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CBT: UNA QUESTIONE DI TERMINI

11 Gen 20

A cura di emilio.franceschina

L’acronimo CBT, come è noto, sta per Cognitive Behavioral Therapy (all’americana, nel Regno Unito si predilige un più oxfordiano Behavioural), che traduciamo come Terapia Cognitivo-Comportamentale. Nonostante la CBT sia, a tutti gli effetti, annoverata tra le psicoterapie, è tuttavia meno frequente trovarla definita come psicoterapia cognitivo-comportamentale. Non è questo un fatto isolato, né straordinario: anche quella rogersiana si definisce “ufficialmente” therapy e se, per curiosità, digitiamo su Google il termine phenomenological, scopriamo che è effettivamente associato 950mila volte a psychotherapy, ma ben 6 milioni e mezzo di volte a therapy. Quanto ho appena affermato, naturalmente, non è affatto condiviso da tutti i cognitivo-comportamentali, tant’è vero che, per fare un esempio, la più importante rivista specialistica italiana in materia, tra le pochissime indicizzate a livello internazionale in lingua italiana (e con tanto di peer review), pubblicata da Erickson, si intitola Psicoterapia Cognitiva e Comportamentale.

Terapie ad orientamento scientifico
Lo psicologo belga Jacques Van Rillaer (2014) va ancora oltre e sostiene che la denominazione stessa di terapia cognitivo-comportamentale sia poco felice, poiché si presta a facili fraintendimenti ed afferma: “L’espressione CBT lascia a desiderare. Essa non suggerisce il fatto che queste terapie si caratterizzano prima di tutto per la loro scientificità. Vengono poste in risalto due variabili – il comportamento inteso in senso stretto e le cognizioni – e se ne fanno passare sotto silenzio altre tre, di cui si occupano principalmente i terapeuti di questo approccio: la dimensione affettiva (o emozionale), le variabili fisiologiche (ad es. l’attivazione del sistema ortosimpatico, la respirazione, il tono muscolare, l’uso di sostanze stimolanti) ed i contesti ambientali, sia fisici che sociali, in cui i comportamenti si manifestano e sono rinforzati o ridotti. È difficile evocare con una sola espressione i diversi fattori che i comportamentisti osservano, analizzano e propongono ai loro pazienti di modificare”.
Lo stesso Autore suggerisce che idealmente le terapie cognitivo-comportamentali (utilizza anche lui il plurale) dovrebbero chiamarsi, più semplicemente, (psico)terapie ad orientamento scientifico, ma poi aggiunge amaramente: “Sfortunatamente, la parola scienza è spesso mal compresa: da un lato fa credere ingenuamente che l’esperto sia il detentore della verità, dall’altro suscita delle resistenze presso coloro che s’immaginano che il marchio di scientificità ed un’adeguata capacità di ascolto siano tra loro incompatibili. Questo in modo particolare in Francia (ma anche in Italia. N.d.R.), il terapeuta che utilizzasse questo vocabolo verrebbe facilmente etichettato come positivista o scientista, in particolare da coloro che il filosofo Jacques Bouveresse chiama i letterati e che hanno il vento in poppa nei media”.

