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Cartografare il passato. Michel De Certeau storico errante

17 Gen 16

A cura di Fabio Milazzo

Review of: Diana Napoli, Michel De Certeau. Lo storico “smarrito”, Morcelliana, Brescia 2014
 

Ciò che è differente ci minaccia.
Perciò facciamo di tutto per cancellarne le tracce.
Gli altri, la morte, Dio: tutto ciò che designa una rottura dev’essere sfumato.
Per essere identici a noi stessi,
ci è necessario ricondurre a noi e ridurre a somiglianza ogni dissomiglianza.
Michel De Certeau, Apologia della differenza (1968)

 
 

 

Un viandante tra storia e psicoanalisi.
Il 9 gennaio 1986, in una fredda sera parigina, moriva Michel De Certeau, figura unica del panorama intellettuale francese e europeo in genere. Nato nella Savoia, a Chambéry, la vecchia  capitale del ducato dei Savoia (fino al 1563), si laureò in filosofia peregrinando tra le università di Grenoble, Parigi e Lione: in quest’ultima città venne formato alla carriera religiosa e nel 1956 si fece gesuita con lo scopo di recarsi in Estremo Oriente per confrontarsi con l’Altro. Proprio l’Altro, in termini di radicale differenza, rappresenta uno dei poli orientanti un percorso intellettuale originale, che ha sempre cercato di salvaguardare la dissomiglianza e l’estraneità di ciò che non può essere ricondotto al medesimo. In tale ottica il passato ha rappresentato per De Certeau il paradigma dell’estraneità più radicale, di ciò che non può essere riportato alla misura del senso comune, se non a prezzo di una violenza che deve essere esplicitata per evitare che una finzione si configuri come realtà da ipostatizzare. Basti pensare alle tante strumentali e artefatte reificazioni ideologiche fatte dai totalitarismi del recente passato e fissate poi in una sorta di memoria collettiva adulterata.
Su Michel De Certeau, al momento, in Italia, non esiste alcuna monografia critica che si propone di illuminare e delineare le coordinate di un percorso intellettuale tanto originale e innovativo, quanto solido nel suo essere ancorato al dato documentale. Fanno eccezione un paio di numeri monografici di riviste e le introduzioni acute – veri e propri saggi – di Luce Giard e Silvano Facioni alle maggiori opere del gesuita pubblicate in italiano. In questo panorama prende posto l’intelligente monografia di Diana Napoli, dottore di ricerca in «storiografia» presso l’EHESS di Parigi e da tempo studiosa di De Certeau. Napoli, insieme a Paola Di Cori, ha già curato un numero monografico di «Humanitas»[1] dedicato al gesuita della Savoia, focalizzato in particolare sul tema del «corpo»: vivo, marchiato, mistico, posseduto, desiderato, in tutti i casi superficie di iscrizione per le tracce attraverso cui lo storico dà vita al passato. Il volume che invece qui presentiamo l’Autrice sostiene essere «nato come una lettura di “secondo grado”: la lettura della lettura da parte di Michel De Certeau di alcuni scritti freudiani…» (p.7). La prospettiva adottata mira a inquadrare il percorso Certiano alla luce del nesso tra psicoanalisi e storia. Non dimentichiamo, infatti, che De Certeau, oltre ad essere gesuita e storico, fu tra i fondatori della lacaniana «École freudienne de Paris (EFP)» sorta nel 1964. E questo non può essere considerato un avvenimento accidentale, una semplice tappa del percorso biografico del savoiardo; infatti, la psicoanalisi rappresentò per tutta l’esistenza lo sfondo di molte analisi storiografiche, come quella su «La possessione di Loudun»[2] o quella sulla mistica cinque-seicentesca confluita in «Fabula mistica. XVI-XVII»[3]. C’è da dire che sul tema psicoanalisi- storia, dopo l’ubriacatura psico-storica degli anni settanta si è scritto poco[4] e il volume di Napoli, in tal senso, può essere letto anche come un attraversamento problematico del tema. Il nesso storia-psicoanalisi fu sempre molto caro a De Certeau, che per tutta la carriera non smise di scriverci, tanto che uno dei suoi libri più conosciuti – e più riusciti – è una raccolta di saggi sul tema: «Storia e psicoanalisi. Tra scienza e finzione»[5].


