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Breve storia della clinica sistemica (intermezzo metodologico)

22 Mar 16

A cura di Pietro Barbetta

Questo contributo, più che una continuazione della storia, va letto come un intermezzo metodologico. La scrittura prevede sempre la presenza del soggetto scrivente. Si tratta quindi di partire dalla presa di posizione del soggetto. Foucault sosteneva che il conoscere non consiste nel comprendere, ma nel prendere posizione. Ogni evento accade in connessione con altri eventi e, se la cultura è “una sezione finita dell'infinità priva di senso del divenire storico del mondo, a cui è dato senso in base all'uomo”, come scrisse Max Weber, quell'uomo non è un'illusione trascendentale, un Io puro, questo Io trascurerebbe “le modalità d'implicazione del soggetto nei discorsi” (Foucault).

La mia storia della clinica sistemica non è “la storia” della clinica sistemica, neppure una storia della clinica sistemica “eurocentirica” o “milanocentrica”, no, è proprio la mia. Forse è “ego-centrica”. Io la chiamerei “intima”, strettamente dipendente dai miei ricordi e dai ricordi di che cosa entusiasmava le nostre esperienze a Milano negli anni Ottanta, dopo il bagno anitipsichiatrico degli anni Settanta, e successivamente, fino ai giorni nostri.

Se scrivo di Micheal White, non intendo Michel White, intendo l'entusiasmo che le sue idee crearono a Milano, se parlo della rottura Bateson/Haley, intendo riferirmi, in primo luogo, alla lettura, in quegli anni, del libro curato da Carlos Sluzki e Donald Ramson sul doppio legame, che ci rivelò di un dissidio sul “potere”. In fondo, l'obiezione di Bateson somiglia all'analisi di Foucault sul potere/sapere, nella società moderna, il sapere crea l'illusione del potere.

Bateson è un outsider, rifiuta l'idea del potere di Haley, così come Antigone si ribella al potere di Creonte, che impone di lasciare i cadaveri dei nemici senza sepoltura e rende onore funebre al fratello. Quando Creonte le chiede conto di questo, risponde: “per me questa non è una legge di Zeus”, Hölderlin trasforma il dativo in possessivo, una questione intima, di affetti: “il mio Zeus non me lo impose”. Il dio di Antigone è personale, qualcuno che sente le tue preghiere e se ne dà cura, polys versus philia. Somiglia al concetto di Sacro in Bateson.

Ebbene, io sto da questa parte, mi è impossibile essere “obiettivo”, avrei scelto di fare lo storico, non il clinico, la mia pratica clinica mi ha portato a cercare di sottrarmi a una posizione di potere. Qualcuno dirà che si tratta di un paradosso. È vero, ho imparato che la pratica clinica consiste nel seguente paradosso: il processo di sottrazione al potere/sapere del terapeuta. Fedele all'idea di Freud: “Dove si era, io diventerò”, l'imperativo clinico di Heinz von Foerster: “Dovrei sempre agire in maniera da accrescere il novero delle mie scelte”, significa, per me, che la terapia è un processo di liberazione, che termina con l'ultimo atto: la liberazione dal terapeuta.

La realtà esiste, è ciò che opprime, appartiene alla memoria di chi soffre, di chi è oppresso. La connotazione positiva non è indorare la pillola, né sottostare al divieto di parlare del “problema”. Positivo deriva dal latino positum, non c'è nulla di ottimistico o di successfull nel termine, significa riconoscere l'altro, ricostruire il passato a partire dal futuro. Non dimenticare il passato, semmai riconoscerlo, rintracciarlo come esperienza da ricordare, come nei sogni di Primo Levi, contro l'indifferenza.

Invero, dal mio punto di osservazione, la posizione di Gianfranco Cecchin e quella di Luigi Boscolo non era la stessa su diverse cose. Questa differenza marcava anche una differenza di stile nella conduzione della conversazione terapeutica. L'anima psicoanalitica di Boscolo era sempre accesa, egli amava leggere e rileggere le dinamiche familiari attraverso l'arte delle lenti. Oltre alla lente sistemica, Boscolo usava la lente psicoanalitica.

Cecchin aveva sviluppato, dentro un approccio conversazionale, un metodo paradossale che non aveva del tutto abbandonato le strategie, benché queste fossero decostruite e si trasformassero in micro-strategie. In questo modo, Cecchin aveva dato un contributo all'idea post-moderna, che critica le meta-narrazioni e propone solo micro-narrazioni. Ben presto però il post-modernismo si trasformò a sua volta in paradosso: si presentava come “novità”, ricalcando il modello di comunicazione tipico della modernità, riassunto da Barnett Pearce nel circolo: “questo è nuovo, va celebrato, è invecchiato, va sostituito”. Più che sul piano teorico, l'arte di Cecchin va ricercata su quello della conduzione della seduta con la famiglia, la capacità di introdurre un'ironia rispettosa.

Boscolo invece si era appassionato alla questione del tempo. Aveva sviluppato, in un libro scritto con Paolo Bertrando, un concetto di tempo in ognuna delle sue valenze: passato, presente, futuro, ma anche nei modi: indicativo, congiuntivo. Per Boscolo il positum consisteva nell'esistenza del passato, la realtà condivisa dai membri della famiglia, oppure le realtà profondamente diverse descritte dai singoli componenti durante la seduta. Boscolo diceva spesso che la terapia consiste nella relazione terapeutica e che, se non entri nella dimensione del passato, non crei la relazione. Il pensiero congiuntivo, che si crea attraverso le domande riflessive – sul passato, sul presente e sul futuro – aiuta i soggetti della terapia a esplorare mondi possibili.

Ho visto poi altri colleghi fare terapia e consulenza, ognuno con uno stile che ha a che fare con le proprie teorie di riferimento, ma anche con un insieme di esperienze vissute, di tradizioni culturali, religiose, familiari. Di ciò scriverò in una delle prossime puntate. Forse la prossima, che sarà dedicata agli stili terapeutici.

Se Cecchin era un decostruzionista clinico, l'anima di Boscolo, sul piano filosofico, rappresentava l'incontro tra una fenomenologia psicoanalitica e la teoria dei mondi possibili.

Nel caso di Cecchin, l'enfasi cadeva su una spinta al cambiamento, mentre l'anima psicoanalitica di Boscolo lo conduceva a ragionare sul tempo, per lui, ciò che contava era la relazione terapeutica.

Quando sostengo che questa breve storia è la mia storia, non intendo una storia idiosincrasica, io ho avuto interazioni lunghe e brevi, compagni e maestri che sono stati importanti per la mia formazione. In questo senso la mia storia è la storia di un soggetto collettivo, un testimone.

Forse mi sono ripetuto, ma penso che sia giunto il tempo di ragionare di più sul Milan Approach, di coglierne le ricchezze, che stanno nelle differenze. Inoltre questo saggio avrebbe dovuto essere metodologico, ma non ci sono riuscito fino in fondo.
Nel video incluso trovate un breve dibattito sul tempo in terapia e sulle differenze tra Boscolo e Cecchin.

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1 commento

  1. antonello.sciacchi16

    L’intelligenza di Pietro
    L’intelligenza di Pietro Barbetta sta nel segnalare il punto di rovesciamento, come in un nastro di Moebius, dell’io nel noi, del soggetto individuale nel collettivo. Lì, dove non c’è più l’Uno che comanda per via identificatoria, sgorga la liberazione dal sapere/potere codificati. E’ lì la vera cura non medica. E’ non medica perché può fare a meno di ricette e prescrizioni.

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