare mai, nonostante il suo carattere mortale, all’antico oggetto d’amore, ritornerà attraverso la negazione della consapevolezza adulta, all’ingenuità ed alla credulità infantili, e pretenderà di spingere questo “cadavere vivente” nel “torrente delle orge”, per lenire, attraverso l’ebbrezza del piacere, l’incubo infernale dell’annientamento. (È qui descritto, in termini poetici, il fondamento profondo della necrofilia: lo sforzo disperato di raggiungere l’oggetto d’amore anche al di là del confine con l’impossibile, superando la barriera invalicabile della morte). Il Poeta non vuole cedere a tali tentazioni: egli vuole preservare il sentimento della Bellezza ed il buon gusto che scaturirono dal rapporto d’amore più antico. Pur condividendo con il necrofilo “l’antico desiderio” di non arrendersi neppure di fronte alla morte, egli ne riconosce realisticamente la fonte: l’avidità (la “insaziabile aspide”) che si risvegliò di fronte a ciò che si opponeva alla vita, ma che finì per avvelenarla. Sa vedere, in tale brama, un pozzo colmo di colpe, di scelleratezze e di sofferenze inestinguibili. Sa riconoscere la sciocca ingenuità infantile di coloro che s’illudono di sfuggire alla morte (alla precarietà di tutte le cose) con la superficialità, la frivolezza e la vanità e che, pur profumati e imbellettati, “odorano di morte”. Esprime queste considerazioni per voce di una figura materna identificata con la morte (ossia pienamente consapevole di essa) che osserva, con un sorriso bonario ed ironico, le inutili “contorsioni” dei suoi figli che credono di godere pienamente della vita e che indietreggiano, disgustati e urtati, di fronte a ciò che è implicito nella vita stessa, ossia il suo essere destinata a deteriorarsi ed a finire. Solo pochi spiriti superiori, identificati con tale figura materna e resi forti grazie al suo realismo, al senso dell’ironia ed al sentimento della Bellezza, possono accostarsi alla morte senza reticenze, e coglierne il fascino.]

 
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98 – L’amour du mensonge – Pag. 180, 182
 
Quand je te vois passer, ô ma chère indolente
……………………………………………….
 
Quand je te contemple, aux feux du gaz qui le colore
Ton front pâle, embelli par un morbide attrait,
Où les torches du soir allument une aurore,
Et tes yeux attirant comme ceux d’un portrait,
 
Je me dis : Qu’elle est belle ! et bizarrement fraîche !
Le souvenir massif, royale et lourde tour,
La couronne, et son cœur, meurtri comme une pêche,
Est mûr, comme son corps, pour le savant amour.
 
Es-tu le fruit d’automne aux saveurs souveraines ?
Es-tu vase funèbre attendant quelques pleurs,
Parfum qui fait rêver aux oasis lointaines
Oreiller caressant, ou corbeille de fleurs ?
 
Je sais qu’il est des yeux, des plus mélancoliques,
Qui ne recèlent point de secrets précieux ;
Beaux écrins sans joyaux, médaillons sans reliques,
Plus vides, plus profonds que vous-mêmes, ô Cieux !
 
Mais ne suffit-il pas que tu sois l’apparence,
Pou réjouir un cœur qui fuit la vérité ?
Qu’importe ta bêtise ou ton indifférence ?
Masque ou décor, salut ! J’adore ta beauté.
 

(Quando ti vedo procedere, o mia cara indolente / […] // Quando contemplo, ai fuochi del gas che la colora, / la tua fronte pallida, abbellita da un morboso fascino, / in cui le torce della sera accendono un’aurora, / ed i tuoi occhi che attirano come quelli di un ritratto, // mi dico: Com’è bella e bizzarramente fresca! / Il ricordo, torre regale e massiccia, / l’incorona, e il suo cuore, ammaccato come una pesca, / è maturo, come il suo corpo, per un amore sapiente. // Sei tu il frutto d’autunno dai sapori regali? / Sei tu l’urna funebre in attesa di qualche lacrima, / il profumo che fa sognare oasi lontane, / guanciale carezzevole, o canestro di fiori? // Io so che ci sono occhi fra i più melanconici, / che non celano alcun segreto prezioso; / gradevoli scrigni senza gioielli, medaglioni senza reliquie, / più vuoti e più profondi di voi stessi, o Cieli! // Ma non basta che tu sia l’apparenza, / per rallegrare un cuore che fugge la verità? / Che importa la tua stupidità, o la tua indifferenza? / Maschera o messa in scena, ti saluto! Io adoro la tua bellezza!)

