Ne ho davvero sentite tante, troppe, di storie di analisi finite male.
Non solo da parte dei pazienti, ma anche raccontate nei consessi seminariali, nei convegni, negli incontri con i colleghi.
Ho sempre rifuggito la vulgata capace di alimentare luoghi comuni, ma anche so che occuparsi di psicoanalisi applicata significa ascoltare quello che proviene dal corpo sociale.
Per questo motivo ho ripreso un vecchio articolo, e dedicherò la parte di questa rubrica a raccogliere e dibattere , con chi lo vorrà fare, di esperienze analitiche finite male, deragliate o sfociate in un danno per il paziente.
Apro dunque uno spazio nel quale descriverò, con le normali cautele e modifiche di dati che la privacy impone, frammenti di vite raccontate che sono passate nel mio studio,
e che hanno incontrato la malapratica analitica. Pagandone le conseguenze.
E apro questo spazio a chi, assumendosi le proprie responsabilità, voglia dire la sua. L’intervista ad Armando Verdiglione pubblicata anni fa su Repubblica , e l’ultima polemica sollevata da Elisabeth Roudinesco su ‘Liberation’ del primo ottobre 2011, hanno l’indubbio merito di riprendere alcune questioni che da sempre interessano il funzionamento della psicoanalisi e le azioni degli psicoanalisiti. Al di là delle sterili polemiche, è assai utile alimentare un serio dibattito su un tema anch’esso importante ed emergente che va al di là del caso Verdiglione: perchè sempre più spesso accade che gli psicoanalisti siano messi sul tavolo degli imputati? Chi ha a cuore la psicoanalisi, come me, come strumento clinico e di analisi del legame sociale, si deve interrogare.
Non passa giorno che voce non si unisca al coro di attacchi alla disciplina di Freud e ai suoi attuali nipoti. Non tanto all’analisi tout court, quanto alla cattiva psicoanalisi, per molti due entità sovrapponibili. Oltre al j’accuse di M. Onfray , “Crepuscolo di un idolo. Smantellare le favole freudiane “, ci sono i pamphlet dell’intellighenzia europea ed italiana: il feroce e unilaterale “Il libro nero della psicoanalisi“, “Il caso Marilyn M. E altri disastri della psicoanalisi “, “Inconscio ladro!” di Elisabetta Ambrosi, il godibile ‘Alice nel paese degli analisti’, per finire con l’ottimo “Al di là delle intenzioni. Etica e analisi” di Luigi Zoja ( davvero imperdibile quest’ultimo). Perchè periodicamente gli psicoanalisti sono sempre più soggetti all’accusa di tramutarsi in ‘guru’ in cerca di adepti da irregimentare? Se ben guardiamo la blog- sfera ( a tutti gli effetti il fronte delle voci più libere) la schiera dei detrattori e critici non è più solo formata da trinariciuti organicisti che negano tout court la validità dell’introspezione e non riconoscono lo statuto dell’inconscio, ma da tanti pazienti, o analizzanti, i quali possono solo accodarsi nelle innumerevoli discussioni sui forum per lagnare l’inefficacia del trattamento analitico, o denunciare errori pagati a caro prezzo. E non solo economico. Fino a quando, di fronte ad una critica sempre più vasta e sempre più articolata, si percorrerà la via del ‘non è vero nulla’, rimandando un serio dibattito, restando indifferenti a queste istanze? Gli aspetti da esaminare non sono solo quelli relativi alla ‘efficacia’ dell’analisi, elemento di per sé già difficile da valutare (e oggetto di innumerevoli dibattiti ), ma anche le possibili controindicazioni che possono derivare da un’analisi inefficace. Non tutti sanno preventivamente che un’analisi sbagliata può causare seri danni, e che in caso di un rapporto deleterio, non esistono istanze alle quali fare riferimento.
