Presentazione del libro "Al cuore delle cose" di Elvio Fachinelli al Centro Milanese di Terapia della Famiglia. Da sinistra: Giuditta Fachinelli, Pietro Barbetta, Nicole Janigro, Dario Borso, Antonello Sciacchitano (leggi la sua presentazione seguendo il link), fuori quadro Marco Dotti e il pubblico numeroso.
Qualcuno mi avrà osservato scrivere, negli ultimi cinque o sei anni, in merito alla figura di Elvio Fachinelli, psicoanalista scomparso prematuramente, a 60 anni, che non ha avuto il tempo e il modo di lasciare una Scuola. Oggi, forse a partire dal libro di Sergio Benvenuto del 1998, e sempre più negli ultimi dieci anni, la figura di Fachinelli è ricomparsa alla ribalta e le sue riflessioni sono ritornate a essere illuminanti. Come mai? E che ci azzecca Fachinelli con la Scuola sistemica di Milano?
Come abbiamo già visto nelle prime due puntate di questa Breve storia, nel momento in cui Boscolo e Cecchin si separarono da Selvini e Prata, lo fecero sulla base di una questione teorica e di una questione pratica (non voglio, né potrei, entrare nel merito di questioni personali o di altro tipo, che certamente, come umanamente si può comprendere, ci furono).
La questione teorica fu l'interesse di Boscolo e Cecchin per la cibernetica del second'ordine (dunque Maturana, Varela, von Foerster, ecc.) e per la teoria della complessità (Ceruti, Morin, Bocchi, Prigogine, Stengers, ecc.). Si trattava di una svolta epistemologica: l'interesse si spostava dai giochi nevrotici, perversi, psicotici nella famiglia (che portavano il terapeuta ad avere tentazioni diagnostiche), al gioco, assai serio, della conduzione terapeutica, volta a togliere la patologia, a depatologizzare il Paziente Designato.
La formazione fu il risvolto pratico di questa svolta epistemologica, si può parlare qui di svolta nella trasmissione della competenza terapeutica. Ci si accorse che la terapia non si apprende a farla dall'alto verso il basso, si apprende rivoltando la piramide, dal basso verso l'alto. In questo modo lo specchio bidirezionale divenne uno strumento creativo. Non c'erano più, dietro lo specchio, quattro terapeuti esperti che cercavano strategie terapeutiche scioccanti e rapide, dietro lo specchio c'erano allievi che chiedevano spiegazioni ai terapeuti esperti su come mai avevano fatto le domande che facevano, come mai avevano deciso di intervenire o di ascoltare in quel particolare momento della seduta. I terapeuti esperti si guardavano con gli occhi degli allievi, la terapia diventava pratica clinica concreta, una vera e propria rivoluzione cibernetica. Gli allievi si formavano guardando, come osservatori critici, ciò che accadeva in seduta, lo facevano in gruppo, e il gruppo, a sua volta, aveva una funzione terapeutica e formativa per gli allievi, che interagivano tra loro mettendo in questione le loro premesse, ma anche quelle della Scuola e dei Didatti della Scuola.
In secondo luogo, al Centro Milanese di Terapia della Famiglia si incontravano perlopiù famiglie con figlie anoressiche o un membro schizofrenico, che chiamavamo pazienti designati. Incontravamo cioè famiglie con le problematiche e le sintomatologie emergenti in quell'epoca storica, che coincide con la chiusura dei manicomi e con la crisi del boom economico. Il primo evento portava le famiglie a pensare che il componente schizofrenico poteva essere curato attraverso differenti modalità, compresa la terapia familiare, il secondo evento mostrava il paradosso della morte per inedia dentro la società opulenta. Si trattava sopratutto di fenomeni sociali rilevanti, che andavano al di là delle classiche nevrosi del trattamento nel setting psicoanalitico classico.
E siamo alla fine degli anni Settanta.