 

[Il fascino di una persona è costruito non meno attivamente da chi la guarda che dalla persona stessa. Ciò è particolarmente evidente quando la persona ammirata è una donna matura; oppure quando costei non possiede grandi risorse interiori, a dispetto di quanto le apparenze sembrerebbero suggerire. Qui l’aspetto esteriore della persona amata si fonde con un massiccio ricordo (di lei stessa giovane? Di un’altra donna del passato?) ed è accostato all’immagine di una pesca matura che, pur ammaccata e già in una fase iniziale di deterioramento, offre ancora a chi la coglie tutta la sua dolcezza (il Poeta ha, qui, in mente il “Canestro di frutta” del Caravaggio?). Si tratta di un fascino sensuale a creare il quale concorrono anche la sensibilità, l’immaginazione e l’affetto di chi lo avverte. L’incanto deve essere preservato da qualsiasi aspetto della realtà, percepibile al di là delle apparenze, che tenderebbe a distruggerlo: il potere suggestivo dell’esteriorità “menzognera” è una preziosa realtà che dev’essere custodita gelosamente. Gli esseri più superficiali, abbagliati dall’illusione, chiudono gli occhi di fronte alla realtà; quando, poi, li riaprono, l’illusione si dissolve. Il Poeta, pur consapevole della realtà esterna, tuttavia mantiene viva in sé l’illusione, in quanto fonte di fascino e di Bellezza.]

 
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100 – Pag. 184
 
La servante au grand cœur dont vous étiez jalouse,
Et qui dort son sommeil sous une humble pelouse,
Nous devrions pourtant lui porter quelques fleurs.
Les morts, les pauvres morts, ont de grandes douleurs,
Et quand Octobre souffle, émondeur des vieux arbres,
Son vent mélancolique à l’entour de leurs marbres,
Certes, ils doivent trouver les vivants bien ingrats,
A dormir, comme ils font, chaudement dans leurs draps,
Tandis que, dévorés de noires songeries,
Sans compagnon de lit, sans bonnes causeries,
Vieux squelettes gelés travaillés par le ver,
Ils sentent s’égoutter les neiges de l’hiver
Et le siècle couler, sans qu’amis ni famille
Remplacent les lambeaux qui pendent à leur grille.
 
Lorsque la bûche siffle et chante, si le soir,
Calme, dans un fauteuil je la voyais s’asseoir,
Si, par une nuit bleue et froide de décembre,
Je la trouvais tapie en un coin de ma chambre,
Grave, et venant du fond de son lit éternel
Couver l’enfant grandi de son œil maternel,
Que pourrais-je répondre à cette âme pieuse,
Voyant tomber des pleurs de sa paupière creuse ?
 

(La serva dal gran cuore che t’ingelosiva / dorme il suo sonno sotto un umile prato; / eppure dovremmo portarle un po’ di fiori. / I morti, i poveri morti hanno grandi dolori; / e quando Ottobre soffia, potatore di vecchi alberi, / il suo malinconico vento attorno ai loro marmi, / devono certo trovare i viventi ben ingrati, / a dormire, come fanno, al caldo dei loro lenzuoli, / mentre essi, divorati da cupe fantasticherie, / senza un compagno di letto, senza buone conversazioni, / vecchi scheletri gelati tormentati dai vermi, / sentono sgocciolare le nevi dell’inverno / e trascorrere il secolo, senza che amici o famiglia / rimpiazzino i brandelli che pendono dalla loro grata. // Se la sera, quando il ceppo sibila e canta, / io la vedessi sedersi tranquilla, / se una notte azzurra e fredda di dicembre / la trovassi rannicchiata in un angolo della mia stanza, / seria, venuta dal suo letto eterno / per coccolare il bambino cresciuto col suo occhio materno, / che cosa potrei rispondere a quest’anima pia, / vedendole cadere lacrime dalle sue palpebre infossate?)

 

[Se si tratta di nostri simili, è inevitabile attribuire loro esperienze soggettive analoghe alle nostre. Sappiamo che ciò non può valere per i morti, eppure attribuiamo loro gli stessi sentimenti che proveremmo noi vivi nella loro condizione: soli, privati di ogni forma d’affetto e di calore umano, destinati ad essere dimenticati. Dall’immaginario mondo interno dei morti, l’attenzione del Poeta si sposta a quello, reale, dei vivi posti di fronte a chi non c’è più. L’immagine della vecchia governante che, anche morta, vorrebbe continuare a coccolare il suo “bambino cresciuto” e che piange di fronte all’impossibilità di farlo, si presta a descrivere quel misto di tenerezza e di orrore che proviamo verso chi è scomparso (anche parzialmente scomparso, come una persona molto anziana e mentalmente decaduta): è ciò che c’impedisce di entrare in relazione con lui/lei.]