Chi va su un lettino oggi, non ha precise garanzie di terzietà, di protezione da errori. Ecco il vulnus principale dell’instrumentum analitico. In campo medico, se un’operazione va male, il malato può rivolgersi all’azienda sanitaria, al tribunale dei diritti del malato, o altro ancora. Nel campo della psicoanalisi, se una cura si inceppa o deraglia, purtroppo, non esiste luogo nel quale portare le proprie rimostranze. L’unica speranza è che l’analista abbia a fondo scavato nelle sue zone opache, quelle che conducono a errori, e se ne assuma la responsabilità tenendo quel posto senza fuggire. Il miglior modo per difendere la psicoanalisi è dunque renderla trasparente esaltando in tal modo la sua eccellenza, che fortunatamente continua ad esistere nonostante gli errori. Un analista che sbaglia diagnosi, magari distratto da altre cose, o semplicemente con un lavoro su se stesso stagnante, espone il paziente a rischi talora altissimi. Il ‘controtransfert’ è quella risposta relazionale ed emotiva dell’analista verso il paziente, utile nel processo analitico fino a quando non diventa una pioggia di detriti che provengono dall’analista, il quale senza controlli, può scaricarli sul malcapitato paziente. Il paziente che, come insegna l’analista francese J.A Miller, è sempre ‘innocente’ quando entra nello studio con lettino. Chi non ricorda l’analista Moretti de ‘La stanza del figlio’, irritato perché il paziente Orlando con un ritardo ha fatto sì che lui non fosse vicino al figlio nel momento della disgrazia? Ecco, quella scarica di rabbia che gli riversa addosso in seduta, è un controtransfert incontrollato. Lacan tratta la questione del controtransfert : “(..)Come è scritto da qualche parte, se si trascurasse quell’angolo dell’inconscio dell’analista, ne risulterebbero delle vere e proprie zone cieche, da cui conseguirebbero eventualmente nella pratica fatti più o meno gravi e incresciosi: misconoscimento, intervento mancato o inopportuno, o persino errore”.
Cosa garantisce al paziente che , accortosi di questo, l’analista immediatamente lasci quel posto e non arrechi danni? Nulla. Quello che, specie oggi, è necessario ribadire, è cha la psicoanalisi è essenzialmente e primariamente il luogo della rettifica della propria esistenza. Qualsiasi altra cosa che non sia il percorso del paziente che entra entra nella stanza del lettino falsa il percorso e lo fa deragliare su binari del maestro-discepolo, via che conduce direttamente ad una condizione diadica fasulla che può avere effetti collaterali devastanti per l’analizzante. Il movimento psicoanalitico garantisce terzietà? Per esserlo, è necessario che chi apre le porte alla gentilezza sia, in questo caso, gentile, parafrasando al contrario la lezione di Brecht. E’ fondamentale che lo psicoanalista sia, al netto della conduzione della cura, inserito in una rete, più ampia, che possa osservare ed eventualmente correggere eventuali errori. Sia insomma ‘giudicabile’. Come evitare, come riporta Paracchini in un vecchio articolo del Corsera, che: ‘un ego fuori ordinanza, un eloquio coinvolgente che fa breccia nel pubblico femminile’ non siano nocivi per i pazienti, oppure non portino a creare ‘adepti che sembrano una setta’? Il presidente della IPA Stefano Bolognini dà una indicazione preziosa, asserendo che la sovraesposizione mediatica dello psicoanalista danneggia il paziente. Si dirà: questo problema vale per tutte le discipline del mondo “psi”. Vero, parzialmente. Non va dimenticato che l’analisi è un luogo particolare, una sorta di ‘no mans land’ nella città, uno spazio vuoto, una zona franca addobbata con gli affreschi della propria esistenza, che noi diamo in custodia all’analista. Si può paragonare il setting analitico ad un’officina nella quale, grazie ad un buon avvitatore, tutte le viti della macchina vengono allentate. Svitate quel tanto che basta perchè il guscio mostri la sua mobilità, e si possa giungere all’anima del motore. Una destrutturazione guidata. E’ la terra di un uomo che piange e rimemora il passato, un uomo che sogna e in quel luogo sa di poter proiettare le diapositive più intime perchè garantito dalla sicurezza. Ecco perchè gli errori possono avere effetti cosi’ gravi. Quando le viti sono allentate, i colpi accidentali vanno più in profondità, si riverberano sull’intera struttura. Le scuole psicoanalitiche hanno sviluppato gli anticorpi per saper contenere e correggere questi svarioni? Il mondo scientifico chiede alla psicoanalisi alcune cose che la disciplina di Freud e Lacan non può dare : verificabilità, standardizzazione dei dati, questo perchè la psicoanalisi è essenzialmente ‘uno per uno’. Ma garanzie verso il paziente quelle si. Oggi quelle devono essere fornite. “L’analista, dico, da qualche parte, deve pagare qualcosa per reggere la sua funzione. Paga in parola, paga con la sua persona. Infine bisogna che paghi con un giudizio sulla sua azione’. E’ il minimo che si possa esigere” . E’ rispettata questa massima di Lacan?