In quegli stessi anni, o appena qualche anno prima, sempre a Milano, Elvio Fachinelli cercava di trasformare il fenomeno della psicoanalisi in qualcosa che avesse a che fare con il sociale. Aveva aperto, con altri colleghi, e sopratutto con un gruppo di donne psicoanaliste e femministe, una scuola a Porta Ticinese. Questa scuola era, per lui, un vero e proprio laboratorio di osservazione clinica infantile, in un contesto non clinico, una scuola. Da qualche mese si possono leggere le sue osservazioni cliniche e sociali, grazie al testo Al cuore delle cose, curato da Dario Borso. In particolare, suggerisco il capitolo “Elvio cacato”, che mostra la ricchezza delle riflessioni di Fachinelli sull'infanzia e va in parallelo con Il bambino dalle uova d'oro, così come il suo intervento del 1975 su “Il denaro dello psicoanalista”, va letto in connessione con Claustrofilia, del 1983.
Quando un gruppo di giovani, di cui facevo parte, entrò nel riflusso politico del 1976-78, ci fu una diaspora di piccoli intellettuali maschi ribelli – io avevo 22/24 anni – che non sapevano dove andare a sbattere la testa. Le giovani donne avevano trovato nelle pratiche femministe una strada per “riprendersi la vita”, come si diceva allora. Avevo sentito Fachinelli, leggevo la rivista “L'erba voglio”, avevo sentito Basaglia e partecipavo alle assemblee di quella che era il movimento di psichiatria democratica, sentivo parlare della psicoanalisi nelle organizzazioni, con Pagliarani, della sociologia della povertà con Ferrarotti, della Fondazione Olivetti. Mi misi a studiare e nel 1982 mi laureai con ritardo, prendendo a frequentare l'Istituto di Psicologia di Parma, con Walter Fornasa, un altro grandissimo collega morto prematuramente. Là incontrai Mauro Ceruti, Gianluca Bocchi, Sergio Manghi, Sheila McNamee, Gianfranco Cecchin. Cecchin era venuto a fare una lezione come professore a contratto e ci aveva mostrato il video di una seduta con una famiglia con un figlio schizofrenico. Da quel video decisi di innamorarmi di quel lavoro, sarà stato il 1984 e avevo trent'anni.
Non è per narcisismo che traccio questa storia, si tratta di una traiettoria comune di molti giovani della mia età, tra i sessanta e i settanta. La coincidenza tra Fachinelli e Boscolo è davvero notevole: Fachinelli fu analizzato e formato da Musatti, a sua volta allievo di Benussi e Weiss; Boscolo fu in analisi e in formazione con Arieti e Ackerman a New York. Musatti e Arieti. Il primo, di padre ebreo, ebbe a subire le ingiustizia delle leggi razziali del 1938, il secondo, ebreo, fu costretto, come Weiss, a fuggire dall'Italia per non essere sterminato. Entrambi provenienti dal Triveneto (all'epoca c'era una rivista sociologica e politica di sinistra che si chiama Triveneto), entrambi medici, entrambi interessati all'infanzia, che respiravano un analogo spirito libertario.
Luigi Boscolo, con Gianfranco Cecchin, ruppe da “sinistra” con la psicoanalisi, sulla scorta delle critiche e dell'ironia di Foucault e Woody Allen, Elvio Fachinelli mantenne una continuità eretica. Un po' come Valdo e Francesco, ma con una differenza, nessuno dei due andò mai dal Papa a chiedere riconoscimento.
Aggiungo quello che Pietro
Aggiungo quello che Pietro Barbetta ha affermato durante questa presentazione. Elvio non ha fondato una sua scuola di psicanalisi. Non è stato un Bion o un Lacan italiano. Tuttavia, ha ispirato diversi soggetti di formazione diverse: freudiani, junghiani, lacaniani, sistemici. Vuol dire che si trovava all’intersezione comune di diversi approcci e di diversi insegnamenti. Insomma, stava al cuore della psicanalisi.
Antonello Sciacchitano