 
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102 – Rêve parisien
I – Pag. 186, 188
 
De ce terrible paysage,
Tel que jamais mortel n’en vit,
Ce matin encore l’image,
Vague et lointaine, me ravit.
 
Le sommeil est plein de miracles !
Par un caprice singulier,
J’avais banni de ces spectacles
Le végétal irrégulier,
 
Et, peintre fier de mon génie
Je savourais dans mon tableau
L’enivrante monotonie
Du métal, du marbre et de l’eau.
 
Babel d’escalier et d’arcades
C’était un palais infini
Plein de bassins et de cascades
Tombant dans l’or mat ou bruni ;
 
Et des cataractes pesantes,
Come des rideaux de cristal,
Se suspendaient, éblouissantes,
A des murailles de métal.
 
Non d’arbres, mais de colonnades
Les étangs dormants s’entouraient,
Où des gigantesques naïades,
Comme des femmes, se miraient.
…………………………………………….
 
Insouciants et taciturnes,
Des Ganges, dans le firmament,
Versaient le trésor de leurs urnes
Dans des gouffres de diamant.
 
Architecte de mes féeries,
Je faisais, à ma volonté,
Sous un tunnel de pierreries
Passer un océan dompté
 
……………………………………………
 
Nul astre d’ailleurs, nuls vestiges
De soleil, même au bas du ciel,
Pour illuminer ces prodiges,
Qui brillaient d’un feu personnel !
 
Et sur ces mouvantes merveilles
Planait (terrible nouveauté !
Tout pour l’œil, rien pour les oreilles !)
Un silence d’éternité.
 
II – Pag. 190
 
En rouvrant mes yeux pleins de flamme
J’ai vu l’horreur de mon taudis,
Et senti, rentrant dans mon âme,
La pointe des soucis maudits ;
 
La pendule aux accents funèbres
Sonnait brutalement midi
Et le ciel versait des ténèbres
Sur le triste monde engourdi.
 

(I: Di quel terribile paesaggio, / tale che mai mortale ne vide uno, / ancora stamattina l’immagine, / vaga e lontana, mi rapisce. // Il sonno è pieno di miracoli! / Per un singolare capriccio, / avevo bandito da questi spettacoli / i vegetali irregolari; // e, pittore fiero del mio genio, / assaporavo nel mio quadro / l’inebriante monotonia / del metallo, del marmo e dell’acqua. // Babele di scalinate e d’arcate, / era un palazzo infinito / pieno di bacini e di cascate / che cadevano nell’oro opaco o brunito; // e cateratte pesanti, / come tende di cristallo, / stavano sospese, scintillanti, / a muraglie di metallo. // Non da alberi, ma da colonnati / gli stagni dormienti si circondavano, / dove naiadi gigantesche, / come donne, si specchiavano. // […] // Noncuranti e taciturni, / dei Gangi, nel firmamento, / versavano il tesoro delle loro urne / in abissi di diamanti. // Architetto delle mie fantasmagorie, / a mio capriccio facevo, / sotto un tunnel di gemme, / passare un oceano domato. // […] // D’altronde nessun astro, nessuna traccia / di sole, neppure all’orizzonte / per illuminare quei prodigi / che splendevano di un proprio fuoco! // E su quelle mobili meraviglie / Incombeva (terribile novità! / tutto per l’occhio, nulla per l’orecchio!) / un silenzio d’eternità. – II: Riaprendo i miei occhi pieni di fiamme / ho visto l’orrore del mio tugurio, / e sentito, rientrando nella mia anima, / la punta delle maledette tribolazioni; // la pendola dai funebri rintocchi / suonava brutalmente mezzogiorno, / e il cielo riversava le sue tenebre / sul triste mondo intorpidito.)