Pensare istericamente l’assente.
Proprio con un riferimento alla psicoanalisi termina anche il volume forse più importante –almeno teoreticamente – di De Certeau, quel «La scrittura della storia» che magistralmente descrive la pratica storiografica come un aver a che fare con l’assente, con la radicalità del suo essere differenza obliata. In tale ottica, come afferma Napoli, «la scrittura freudiana diventa il luogo di una riflessione sul senso dell’atto storiografico incentrata attorno alle figure del Padre e del Figlio» (pp.7-8). La dialettica tra alterità e identità, «tra rifiuto di appartenenza e filiazione», (p.8) disloca il precario equilibrio del tracciato storiografico che, mentre cerca di riportare in vita il padre definitivamente morto – il passato -, organizza e prova a dare forma al proprio punto di osservazione attraverso proprio la presa di distanza da quell’assente definitivamente cancellato. Un rapporto – come ci dice Napoli – quasi isterico, «tra ricerca della filiazione e affermazione della separazione» (p.8), che ben riesce a descrivere la concezione Certiana della storiografia. Questa muove dall’assunto, recepito attraverso la lezione di Aron e di Foucault, secondo cui ogni pratica storiografica, in quanto produzione discorsiva, sottace una serie di elementi irriflessi che ne costituiscono l’ossatura e l’elemento trascendentale. Per questo ogni storiografia è una filosofia della storia e come tale va letta, svincolandola da ogni ingenua forma di realismo. In gioco non è soltanto l’immaginario dello storico, ma anche il luogo da cui prende parola, lo spazio entro cui si muove. Metodo e pregiudizi, simbolico e immaginario per dirla con Lacan, contribuiscono alla singolare scrittura della storia che, proprio alla luce di questa contraddizione ontologica, risulta essere una costruzione, un sembiante – sempre per fare il verso a Lacan. De Certeau teorizza allora che la storia si produce all’intersezione tra un certo luogo – abitato dallo studioso – e un certo tempo, quello che si vuol descrivere, sempre definitivamente smarrito, perduto, assente. Il luogo entro cui lo storico è calato è ciò che sempre Lacan – autore le cui categorie hanno nutrito la riflessione Certiana – ha definito il «grande Altro», l’insieme di tradizioni, simboli, regole e grammatiche che pre-esistono al soggetto stesso e che, in un certo senso, lo costituiscono ancor prima della nascita. La storia scritta, alla luce di ciò, non può che risultare situata e, per citare Benedetto Croce, essere sempre contemporanea. Compito dello studioso è allora quello di portare alla luce il confine tra l’oggetto descritto (il passato) e l’insieme di pregiudizi che ne fanno, a sua volta, un oggetto storico. Il passato si configura così non soltanto come assente ma anche nei termini di pura differenza che, per essere portata alla luce, richiede una sottile operazione di delimitazione dei confini mutevoli entro i quali si nasconde come scarto, un residuo che prende corpo come effetto di un gioco di distanze. Il passato che viene riscritto è quindi, a tutti gli effetti, una produzione dello storico e un effetto dei suoi pregiudizi; ciò sembrerebbe avvicinare De Certeau, e la sua interpretazione della storiografia, all’ermeneutica e non è un caso che Napoli, nel suo libro, dedichi parecchio spazio alla figura di Ricoeur, altra figura di intellettuale errante, sempre diviso tra ambiti teorici diversi. Ma i due, pur respirando una medesima aria di famiglia, non condividono del tutto gli impliciti teorici; infatti, secondo De Certeau, il passato è un «meinen», un incompreso che in fondo resta impensabile e può essere riportato in vita al prezzo di un’alterazione costituente che non è da interpretare nei termini di una falsificazione ma, semmai, come un mettere in campo strategie che devono essere chiarite, fatte emergere. In fin dei conti De Certeau ritiene che ogni operazione storiografica maneggi un non-sense che per quanti sforzi si facciano resta tale; un aldilà della ragione inaggirabile e quindi irraggiungibile. Ne deriva un pessimismo dagli esiti non lontani da quelli di Hayden White, secondo il quale l’operazione storiografica è nulla di più che una strategia retorica? No, perché De Certeau ritiene che per quanto la storia non possa ambire al rango di scienza-certa, ciò non la riduce a semplice racconto non dissimile da un romanzo. La soluzione consiste nella creazione di modelli adeguati al proibitivo compito di avere a che fare con l’assente; più in particolare si devono validare –ed eventualmente confutare – le ipotesi via via elaborate sul passato, facendole interagire con gli elementi a disposizione che gli oppongono resistenza. Da qui un procedere per tentativi, confutazioni e successive ipotesi, attraverso cui prendono forma, per reazione, anche i pregiudizi celati alle spalle di ogni ricostruzione. La particolarità di questo procedere è data dall’oggetto che si vuol descrivere, il passato, le cui tracce emergono sempre dal dato d’archivio che, in un certo senso, funge da limite al potenziale proliferare indefinito delle ipotesi possibili.
 
