Di Francesca Spinozzi, psicologa psicoterapeuta, Associazione Rete Italiana Noi e le Voci
“Ce la farò?”, negli ultimi incontri Luciana ripete di continuo questa domanda. Sta attraversando una fase nuova, finalmente le voci sono diminuite di numero, ma in compenso una profonda depressione e l’ansia non le danno tregua. Sembra disarmata di fronte al dolore e alla sofferenza che comincia a generare dall’inizio di una nuova consapevolezza. Per contrastare questo stato, l’inconscio emotivo di Luciana tende a riportarla nella costruzione difensiva delirante, arrivando talvolta anche a distorcere ricordi per dare conferme alle sue spiegazioni.
Luciana è sempre stata una donna forte, ha reagito alle difficoltà della vita per il bene della sua famiglia, ma ha vissuto anche tante esperienze traumatiche, forse troppe, che l’hanno segnata profondamente e che l’hanno portata, dopo l’ennesima perdita inaccettabile e inspiegabile, a crollare. Fa fatica oggi a riprendersi e, in una fase di miglioramento, fa i conti con il suo dolore, si trova faccia a faccia con esso. Non si sente però in grado di affrontarlo e la tentazione di rifugiarsi nel mondo delle voci è forte, perché quel mondo minaccioso le permette di prendersela con qualcuno e sfogare la rabbia repressa.
Le voci attuali, di persone a lei note, le riferiscono di procurarle malanni fisici e minacciano l’incolumità sua e dei suoi cari, riflettendo la sua comprensibile paura di dover vivere ancora sofferenze laceranti. I pensieri di Luciana, nel cercare spiegazioni a quanto le è accaduto, le rimandano vissuti di colpa e persecuzioni.
Mi rivolge la domanda “Ce la farò?” con occhi imploranti, quasi volesse carpire da me quella sicurezza di guarigione, di ripresa possibile che le manca. Ed io, nel rimandarle che ce la farà di certo, sento tutto il suo dolore e il suo desiderio di avere ancora una speranza. Luciana vuole sapere anche quanto tempo ci vorrà, ma purtroppo questo non si può sapere in anticipo e dipende in parte da lei e dalla sua volontà di combattere. Ciò la rattrista e avverto lo sconforto, e il suo sguardo che esprime il non farcela, “Non ce la faccio a fare niente…come faccio?”.
E allora il lavoro da fare con lei, insieme al gruppo, è di aiutarla a trovare la strategia migliore per affrontare il suo disagio, trovare il significato delle sue voci e vivere senza farsene condizionare.
John Perceval è un ragazzo dell’Ottocento, che in un libro racconta la sua storia. Il libro si intitola: A Narrative of the Treatment Experienced by a Gentleman, During a State of Mental Derangement: Designed to Explain the Causes and the Nature of Insanity (and to Expose the Injuidicious Conduct Pursued Towards Many Unfortunate Sufferers Under that Calamity) e narra l’esperienza del giovane Perceval, rinchiuso in manicomio a ventinove anni.
Perceval è un nobile inglese, che dopo aver intrapreso e abbandonato la carriera militare, si dedica alla spiritualità frequentando gruppi di meditazione e convincendosi di essere ispirato dallo Spirito Santo e di avere il potere di entrare in contatto con presenze spirituali, che gli si rivelano attraverso le voci delle persone che incontra. Cerca di compiere miracoli ma, dato che non ci riesce, si deprime, va con una prostituta e contrare una malattia venerea. Dopo questo episodio è torturato dal senso di colpa: è tormentato da voci che gli ordinano di farsi del male.
Viene ricoverato in modo coercitivo, John non è consapevole di essere in un ospedale psichiatrico, pensa di essere in una prigione infernale, condannato per i delitti commessi, preda di voci interiori mistiche e minacciose. Malgrado questo stato delirante, Perceval si mantiene dubbioso e, nonostante le voci tentino sempre di riportarlo in una dimensione sognante, nei momenti di lucidità prende consapevolezza della sua reale condizione: si rende conto di essere ricoverato in un ospedale psichiatrico e dell’autoinganno in cui è caduto.
A questo punto cerca di sottrarsi con la volontà all’obbedienza automatica ai comandi allucinatori, trovando delle strategie per contrastarle, dialogando con loro e cercando dati di realtà in contrasto con ciò che affermano le voci. In particolare, John riesce a fare un’osservazione importante. Mentre ascolta una voce, si accorge che, se si concentra su un oggetto esterno, questa si trasforma in un brusio indistinto. Se invece ritorna allo stato di assenza mentale, sente di nuovo la voce. Capisce allora che quando lui, distraendosi, crea un vuoto mentale, quest’ultimo permette alla voce di proliferare.
Si accorge allora di essere lui il responsabile della comparsa delle voci, nonostante queste sembrino imporsi con un potere autonomo. Anche quando arrivano all’improvviso, le voci anticipano, in qualche misura, un suo pensiero; si rende conto che quando è più angosciato, la capacità di trasformare una percezione sensoriale in allucinazione è più forte. A questo punto, le sue voci cambiano, diventando più amichevoli, sollecitandolo a guarire in fretta. Ma lui, che ha imparato a conoscerle, intuisce che deve diffidare delle sue voci, anche di quelle amichevoli.
Progressivamente, Perceval si riprende, sviluppando la percezione dell’esistenza del mondo esterno, che gli permette di emergere dal rifugio in cui si era confinato.
Uscito dal manicomio, deve superare molte esitazioni per scrivere le sue memorie, perché teme che il solo ricordo della sua “crisi” possa riportarlo indietro alla dissociazione precedente. Ultimato il libro, si dedica per il resto della vita alla tutela e alla difesa dei diritti dei pazienti ricoverati negli ospedali psichiatrici inglesi.
Perceval ci mostra che il percorso di recovery coinvolge la persona nella ricerca delle strategie, adatte a contrastare il disagio, e che sono uniche per ciascuno, intimamente legate alla storia personale di ognuno.
Nel gruppo i partecipanti si rimandano di continuo quanto sia duro e difficile il percorso di recovery, spesso ci rendiamo conto che la maggior parte delle volte è più facile notare solo gli aspetti negativi di sé e della propria storia e non quelli positivi. Inoltre facciamo fatica a pensare al futuro in chiave ottimistica.
I “Vorrei ma non posso… non ce la faccio” di Silvia risuonano come una sconfitta prima ancora di entrare in partita. Riascoltavo giorni fa una registrazione del gruppo, in cui Paolo afferma “La psichiatria mi ha catturato”, e lo dice con un senso di ineluttabilità, come se, da quando ha iniziato il suo percorso di cura in psichiatria, fosse stato ingabbiato in un destino inevitabile, una condizione senza via di scampo.
Invece, come ci insegna la storia di Perceval, che sembrava essere piombato in uno stato irrecuperabile, una via d’uscita può e deve esserci per tutti. Nessuno dice che è facile trovarla, la strada può essere lunga e tortuosa ma vale la pena provare per riprendere in mano la propria vita.
Tutti ce la possono fare.
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