 

[Nel sogno, il Poeta pone, al posto degli esseri viventi e delle cose concrete, entità inanimate, splendenti di luce propria e perfettamente dominabili, fra cui prevale l’elemento liquido. La loro regolarità, la loro immutabilità, appaiono fatte su misura per la mente umana. Forme eterne e di dimensioni infinite ma prive dei cambiamenti e dei suoni della vita: il terribile silenzio. Il sogno sembra la rappresentazione di una difesa regressiva dalle irregolarità ed incognite della vita reale, già scoperte nel rapporto precoce con il primo oggetto d’amore e già intuite al momento della nascita: il rifugiarsi in una fantasia di esistenza astratta, atemporale ed incorporea, evocativa della vita intra-uterina. Al Poeta, tuttavia, non sfugge che questa è l’immutabilità della morte; e tuttavia egli assapora tutta la bellezza della scena, riportandone ogni minimo dettaglio. Il paradosso è che la vita reale, ritrovata al risveglio, non è meno evocativa della morte: oltre che da miseria e tribolazioni, essa è caratterizzata dai “rintocchi funebri” della pendola, ossia dal tempo vissuto come mortifero: esso separa inesorabilmente, “brutalmente”, dal mondo dei sogni e, con esso, dall’antica esistenza e dal primo oggetto d’amore,]

 
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   III Le vin
 

In questa sezione dei Fleurs du mal, Baudelaire dà prova di tutta la sua sensibilità e delle sue capacità riparative. La sensibilità gli consente di cogliere specifiche situazioni umane in un gruppo d’individui che, per chi si non va oltre la loro comune dipendenza dall’alcol, potrebbe apparire come un “gregge” anonimo ed omogeneo. Le capacità riparative lo portano a “dare in prestito” la sua facoltà di creare reverie a queste persone che non la posseggono. Come tutti i “Lotofagi”, gli alcolisti sono pressoché privi di capacità d'elaborare mentalmente i conflitti, di darsi una rappresentazione dei propri contenuti interiori; fatto, questo, legato ad un mancato superamento della posizione depressiva, alla conseguente carenza dei processi di simbolizzazione e alla ricerca di esperienze non di carattere sostitutivo dei rapporti con l'oggetto arcaico, ma confusivo. Baudelaire ricava, dai “sogni abortiti” che caratterizzano l’ebbrezza di queste persone, immagini che riflettono la loro specifica esperienza vissuta e restituiscono a ciascuno la sua particolare natura.

 
104 – L’âme du vin – Pag. 196
 
Un soir l’âme du vin chantait dans les bouteilles :
« Homme, vers toi je pousse, ô cher déshérité,
Sous ma prison de verre e mes cires vermeilles,
Un chant plein de lumière et de fraternité !
 
Je sais combien il faut, sur la colline en flamme,
De peine, de sueur et de soleil cuisant
Pour engendrer ma vie et pour me donner l’âme ;
Mais je ne serai point ingrat ni malfaisant,
 
Car j’éprouve une joie immense quand je tombe
Dans le gosier d’un homme usé par ses travaux,
Et sa chaude poitrine est une douce tombe
Où je me plais bien mieux que dans mes froids caveaux.
 
Entends-tu retentir les refrains des dimanches
Et l’espoir qui gazouille en mon sein palpitant ?
Les coudes sur la table et retroussant tes manches,
Tu me glorifieras et tu seras content ;
 
J’allumerai les yeux de ta femme ravie ;
A ton fils je rendrai sa force et ses couleurs
Et serai pour ce frêle athlète de la vie
L’huile qui raffermit les muscles des lutteurs.
 
En toi je tomberai, végétale ambroisie,
Grain précieux jeté par l’éternel Semeur,
Pour que de notre amour naisse la poésie
Qui jaillira vers Dieu comme une rare fleur ! »
 

(Una sera l’anima del vino cantava nelle bottiglie: / uomo, caro diseredato, io emetto, / dalla mia prigione di vetro e dalle mie vermiglie cere, / un canto pieno di luce e di fratellanza! // So bene quanto occorrono, sulla collina in fiamme, / pena, sudore, sole cocente / per generare la mia vita e darmi l’anima; / ma non sarò per nulla ingrato e nocivo, // poiché provo una gioia immensa quando scendo / nella gola di un uomo logorato dal lavoro / ed il suo caldo petto è una dolce tomba / dove sto molto più volentieri che nelle fredde cantine. // Senti tu risuonare i ritornelli domenicali / e la speranza che gorgoglia nel mio seno palpitante? / I gomiti sul tavolo, le maniche rimboccate, / tu mi glorificherai e tu sarai felice; // io accenderò gli occhi della tua donna affascinata; / a tuo figlio ridarò forza e colori / e sarò, per questo fragile atleta della vita / l’olio che rassoda i muscoli dei lottatori. // Cadrò dentro di te, ambrosia vegetale, / grano prezioso gettato dall’eterno Seminatore, / perché dal nostro amore nasca la poesia / che emergerà verso Dio come un raro fiore!”)

