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CHE COS’È LA PSICHIATRIA? 50 anni dopo. Parte III. Tutta un’altra storia.

17 Giu 17

A cura di chiclana

Segue dalla parte I “Gorizia e Parma” e dalla parte II “Lavoro, psicoterapia, istituzione” (clicca qui per andare all’inizio).

7. La psichiatria antiistituzionale scopre la sua storia

Abbiamo lasciato indietro due capitoli, anch’essi caratterizzati da straordinaria originalità e importanza. Perché testimoniano uno sforzo di ricerca delle radici, di guardare come all’interno della storia della psichiatria sia possibile rintracciare anche un rivolo che scorre in senso contrario, dove gli stessi problemi che in quel momento Gorizia affronta sono stati già posti ed affrontati da altri. Ed è interessante che, nel rispondere alla domanda “che cos’è la psichiatria” l’équipe goriziana se ne ponga anche un’altra: “che cos’è la storia della psichiatria”. Essa non può essere solo, come per lo più era stata fino allora – e in parte continua in qualche caso anche oggi ad essere – rintracciare i segni di una storia fine a se stessa, o volta alla celebrazione dei padri con il pensiero recondito che, forse, domani qualcuno celebri noi. No, la storia della psichiatria è in questo caso volgersi indietro per rintracciare i problemi, le contraddizioni costanti della psichiatria, quelli che stiamo anche in questo momento affrontando, immedesimarsi e misurarsi con il modo nel quale qualcuno prima di noi li ha affrontati. Per cogliere il fatto che, in una storia di secoli, è sempre molto difficile potersi sentire i primi.
Non si è mai in senso assoluto i primi, neppure quando si sta facendo qualcosa senz’altro originale come Gorizia allora faceva. La lettura della Storia della follia di Michel Foucault è stata assimilata dall’équipe, e con i due scritti storici inseriti in questo volume il gruppo di Basaglia, tra tante cose originali che stava sperimentando per la prima volta in Italia, fonda anche a mio parere, almeno per l’Italia, un modo nuovo, diverso da prima, di fare storia della psichiatria.
Con Giovanni Jervis e Lucio Schittar a scrivere, nel volume, che: 

«Ci rendiamo conto oggi che oltre alla psichiatria accademica, ufficiale, e al di là delle sue illusioni e dei suoi fallimenti, al di fuori della sua ostinazione tassonomica e degli sforzi interpretativi, esiste un‘altra psichiatria, che non esitiamo a considerare più importante, costituita dalla storia reale dei rapporti tra psichiatri e malati di mente» (p. 190).

Un’altra storia, insomma. Che è storia di istituzioni, e del loro incontro/scontro con il malato. E, al suo interno, un’altra storia ancora, anzi una contro-storia, quella dei tentativi che si sono riproposti nei diversi periodi, di modificare le modalità di quell’incontro. Sarebbe tuttavia un errore, per Jervis e Schittar, trarre dalla somiglianza delle parole dei Tuke, di Connolly e Maxwell Jones a dispetto del tempo trascorso l'idea che nella psichiatria la storia non scorra e i problemi (e le risposte) siano all‘incirca sempre gli stessi. Perché quelle stesse parole possono assumere, a seconda del contesto in cui sono pronunciate – che si è, esso sì, evoluto, e questo è importante – significato diverso.
La storia della psichiatria sarebbe, in altri termini, caratterizzata da un elemento sostanzialmente invariante – i problemi posti dall’incontro tra follia e ragione e le risposte che tendono a evocare – e una destinata ad evolvere e cambiare, cioè il senso che, all’interno di culture e paradigmi diversi, queste risposte assumono. E cercare le proprie radici nella storia non significa, allora, per i due goriziani ricalcare le tracce indelebili di una sorta che tende ciclicamente a riproporsi uguale, quanto piuttosto indagarle per capire se da esse possano venire suggerimenti utili oggi a «sviluppare un discorso critico utile in un contesto diverso» (p. 191).
La psichiatria antiistituzionale, dunque, si volge indietro per cogliere nella storia della psichiatria le sue radici e le trova in particolare in due psichiatri del passato, che vanno ad aggiungersi a quelli più noti allora come oggi, i Tuke e Philippe Pinel: l’inglese John Connolly (1794-1866) e il francese Evariste Marandon de Montyel (1851-1908).  
Del primo dei due la Gran Bretagna aveva celebrato l’anno precedente il centenario della morte. E dello psichiatra di origine irlandese si occupano qui Agostino Pirella e Domenico Casagrande, che individuano all'origine della sua opera di rinnovamento quattro punti centrali (pp. 177-178):