Tanti pazienti sono incappati in analisi malcondotte.
E in nessun luogo hanno potuto testimoniarlo.
Cominciamo da qua.
Ciao Maurizio, condivido gran
Ciao Maurizio, condivido gran parte dei contenuti di questo tuo articolo e lo spirito di fondo. Ma quando dici che “la psicoanalisi è essenzialmente e primariamente il luogo della rettifica della propria esistenza” penso che lì vi siano, in filigrana, molte delle ragioni delle cadute dal lettino di cui parli. Perché se è questo il mandato, non so quanto esplicito, della psicoanalisi o di certa psicoanalisi, non c’è da stupirsi che avvengano le note derive carismatiche a cui accenni.
Mi spiego meglio. “Rettificare” significa etimologicamente, rendere dritto ciò che non lo è, emendare dei difetti, in una parola, un cluster di senso a metà strada tra il normalizzare e il migliorare.
Mi sembra del tutto consequenziale che l’analista, investito di questo mandato dai propri pazienti e forse anche dalla società se ne appropri e se ne senta in qualche misura e forma portavoce autorevole.
Ed allora cosa vuoi che sia una pioggia di meteoriti a fronte dei vantaggi derivanti dall’ottenere quella rettifica esistenziale così agognata di cui parli?
Io credo invece che dentro quella nuvola di significati che contiene quella parola vi siano molti problemi e si segni la distanza che intercorre, ancora oggi, tra pratiche psicoterapeutiche rispettose dell’unicità altrui (pur nell’essere “storte”, “curve”, “tortuose”, inattuali e persino disadattate) e certe culture analitiche investite di missioni grandiose e irrealistiche.
Ringrazio Luigi per i
Ringrazio Luigi per i commenti , sempre attenti e mai banali.
Forse si, dovevo essere più preciso. In ambito psicoanalitico la ‘rettifica del soggetto col reale’ si intende la modalità con la quale l’individuo prende atto, coscienza del proprio incedere.
Una via preliminare alla cura.
Si tratta di accettare che , che so, si è scelto di stare per 10 anni con un uomo che malmenava.
Oppure che si è soliti ritardare l’appuntamento di lavoro quel tanto che basta per farsi licenziare.
E’ una sorta di messa la bando del destino, del fato, del ‘mi accade qualcosa ma non so bene il perchè’
Ecco, lontanissimi dunque da una ‘raddrizzatura’ o ‘riparazione’ o tremebonde cose simili.
Robert Pirsig ne ‘Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta’ dice quanto sia qualitativamente differente viaggiare su una moto comprata e inforcata, rispetto ad una della quale si è messo mano ai componenti sapendo quale è la loro funzione.
Vero è che, ed è questo il succo del mio post, in tanti casi di analisi autoreferente, sganciata cioè da qualsiasi legame e dunque di redde rationem correlato, sovente si scivola proprio in questo: una sorta di ingresso in un mondo di valori nel quale, se non costantemente sotto controllo contratransferale, l’analista occupa quella posizione da un proprio punto di vista personalissimo e autorefetente.