 

[Rapporto col vino, vissuto come oggetto idealizzato, fondendosi col quale le fantasie sadico-orali e le tendenze autodistruttive sembrano scomparire: ne viene negata la sua stessa tossicità. Il Poeta traduce l’esperienza di una confusa sensazione di euforia, prodotta dal bere, nella fantasia (evocativa di una situazione arcaica) di un essere che vive esclusivamente in funzione di colui cui offre nutrimento ed è ben lieto d’essere come “divorato”: di trovare, nella gola di chi lo consuma, la sua “tomba”. È la rappresentazione di un rapporto idilliaco in cui la gratificazione dell’uno comporta la valorizzazione dell’altro e viceversa. Scompare, qui, la differenza fra il ruolo di chi nutre e quello di chi è nutrito: è il vino a dovere benevolenza e gratitudine; è il bevitore che acquista una fecondità materna e si eleva al di sopra delle cose, fino a raggiungere Dio. Ciò che è qui descritto sembra uno stato “maniforme” in cui l’effetto chimico dell’alcol produce un’effimera e mal definita euforia “sine materia” in un essere che resta, oggettivamente, diseredato, logorato dal lavoro. Il Poeta ci farà intravvedere qualcosa di potenzialmente ed autenticamente benefico nella poesia che segue.]

 
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105 – Le vin des chiffonniers – Pag. 198
 
Souvent, à la clarté rouge d’un réverbère
Dont le vent bat la flamme et tourmente le verre,
Au cœur d’un vieux faubourg, labyrinthe fangeux
Où l’humanité grouille en ferments orageux,
 
On voit un chiffonnier qui vient, hochant la tête,
Buttant, et se cognant aux murs comme un poète,
Et, sans prendre souci des mouchards, ses sujets,
Epanche tout son cœur en glorieux projets.
 
Il prête des serments, dicte des lois sublimes,
Terrasse les méchants, relève les victimes,
Et sous le firmament comme un dais suspendu
S’enivre des splendeurs de sa propre vertu.
 
Oui, ces gens harcelés de chagrins de ménage,
Moulu par le travail et tourmentés par l’âge,
Ereintés et pliant sous un tas de débris,
Vomissement confus de l’énorme Paris,
 
Reviennent, parfumés d’une odeur de futailles,
Suivis de compagnons, blanchis dans les batailles,
Dont la moustache pend comme les vieux drapeaux.
Les bannières, les fleurs et les arcs triomphaux
 
Se dressent devant eux, solennelle magie !
Et dans l’étourdissante et lumineuse orgie
Des clairons, du soleil, des cris et du tambour,
Ils apportent la gloire au peuple ivre d’amour !
 
C’est ainsi qu’à travers l’Humanité frivole
Le vin roule de l’or, éblouissant Pactole ;
Par le gosier de l’homme il chante ses exploits
Et règne par ses dons ainsi que les vrais rois.
 
Pour noyer la rancœur et bercer l’indolence
De tous ces vieux maudits qui meurent en silence,
Dieu, touché de remords, avait fait le sommeil ;
L’Homme ajouta le Vin, fils sacré du Soleil !
 

(Spesso, al chiarore rossastro di un lampione / di cui il vento sbatte la fiamma e tormenta il vetro, / nel cuore di un vecchio sobborgo, labirinto fangoso, / dove l’umanità brulica in fermenti tempestosi, // si vede uno straccivendolo che procede, scuotendo la testa, / incespicando e urtandosi ai muri come un poeta, / e, senza curarsi degli spioni, suoi sudditi, / aprire tutto il suo cuore a gloriosi progetti. // Egli presta giuramenti, detta leggi sublimi, / doma i malvagi, risolleva le vittime, / e, sotto il firmamento sospeso come un pergolato, / s’inebria degli splendori della propria virtù. // Sì, questi individui assillati da pene famigliari, / sfibrati dal lavoro, tormentati dalla vecchiaia, / stremati e piegati sotto una massa di rottami, / vomito confuso dell’enorme Parigi, / riemergono, odorosi di botte, / seguiti da compagni incanutiti nelle battaglie, / i cui baffi pendono come vecchie bandiere. / Gli stendardi, i fiori e gli archi trionfali // sorgono innanzi a loro, solenne magia! / E nell’assordante e splendente orgia / delle trombe, del sole, delle grida e dei tamburi, / riportano la gloria ad un popolo ebbro d’amore! // È così che, in mezzo all’umanità frivola, / il vino trasporta l’oro, sfolgorante Pattòlo; / attraverso la gola dell’uomo canta le sue gesta / e regna, per mezzo dei suoi doni, come i veri re. // A soffocare il rancore e cullare l’indolenza / di tutti questi vecchi maledetti che muoiono in silenzio, / Dio, preso dal rimorso, aveva creato il sonno; / l’Uomo aggiunse il Vino, figlio sacro del Sole)  