  • che la malattia mentale non costituisce di per sé indicazione all'isolamento;
  • che ogni malato ha diritto alla cura dallo Stato, il quale deve avocare a sé la direzione di tutti i manicomi;
  • che il manicomio, il luogo cioè dove sono i malati gravi e perciò è la psichiatria, è anche il luogo idoneo all'insegnamento della psichiatria a studenti di medicina e infermieri (il che, allora, accadeva anche per l’Italia, ma avrebbe cessato di accadere alla fine del secolo con la sciagurata separazione tra cattedre e direzione degli asili);
  • che ogni manicomio deve collaborare con i medici generici per il benessere dei malati di mente nella società.
Dal 1839 Connolly aveva assunto la direzione del manicomio di Hanwell che mantenne per cinque anni, e da quell'esperienza e da quella di ispettore trasse nel 1856 il volume Trattamento del malato di mente senza metodi costrittivi, che sarebbe stato tradotto – a testimonianza ulteriore dell’importanza che i goriziani gli attribuivano – nella Piccola Biblioteca Einaudi con introduzione di Pirella nel 1976. Nel libro Connolly riporta la sua esperienza di completa abolizione dei mezzi di contenzione meccanica dai manicomi, ammettendo solo un blando ricorso all'isolamento (un’impostazione, questa, che s’impose in modo tanto solido da persistere anche nella Gran Bretagna di oggi). I casi clinici che riporta sono davvero incoraggianti:

«Ci portano dei giovani impazziti da alcune settimane che, per lo spavento o l'ignoranza dei parenti, sono stati messi dentro dalla polizia, sospinti a forza nelle work houses, esposti a maltrattamenti e ingiurie, sono state loro imposte le manette e alla  fine inviati  in manicomio al colmo della esasperazione per tutto  ciò che avevano subito. Un esempio notevole di tale stato di cose  fu una giovane diciottenne, la cui guarigione ebbe inizio il giorno del ricovero: pur essendo in preda a crisi maniacali e con tendenze suicide al momento dell'accettazione, lasciò l'istituto perfettamente  guarita. Dopo due giorni che la fanciulla era  nel reparto, sparirono i gesti incomposti e l'aspetto pazzoide; si fece notare per l'aspetto mite e la gentilezza, ma conservò un lucido  ricordo di come era stata trattata prima di essere  mandata da noi».

Ma come aveva potuto Connolly raggiungere questo risultato? E’ questa questione soprattutto che interessa il gruppo goriziano che, come l’anno successivo avrebbe scritto Schittar, individua in lui «il primo capo di quel filo che dalla prima metà dell’Ottocento si svolge fino a Maxwell Jones e alle attuali comunità terapeutiche»[i]. E come tale, del resto, era stato ricordato allora in occasione del centenario da psichiatri inglesi e francesi, come Richard Hunter e Philippe Koechlin.
E in effetti Connolly ci stupisce quando scrive che “gentilezza” e “attenzione” verso il paziente sono gli ingredienti fondamentali della psichiatria. E ancora che:

«Non solo è possibile dirigere un grosso manicomio senza applicare ai pazienti la coercizione fisica, ma dopo l’abolizione totale di tale metodo di controllo, le caratteristiche di un manicomio subiscono un graduale e benefico cambiamento». 

O che:

«La sicurezza e il buon comportamento dei pazienti dipendono completamente dalla cura e vigilanza ininterrotta degli infermieri; e al sistema repressivo va sostituito un metodo di cura sostenuto dalla serena collaborazione di ogni singolo dipendente, così che tutti siano gentili, protettivi e, per così dire, familiari. Per l’attuazione di questo piano è quindi indispensabile che tutto il personale sia concorde».

Insomma, siamo a metà dell’Ottocento ma dell’importanza del lavoro di équipe c’è già nello straordinario collega inglese piena consapevolezza. Pirella e Casagrande ricordano poi come fino alla morte nel 1866 egli abbia continuato, anche dopo aver lasciato la direzione del manicomio, a propugnare – coadiuvato dal genero, lo psichiatra Henry Maudsley – le sue idee, fondando così lo studio e la denuncia degli artefatti manicomiali e impegnandosi contro l'esclusione del malato di mente nella società, un tema del quale fu tra i primi ad avvertire l’imoportanza.
Nel successivo capitolo sono invece Jervis e Schittar a occuparsi, dopo un’ampia ricognizione sul senso del fare storia in psichiatria della quale si è detto, il caso dello psichiatra francese Evariste Marandon de Monyel, il direttore dei manicomi del dipartimento della Senna a fine Ottocento il quale, da un lato, propugnò l'applicazione dei metodi più liberali e rispettosi di cura che abbiamo già visto a proposito di Connolly, ma dall'altro ebbe il merito di ribaltare forse in modo più esplicito del collega inglese e di ogni altro prima l'idea del carattere terapeutico dell'isolamento (dalla famiglia e dalla società), sulla quale Esquirol aveva fondato il modello del manicomio come strumento di guarigione della follia, sostenendone all’opposto il carattere totalmente antiterapeutico.
Marandon de Montyel è, a questo proposito, davvero eccezionalmente chiaro quando scrive nel 1896:

«I nostri asili attuali, con i loro muri di prigione o di chiostri, le loro disposizioni regolari e simmetriche, sono, per un grandissimo numero di alienati, delle fabbriche di incurabili e noi, attraverso l’isolamento che imponiamo ai nostri malati, la vita da reclusi alla quale li condanniamo, la disciplina severa che imponiamo loro, noi siamo in un grandissimo numero di casi, incoscientemente e con le migliori intenzioni del mondo, dei fabbricanti di cronici».

Ribaltare il paradigma dell’isolamento, dunque. Concedere visite illimitate ai familiari, non solo per l’esigenza pratica di andare loro incontro ma anche per dare a tutti “il senso” della libertà. Trasformare parte del manicomio in un normale villaggio. Concedere maggiore libertà, o almeno una sensazione di maggiore libertà, ai ricoverati. Ma, certo, la libertà che Marandon de Montyel si sente di concedere all'alienato non è una libertà del tutto priva di controllo. E‘ in gran parte piuttosto un‘apparenza di libertà, dove il controllo non cessa di essere, in maggiore o minore misura, presente ma solo è meno immediatamente percepibile, meno incombente:

«Cosi il nuovo metodo di ospedalizzazione degli alienati (…) parte, per la costruzione degli asili, da principi dia­metralmente opposti. Il primo di tali principi è l'abolizio­ne della sequestrazione del malato; il nuovo metodo ren­de all'alienato tutta la sua libertà; nulla, nell'ambiente in cui si trova, gli ricorda che egli è un essere anormale, se­parato momentaneamente dal resto della società. In appa­renza, egli è completamente libero. Di conseguenza, dove egli abita, tutti i muri sono soppressi, non vi sono barrie­re né all'esterno né all'interno. Ma ciò non basta: bisogna anche che possa entrare e uscire a volontà, così che all'abo­lizione delle muraglie si accompagna quella delle serratu­re».

Però, prosegue il collega francese che sente evidentemente il bisogno di rassicurare la società sul fatto che la sua “psichiatria nella libertà” non abdicherà del tutto dall’impegno di controllo dal quale era nata nel momento in cui, con Pinel, aveva avocato a sé cura e custodia dei folli :

«Questo alienato che si crede libero, che va e viene, che entra e esce a volontà, che non scorge alcun vero limite al­la propria libertà, è egli veramente libero? Può liberamen­te commettere il male? Per nulla affatto, poiché in ogni istante, senza che lo sappia, egli è oggetto di una sorve­glianza occulta, in cui i suoi più piccoli atti e le sue parole sono visti e ascoltati: muraglie e serrature sono state sop­presse, ma sono state sostituite da un personale che veglia giorno e notte».

E i limiti che Jervis e Schittar ravvisano nella posizione di Marandon de Montyel sono, allora, essenzialmente tre. Il primo è quello appunto del carattere più apparente che reale della libertà che viene concessa; non si cessa, in ogni caso di controllare. Il secondo, che dietro la parte del manicomio resa più libera rimanga comunque una parte chiusa; dove il ricoverato ben sa che rientrerebbe se non si dimostrasse capace di gestire (o disponibile a gestire?) la propria libertà come l’istituzione gli chiede di gestirla. E il terzo, che ha a che fare con il paternalismo che sembra loro sostenere l’intera proposta riformista di Marandon de Montyel, un paternalismo evidente soprattutto in alcuni passaggi:   

«Affermo che non solo la più estrema libertà è compati­bile con il buon ordine e con la disciplina, ma, ciò che è meglio, che essa assicura in modo più vantaggioso l'uno e l'altra. I malati, difatti, sono allo stesso tempo riconoscen­ti del bene che si cerca di fare per loro, e fieri di godere di una simile fiducia; essi si fanno un punto d'onore nel mo­strarsene degni al punto che i soggetti ribelli e insubordi­nati in ambiente chiuso divengono obbedienti e lavoratori non appena si aprano le porte».