Se va male, e riprendo l’assunto di Lacan, cosa può fare un paziente?
L’analista, come lui diceva, paga?
Grazie delle precisazioni
Grazie delle precisazioni
A tal proposito riporto
A tal proposito riporto questo studio pilota, letto su Io Donna, e proveniente dal sito della Fondazione Veronesi.
E due domanda mi appaiono immediate.
Chi protegge il paziente, quando il danno è compiuto?
Cosa può fare dopo essere caduto nelle mani di un impostore?
Come tutelarlo in quella direzione che l’articolo indica, quella della scelta ‘accuratissima’ del terapeuta?
Un piccolo studio pilota mostra che alcune aree cerebrali risultano differenti prima e dopo sedute di psicologia dinamica
Serena Zoli – 28 gennaio 2015
La psicoanalisi lascia un’impronta nel cervello Foto Olycom
La psicoanalisi come un farmaco. Consacrata dalla famosa “prova biologica” di cui la si accusava di mancare. Per molti, dunque, soltanto una “presunta” terapia fondata sulla fede più che su fatti verificabili. Adesso la grande svolta.
Per il momento si tratta di uno studio pilota, appena 16 pazienti coinvolti, ma con risultati netti. I 16 pionieri, sofferenti per disturbi dell’umore o d’ansia, si sono sottoposti alla “fotografia” cerebrale che si può ottenere con la Tomografia a emissione di positroni (Pet). Una “foto” prima e una dopo la cura. Ovvero dopo un adeguato numero di sedute di “ psicologia dinamica”. Ebbene una certa, precisa zona del cervello è risultata cambiata. Il fatto eccezionale è che la parola si fa segnale neurochimico, il miglioramento emotivo (quando c’è) si “scrive” nei neuroni. Un salto prodigioso che riscalderà di speranza molti malati psichici.
La ricerca è stata fatta al Massachusetts General Hospital e avrebbe dato anche questa indicazione: dal controllo delle attività neuronali sarà possibile predire quale paziente trarrà vantaggio da quella data psicoterapia e chi, invece, può anche piantarla lì con le infinite e costose sedute, sul lettino o faccia a faccia che siano.
Ma a parlare di psicoterapia si finisce in un bosco di scuole, presunte scuole, indirizzi e padri fondatori (anche madri, contando Melanie Klein…). Nonché di falsari. Come regolarsi? Per psicoterapia in questo esperimento americano che cosa si è inteso?
Il professor Massimo Biondi, che alla Sapienza di Roma è docente sia di psichiatria sia di psicologia, illustra: « Lo studio riguarda la “psicologia dinamica”, che ha come capisaldi il concetto di inconscio, di conflitto, di blocco. Di base fa riferimento alla teoria freudiana».
Allarga il campo il professore: «Questa porta che si apre va ad aggiungersi a decine di studi precedenti che già hanno mostrato correlazioni tra la terapia della parola e i circuiti neuronali, ma si trattava solo di due ben precise pratiche: le tecniche di rilassamento e la psicoterapia cognitivo-comportamentale. Ora questa nuova apertura è davvero grande. Cambia tutta la prospettiva. La psicoterapia diventa come un farmaco. Si fa chimica come il farmaco e come il farmaco cambia la chimica cerebrale. Agendo sulla corteccia orbitale o il metabolismo del cortisolo, il cosiddetto ormone dello stress».
Ma, sia ben chiaro, sottolinea Massimo Biondi, non ogni psicoanalisi del genere illustrato sopra funziona. «Deve essere fatta molto bene e in modo molto incisivo», è la sua ultima raccomandazione. Aggiungiamo: molta cautela nella scelta del terapeuta.