 

[Anche qui viene descritto uno stato maniforme provocato dall’ebbrezza. Sappiamo che, a livello neurofisiologico, ciò corrisponde al blocco dei centri inibitori superiori. Il Poeta, però, ci parla dell’esperienza vissuta, che è quella di un ritrovato contatto con un Oggetto Arcaico a carattere “rispecchiante”, ossia capace di sostenere ed alimentare il Sé grandioso del soggetto. È, oltre al sonno, l’unica consolazione per un’esistenza fatta di stenti, vecchiaia e solitudine. È, tuttavia, da notare che qui non ci sono soltanto vaghe sensazioni a carattere euforico: compaiono vere e proprie fantasie grandiose. Al di sotto dell’abbrutimento prodotto da condizioni sociali infami e dal deterioramento fisico, riemerge, per azione dell’alcol a questo stadio, una residua vitalità. Se la cosa è destinata a rimanere fine a sé stessa (come tappa di un percorso che porterà al completo deterioramento psico-fisico ed alla demenza), oppure essere il primo segno di un processo di risanamento, ciò dipende dalla sensibilità e dalla sollecitudine di chi si prende cura di queste persone. Se si riesce a risvegliare, anche in stato di sobrietà, le stesse manifestazioni della configurazione narcisistica primitiva fatta riemergere dall’alcol, è possibile che ciò costituisca il punto di partenza di un percorso evolutivo che può portare ad una “guarigione del Sé” in cui rientra anche il superamento della tossicodipendenza.]

 
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106 – Le vin de l’assassin – Pag. 200, 202
 
Ma femme est morte, je suis libre !
Je puis donc boire tout mon soûl.
Lorsque je rentrais sans un sou,
Ses cris me déchiraient la fibre.
 
Autant qu’un roi je suis heureux ;
L’air est pur, le ciel admirable…
Nous avions un été semblable
Lorsque j’en devins amoureux !
 
L’horrible soif qui me déchire
Aurait besoin pour s’assouvir
D’autant de vin qu’en peut tenir
Son tombeau ; ce n’est pas peu dire :
 
Je l’ai jetée au fond d’un puits
Et j’ai même poussé sur elle
Tous les pavés de la margelle.
Je l’oublierai si je le puis !
 
Au nom des serments de tendresse,
Dont rien ne peut nous délier,
Et pour nous réconcilier
Comme au beau temps de notre ivresse, 
 
J’implorai d’elle un rendez-vous,
Le soir, sur une route obscure.
Elle y vint ! folle créature !
Nous sommes tous plus ou moins fous !
 
Elle était encore jolie,
Quoique bien fatiguée ! et moi,
Je l’aimais trop ! voilà pourquoi
Je lui dis : Sors de cette vie !
 
Nul ne peut me comprendre. Un seul
Parmi ces ivrognes stupides
Songea-t-il dans ses nuits morbides
A faire du vin un linceul ?
 
Cette crapule invulnérable
Comme les machines de fer
Jamais, ni l’été ni l’hiver,
N’a connu l’amour véritable,
 
Avec ses noirs enchantements,
Son cortège infernal d’alarmes,
Ses fioles de poison, ses larmes,
Ses bruits de chaȋne et d’ossements !
 
 
Me voilà libre et solitaire !
Je serai ce soir ivre-mort ;
Alors, sans peur et sans remord,
Je me coucherai sur la terre,
 
Et je dormirai comme un chien !
Le chariot aux lourdes roues
Chargé de pierres et de boues,
Le wagon enragé peut bien
 
Ecraser ma tête coupable
Ou me couper par le milieu
Je m’en moque comme de Dieu,
Du Diable ou de la Sainte Table !
 