Nemica psiche
Fermo restando che anche per altre psicoterapie – pardon, terapie – la scelta possa essere assolutamente voluta e legata a motivazioni teoretico-epistemologiche, nel caso della CBT, tuttavia, c’è senz’altro anche qualcosa di più profondo e sostanziale (e che avrò modo di illustrare più dettagliatamente nei prossimi capitoli di questa rubrica): ai comportamentisti (prima) ed a molti cognitivo-comportamentali (poi), il prefisso psico- non va molto a genio. Cosa c’è di male, direte voi? Lo si utilizza per psicologia, psicosomatica, psichiatria, psicopedagogia, psicomotricità, e via discorrendo. Un simile “preconcetto” la dice lunga su quale movimento di rottura sia stato a suo tempo il comportamentismo e sul perché talvolta lo psicologo cognitivo-comportamentale sia visto dai colleghi di altri approcci come distante dal loro modo di intendere la vita psichica. Per molti cognitivo-comportamentali, invece, questo termine contiene qualche ambiguità, sia per il suo richiamo alla psuké (ψυχή) del mondo classico, intesa come anima in senso metafisico, sia per il suo possibile implicito richiamo ad una visione dualista del rapporto mente-corpo. Per quanto riguarda il primo aspetto, posso dire senza ombra di dubbio che non è tanto il richiamo spirituale in primis a renderlo inviso al behaviorista, quanto la sua fondamentale astrattezza. Molti termini di ampio uso in psicologia non piacciono ai comportamentisti di ieri e di oggi per lo stesso motivo, ed è molto infrequente sentirglieli utilizzare, come ad es. vissuto, Sé, lutto, alcuni sono cauti persino ad impiegare personalità o autostima. Per quanto attiene invece al secondo aspetto, il punto non è tanto che il comportamentista non voglia agire sulla parte psichica, ma piuttosto che egli intenda modificare il comportamento della persona e che quest’ultimo non possa venir distinto in fisico e psichico (sarebbe dualista), né inteso come un’interazione tra psiche e soma (sarebbe altrettanto dualista).

Cosa si intende veramente per behavior?
L’oggetto di studio dello psicologo di formazione comportamentale è fondamentalmente diverso da quello degli altri colleghi. Questa diversità è spesso misconosciuta (talvolta anche dagli stessi psicologi CBT di oggi), cosa che contribuisce all’annosa quanto inutile incomunicabilità tra gli approcci. La psicologia comportamentista, da questo punto di vista, è da sempre allineata con le neuroscienze, che possono essere definite materialiste moniste. Secondo questa visione, come è noto, i processi della mente e quelli del cervello sono gli stessi processi, non due processi distinti. La psiche va intesa pertanto solo come una metafora che si riferisce ad una serie di eventi biologici, ma non esiste in sé. Non ha pertanto molto senso studiare una metafora o avere l’obiettivo di modificare una metafora (magari usando altre metafore…). Il proprio oggetto di studio deve essere invece qualcosa che esiste, in senso ontico. Ciò che esiste è l’agire dell’essere vivente, in un dato momento ed in un dato contesto. L’oggetto di studio dello psicologo (che il comportamentista radicale ama definire analista del comportamento) è perciò tutto ciò che questo essere vivente fa. Questo insieme di dati viene definito behavior (comportamento).
Il comportamentista quindi non impiega il termine behavior così come lo possono intendere altri specialisti o come lo si intende nel senso comune (un es. a caso, dal Dizionario Garzanti: “maniera di comportamentarsi, condotta, contegno”), ossia facendo riferimento, sostanzialmente, al comportamento motorio. Per il comportamentista (soprattutto per il cosiddetto radicale) tutte le risposte di un organismo vivente sono behavior! Ciò deriva dal fatto che l’essere umano è studiato non tanto in senso strutturale (come una persona è), quanto piuttosto in senso funzionale (ciò che una persona fa, in un dato momento, in un dato contesto e, di norma, con un certo fine adattivo). Tutto è perciò behavior, termine che equivale ad atto, azione, movimento e reazione, ma anche – e soprattutto – a risposta. È risposta quindi non solo il comportamento motorio, ma anche il pensiero, il funzionamento di ormoni e neurotrasmettitori, il linguaggio verbale, la sudorazione, il battito cardiaco e via dicendo. Non ve lo aspettavate, vero? Non si può capire la CBT se non si conoscono a fondo innanzitutto le basi di partenza, che sono quelle dei paradigmi di base del comportamentismo. Richard Malott, in Principles of Behavior (2014), uno dei testi maggiormente utilizzati in tutto il Mondo per formare gli analisti del comportamento, usa una frase piuttosto forte ed espressiva al riguardo, ma che illustra molto bene questo concetto: comportamento è tutto ciò che non può fare un morto (!). Più chiaro di così…

Riferimenti
Malott, R.W., Shane, J.T. (2004). Principles of Behavior (7th ed.). New York: Psychology Press.
Van Rillaer, J. (2014). Psychologie scientifique. Les thérapies cognitivo-comportementales. SPS n° 308, avril 2014 (pubblicato online: https://www.afis.org/Les-therapies-cognitivo-comportementales).

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