Mente e salute: per saperne di più visita http://www.fondazionesi.it
Secondo me dovremmo avere il
Secondo me dovremmo avere il coraggio di stabilire un controllo diffuso e collettivo, non necessariamente istituzionale e scolastico, della formazione e del lavoro dell’analista. Ho provato a dare un nome a chiamarla metaanalisi, intendendo l’analisi collettiva della formazione analitica, ma per ora non ha attecchito. Agli analisti scolastici manca un’idea di collettivo che non sia l’identificazione al maestro e ai suoi epigoni. Se parli loro di collettivo, fanno orecchi da mercante. Infatti, sono mercanti della clinica analitica, su cui non vogliono nessun controllo. Diciamo che sono neoliberisti. Noi dobbiamo combattere il neoliberismo psicanalitico.
Si, peccato poi che pure gli
Si, peccato poi che pure gli analisti non mercanti fondano le loro chiesette, l’Italia pullula di associazioni di psicoanalisti con meno iscritti dei piccoli indiani di Agatha Christie. Esperienza devastante la mia con uno di questi, libero, liberissimo, non asservito a nessuna associazione di epigoni e Maestri, nessuna scuola, nessun titolo, pedigree esemplare… Ma poi chissà com’è che io non mi rimetto più in piedi da 3 anni, e non è una metafora, mentre il sopraffino psicoanalista va a fare conferenze su potere e psicoanalisi. D’altra parte ripete le stesse cose da trent’anni. Mi si è distrutto il pensiero, esperienza che non auguro a nessuno. Quattro psicoanalisti imparentati chiusi in una stanza di una cittadina italiana fanno forse anche meno collettività di cento stupidi scolastici. E sono, anzi ero, del campo. Scommetto un braccio che durante tre o quattro anni di progressivo e inarrestabile transfert negativo, quel genietto della psicoanalisi non si è degnato di parlarne con nessuno, che crepi l’analizzante che non vuol guarire piuttosto che venga messa in discussione l’autorevolezza dell’esimio. Ed è crepato. Un dato, uno solo, incontrovertibile, l’unico a mia disposizione che posso rendere pubblico: tra 15 e 18 sedute all’anno sul lettino, per 18 anni, in due Paesi diversi. Uno l’Italia, l’altro lo taccio. È un setting vagamente difendibile o un insulto alla psicoanalisi?
Psychiatry on line Italia NON
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L’argomento è certamente
L’argomento è certamente molto difficile perché gli errori dell’analista sono potenzialmente innumerabili. Si potrebbe iniziare dall’insegnamento di Ferenczi che sostiene il potenziale conoscitivo e terapeutico della capacità di riconoscere i propri errori da parte dell’analista e di discuterli con l’analizzato, per impedire che egli/ella possa introiettarli attribuendo loro lo statuto di proprie mancanze. Si potrebbe iniziare a parlare della formazione degli psicoanalisti, che un ancora troppo poco conosciuto Emanuel Berman, analista IPA, denuncia come autoritaria, fonte di persecutorietà, e matrice di un falso Sè professionale.
Forse è più facile iniziare a parlare dei confini etici del setting, e delle loro frequentissime violazioni.
In campo sessuale, ad esempio: quando si raccolgono i cocci di tali disastri esistenziali, non solo si rischia di incontrare la fotografia di mutue dipendenze, di legami inestricabili e mortiferi. Ma si pensa persino che quella terzietà che l’articolo giustamente invoca, non troverebbe istituzioni ordinistiche tali da poter riportare ordine, sanzionando, almeno sul piano giuridico, i comportamenti scorretti, o addirittura mossi da cause psicopatologiche dei professionisti che tradiscono il mandato. Perché pochi fra i non iniziati saranno in grado di distinguere la relativa innocuità di una relazione fra un professionista e il proprio cliente, laddove tale relazione non influenzi minimamente la qualità della prestazione: si può fare l’amore con il dentista, l’idraulico, il commercialista, e persino con il chirurgo; non lo si può con l’analista, la cui opera collasserebbe, non di rado senza possibilità di successive riparazioni. Ma di fronte a tale disastro, chi avrà titolo e sufficiente lucidità per giudicare, sanzionare, impedire che gli eventi si moltiplichino?