(Mia moglie è morta, sono libero! / Posso dunque bere a sazietà. / quando rientravo senza un soldo, / i suoi urli mi laceravano fin dentro alle fibre. // Sono felice come un re; / l’aria è pura, il cielo stupendo… / Abbiamo avuto un’estate simile / quando m’innamorai di lei! // L’orribile sete che mi strazia, avrebbe bisogno, per saziarsi, / di tanto vino quanto ne può contenere / la sua tomba; e non è dire poco: // l’ho buttata in fondo ad un pozzo, / ed ho persino gettato su di lei / tutte le pietre del muretto. / La dimenticherò, se posso! // In nome dei teneri giuramenti, / che nulla può sciogliere, / e per riconciliarci / come ai bei tempi della nostra ebbrezza, // implorai un appuntamento / la sera, in una strada scura. / e venne, folle creatura! / Siamo tutti, più o meno, dei folli! // Era ancora così graziosa, / anche se tanto stanca! E io / l’amavo troppo! Ecco perché / le dissi: esci da questa vita! // Nessuno può capirmi. Uno solo / fra questi stupidi ubriaconi / pensò mai, nelle sue notti morbose / a fare del vino un sudario? // Questa loro crapula invulnerabile / come gli automi di ferro / mai, né l’estate né l’inverno / ha conosciuto il vero amore, // coi suoi neri incantesimi, / il suo corteo infernale d’allarmi, / le sue fiale di veleno, le sue lacrime, / il suo strepito di ossa e di catene! // Eccomi, libero e solo! / Questa sera sarò ubriaco fradicio; / allora, senza paura né rimorsi, / mi coricherò per terra, // e dormirò come un cane! / Il carro dalle ruote pesanti / carico di pietre e di fango, / il vagone infuriato può ben // schiacciare la mia testa colpevole / o troncarmi a metà. / Io me ne infischio di Dio, / del Diavolo e della Sacra Mensa!) 

 

[Freud definiva il Superio come quell’aspetto della vita psichica “solubile nell’alcol”. Una delle motivazioni alla base dell’alcolismo è l’esigenza di neutralizzare un Superio eccessivamente severo e primitivo, ossia un’istanza morale che sa solo produrre intollerabili sensi di colpa ed è incapace di aiutare il soggetto a prevenire le azioni colpevoli o a ripararne i danni. Nella poesia, l’alcol non ha distrutto del tutto i sentimenti del soggetto per la moglie; i sensi di colpa nei suoi confronti sono quindi insopportabili, ed egli è spinto a sopprimerne la causa (la donna stessa) con la violenza omicida. Compare dapprima un sentimento d’esultanza legato alla negazione dell’amore per la vittima. Questo stato maniacale, tuttavia, s’interrompe nel momento in cui il soggetto ricorda con nostalgia l’estate in cui s’innamorò della donna. Qui il senso di colpa accenna a risvegliarsi e, nel contempo, il soggetto avverte acutamente un insopportabile sentimento di perdita e di vuoto. Ciò scatena un’avidità insaziabile. Se, in un primo momento d’euforia, liberatosi della moglie, il soggetto si era illuso di poter finalmente bere “a sazietà”, ora tale appagamento si rivela impossibile: l’obbiettivo di liberarsi del tutto dai sentimenti di colpa, e di fondersi con un oggetto idealizzato (rappresentato dall’alcol), scisso da quello reale, si rivela irraggiungibile. Egli non può, come gli altri ubriaconi (più stupidi di lui, meno legati ad un essere umano) rendersi, con la crapula, invulnerabile a tutte le pene che l’amore, inevitabilmente, comporta. Tuttavia, incapace di tollerare separazioni, perdite e sensi di colpa, egli usa l’alcol come strumento di morte: il vino sopprime in lui quei sentimenti di rimorso e di paura che gl’impedirebbero, sdraiandosi addormentato in una strada, di lasciare che il suo “capo colpevole” sia schiacciato da un carro, o che il suo corpo sia fatto a pezzi da un vagone; con la morte, egli si ricongiungerà al suo oggetto di un amore tormentoso ma irrinunciabile. L’alcolista assassino conclude il suo monologo (e probabilmente la sua vita) con un’espressione estrema di sfida contro tutte le potenze, del mondo esterno e interno, che si oppongono alla sua fierezza: Dio, il Diavolo, la riprovazione degli altri, i suoi sensi di colpa. Quella che è un’evidente autopunizione (in quanto tale, ricercata e non subìta) diviene, per lui, un atto di trionfo.]

 
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107 – Le vin du solitaire – Pag. 202, 204
 
Le regard singulier d’une femme galante
Qui se glisse vers nous comme le rayon blanc
Que la lune onduleuse envoie au lac tremblant,
Quand elle y veut baigner sa beauté nonchalante ;
 
Le dernier sac d’écus dans les doigts d’un joueur ;
Un baiser libertin de la maigre Adeline ;
Les sons d’une musique énervante et câline,
Semblable au cri lointain de l’humaine douleur,
 
Tout cela ne vaut pas, ô bouteille profonde,
Les baumes pénétrants que ta panse féconde
Garde au cœur altéré du poète pieux ;
 
Tu lui verses l’espoir, la jeunesse et la vie,

Et l’orgueil, ce trésor de toute gueuserie,
Qui nous rend triomphants et semblables aux Dieux !
 