Il tempo tra storia e memoria.
Nel volume, Napoli ci mostra la posizione di De Certeau  non soltanto attraverso l’esposizione della sua teoria storiografica, ma anche attraverso il confronto dialettico con altri autori che, da posizioni diverse, hanno cercato di offrire una risposta ai problemi che la scrittura della storia pone sul campo. Innanzitutto François Hartog, che con il concetto di «presentismo» (p. 106) ha evidenziato lo statuto ossessivo di un bisogno del presente che spinge i contemporanei a schiacciare su questa dimensione la dialettica con il passato. Ciò ha spinto la storiografia a cedere sempre più spazio alla memoria, una relazione con il passato che tende a congelare per fini politici la testimonianza di attori che spesso hanno il solo merito di esserci stati. Il passato, e i pregiudizi che lo abitano, vengono così reificati in un’immagine buona per tutte le stagioni che, di fatto, impedisce quel lavoro di re-interpretazione che è l’essenza del rapporto umano con il passato. Se la storiografia si mette in questione e si problematizza, anche attraverso il ricorso alle figure freudiane del Padre e del Figlio, la memoria, invece, fissa dei contenuti che per statuto divengono immutabili, frutto come sono del ricordo del testimone. L’Assente viene riportato in vita al prezzo della sua reificazione nella forma di simulacro. Ma se il passato viene offerto alla comunità attraverso la mediazione della testimonianza, che cosa resta di una pratica che si mette in questione e che facendo ciò problematizza, rendendo anche più complesso e sfumato, il passato? «Come si esercita la pratica storiografica nell’era del testimone»? (p. 11) Questa sono alcune delle questioni che Napoli affronta nel testo muovendo dalla riflessione di De Certeau, dai problemi con cui questa si confronta e dalle risposte offerte dalla storiografia contemporanea. Il volume, infatti, non è soltanto un’attenta lettura della teoria storiografica di De Certeau, ma anche un attraversamento problematico di quel senso di «smarrimento» (p.12) che secondo Saul Friedländer connota la storiografia oggi. L’evento che paradigmaticamente segna le difficoltà della storia, in quello che ormai è a tutti gli effetti un confronto-scontro con la memoria, non può che essere la Shoa, tragedia insensata che, proprio per questo, si svincola da quello che è uno dei compiti fondamentali della storiografia: dare senso al passato. Al pari dell’evento che secondo Lacan è responsabile della soggettivazione, vale a dire la cancellazione della Cosa, la Shoa si configura per lo storico come ciò che non può essere descritto, l’orrore che non può essere significato ma soltanto esperito, ricordato, patito. Da qui quello smarrimento che è l’effetto di una relazione impossibile con l’Altro che non può essere pensato e che «nessuno vuole colonizzare, ripercorrere nel suo corpo, riscrivere» (p. 12).
I problemi che Napoli affronta girano intorno a quella dialettica precaria, e sempre sul punto di collassare, tra lo spazio occupato dallo storico e il tempo – da descrivere e da abitare. Sul tema, in questo percorso di attraversamento della storiografia contemporanea, non poteva mancare la figura che recentemente, attraverso «lo studio della semantica dei tempi storici» (p.13), più radicalmente si è interrogata sull’argomento: Reinhart Koselleck. Allo studioso tedesco sono dedicate pagine intense che idealmente si affiancano a quelle spese per presentare, da un altro versante, W.G. Sebald, uno scrittore che attraverso il suo romanzo forse più conosciuto, «Austerlitz», ha cercato di abitare «un luogo euristico da cui osservare, spiare la storia prima che divenga disciplina autorizzata» (p. 13) e quindi si perda nelle contraddizioni epistemologiche che la riguardano per statuto. Dunque, attraverso De Certeau e la sua rilettura di alcuni saggi freudiani, Napoli non si limita ad offrire un ritratto dell’opera Certiana ma problematizza una scrittura e una produzione vastissima che ha riguardato molteplici temi e argomenti. Volendo isolare due testi che su tutti sembrano occupare un posto centrale nel volume di Napoli, non possiamo che fare i nomi di «La Fable mystique» e di «L'Ecriture de l'histoire», lavori in cui più forte si sente l’eco freudiano e lacaniano e l’utilizzo che della psicoanalisi De Certeau ha fatto. In tal senso il volume può essere letto come una clinica di quella storiografia incapace di pensare fino in fondo l’aporia che la abita ontologicamente e qui, forse, sta il suo merito più grande.
 


[1] Cfr. P. Di Napoli- D.Napoli, Michel de Certeau. Il corpo della storia in Humanitas (2012), Vol. 4, Morcelliana, Brescia 2012.
[2] Cfr. M. De Certeau, La possessione di Loudun, Clueb, Bologna 2012.
[3] Cfr. M. De Certeau, Fabula mistica. XVI-XVII secolo, Jaca Book, Milano 2008.
[4] In Italia una felice eccezione è rappresentata dal volume di Aurelio Musi «Freud e la storia» (Rubbettino 2015)
[5] Cfr. M.De Certeau, Storia e psicoanalisi. Tra scienza e finzione, Bollati Boringhieri, Torino  2006.

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