    (Lo sguardo strano di una donna galante / che s’insinua verso di noi come il raggio bianco / che la luna ondeggiante invia al lago tremolante, / quando vuol bagnarvi la sua bellezza indolente; // l’ultima borsa di monete fra le dita di un giocatore; / un bacio libertino della magra Adelina; / i suoni di una musica irritante e carezzevole, / simile al grido lontano del dolore umano: // tutto ciò non vale, o bottiglia profonda, / i balsami penetranti che il tuo ventre fecondo / custodisce per il cuore assetato del pio poeta. // Tu gl’infondi la   speranza, la giovinezza, la vita, / e l’orgoglio, questo tesoro dei mendicanti, / che ci rende trionfanti e simili agli Dei!

 

[L’alcolista solitario avverte un vuoto interiore, gli manca una presenza stabile interna, eredità degli antichi rapporti d’amore. Non può, perciò, bastargli un contatto con gli oggetti buoni del mondo esterno (lo sguardo di desiderio o anche il bacio di una donna), per lui troppo fuggevole e incapace di soddisfare la sua fame d’amore. La musica, poi, è per lui tormentosa: carezzevole, lo rimanda ad esperienze di tenerezza irrimediabilmente perdute; è, quindi, per lui irritante e straziante. Ha, perciò, bisogno d’incorporare concretamente un oggetto che, senza la mediazione di strutture separative interne, gli produca direttamente una sensazione di vitalità e soprattutto un senso d’orgoglio, di trionfo su tutto ciò che di frustrante ha conosciuto la sua vita.]

 
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108 – Le vin des amants – Pag. 204
 
Aujourd’hui l’espace est splendide !
Sans mors, sans éperons, sans bride,
Partons à cheval sur le vin
Pour un ciel féerique et divin !
 
Comme deux anges que torture
Une implacable calenture,
Dans le bleu cristal du matin
Suivons le mirage lointain !
 
Mollement balancés sur l’aile
Du tourbillon intelligent,
Dans un délire parallèle,
 
Ma sœur, côte à côte nageant,
Nous fuirons sans repos ni trêves
Vers le paradis de mes rêves !
 

(Oggi lo spazio è splendido! / Senza morsi, senza speroni, senza briglie, / partiamo a cavallo su vino / verso un cielo fiabesco e divino! // Come due angeli che tortura / un’implacabile contrarietà, / nel cristallo azzurro del mattino / seguiamo il lontano miraggio! // Mollemente cullati sull’ala / del turbine intelligente, / in un delirio parallelo, // sorella, nuotando affiancati, / fuggiremo senza riposo né tregua / verso il paradiso dei miei sogni!)

 

[Il vino annulla tutte le pastoie della realtà che limitano e banalizzano il rapporto d’amore, e che sono insopportabili per questi amanti nostalgici del “Paradiso perduto”. La passione che così si sprigiona, come un vigoroso destriero, o un turbine “intelligente” (in quanto orientato e diretto ad una meta precisa), conduce i due amanti verso quello che, nella vita abituale, non è che un “miraggio” lontano: il “paradiso dei sogni”, ossia l’Eden originario dove ogni desiderio è appagato.]

 
 

Bibliografia – Parte II
  1. Baudelaire Charles (1861) I fiori del male (Garzanti 1981)
  2. Bion Wilfred R. (1963) Elements of Psycho-analysis (Maresfield Reprints 1984)
  3. Freud Sigmund (1919) Il perturbante (O.S.F. Vol. 9 – Boringhieri 1977)
  4. Kohut Heinz (1977) La guarigione del Sé (Boringhieri 1980)
  5. Loewald (1979) The waning of the Oedipus complex (in: Papers on Psychoanalysis – Yale Univ. Press 1980)
  6. Nanni Sabino – Rossi Romolo (1991) Alma Mater: musica dell’oggetto perduto. L’“Adagietto” della quinta di Mahler (“Gli Argonauti” vol. 50, pag. 225)
  7. Ogden Thomas H. (2006) Reading Loewald: Oedipus reconceived (Int. J. Psychoanal. Vol. 87, N° 3, pag. 651)
  8. Rossi Romolo (1980) I Lotofagi (Riv. di Psicoanalisi Vol. 26, pag. 359)
  9. Shakespeare William (1601?) Amleto (Signorelli 1958)

 
 
 

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