Si tratta di tre critiche che mi paiono molto interessanti, e che spingono anzi a chiederci se oggi, che 50 anni ci separano da Jervis e Schittar come 70 separavano loro dal collega francese, possiamo o no ancora condividerle.
Cominciamo con la prima. Infondo, Marandon de Montyel aveva avuto il coraggio di identificare nell’isolamento del malato non uno strumento di cura ma un problema che si aggiungeva al problema, un tema sul quale proprio Basaglia stava allora insistendo; così facendo, aveva sconfessato il primo secolo di vita della psichiatria. Non fu il solo, probabilmente, in quegli anni; ma lo fece con particolare nettezza. Proponeva perciò di spostare 2/3 dei ricoverati dal manicomio a una situazione nella quale si sentissero (e in un certo senso e in qualche misura anche fossero, inevitabilmente), più liberi, aprendo al terzo rimanente la possibilità di seguirli, e anche questo non mi pare poco.  A fronte di questo passaggio importantissimo, avvertiva la necessità che anche all’interno di quella nuova libertà, i malati non cessassero di essere controllati. Ma mi chiedo se ciò non sia condizione necessaria di ogni operazione di apertura in psichiatria; non lo fosse a Gorizia, dove si procedeva con oculatezza nel dimettere, e non lo sia oggi; io credo di sì[ii]. Riteneva che il fatto di sentire su di sé la fiducia dell’istituzione e l’orgoglio di corrispondervi in modo adeguato potessero incoraggiare una forma di auto-controllo (di controllo introiettato), che potesse avere la stessa efficacia del controllo esercitato dall’asilo; e mi chiedo se, con qualche approssimazione certo, quando oggi parliamo di responsabilizzazione, parliamo davvero di qualcosa di molto diverso. Quando allora si passava da un reparto chiuso a uno aperto di Gorizia, o quando oggi ragioniamo sulla dimissione di qualcuno da un SPDC o da una struttura residenziale, non parliamo della REMS, non è proprio lo stesso il ragionamento che facciamo e non è proprio sulla capacità di autocontrollo della persona (oltre che di supporto della famiglia o altri) che ci troviamo a far conto? E’ libertà, insomma, questa; o è una “parvenza” di libertà? E’ un quesito importante, ma credo che dovrebbe riguardare infondo anche, fuori dalla psichiatria, la libertà di tutti noi, che siamo liberi, certo, ma di una libertà che è infondo anch’essa prima di tutto autocontrollata, e poi anche controllata.
E passiamo alla seconda obiezione. Marandon de Montyel, certo, liberava dal manicomio la maggioranza dei malati. Ma prevedeva comunque la permanenza di una minoranza (i meno gestibili, oggi diremmo) in condizioni di minore libertà, diciamo pure di chiusura. E prevedeva la possibilità, diciamo pure anche l’implicita minaccia, di un ritorno verso quella condizione di più stretta sorveglianza, la parte dell’istituzione che rimaneva chiusa, per quelli liberati. E’, evidentemente, un limite posto alla libertà. Ma anche questo, mi chiedo se fosse un suo limite, o non rischi di essere una condizione perenne in psichiatria; anche oggi, se si entra in crisi in misura tale che la situazione sia incompatibile con la permanenza sul territorio, si è ricoverati. Certo la legge 180 prevede che i trattamenti siano “di norma” volontari, ma ciò non impedisce che essi possano diventare, sia pure in condizioni eccezionali, obbligatori. C’è sempre la necessità di un indietro un po’ più chiuso, insomma, in psichiatria; e non credo che ci sia da scandalizzarci per questo, purché l’ombra che esso proietta sulla libertà, pur auto ed etero controllata almeno in qualche misura, che “di norma” è garantita non sia avvertita come una minaccia al punto tale da annientare, di fatto, quella libertà.
Il problema, però – e con questo passiamo alla terza critica – è che la sua vera distanza dall’impostazione di Basaglia e – spero – dalla nostra, non mi pare stia tanto nel modello che concretamente Marandon de Montyel propone di mettere in opera e in questi primi due, forse inevitabili, limiti che abbiamo evidenziato alla libertà del soggetto. Ma piuttosto nella sua incapacità – legata ai tempi, certo, e credo che Jervis e Schittar abbiano in questo ragione – di coglierne gli elementi di indispensabile contraddizione nella dialettica tra quel controllo che certo occorre continuare a esercitare perché è (credo) forse consustanziale alla psichiatria, e il processo di liberazione reale al quale si sta comunque lavorando. Perché occorre tenere presente, nella prospettiva storica, che i 70 anni che separano i due goriziani dal collega francese avevano trasformato il mondo, e gli stessi gesti che per l’ideologia paternalista caratteristica della società borghese di fine Ottocento avevano un significato, ne assumevano tutt’altro dopo che l’idea di persona era stata sconquassata da Sigmuund Freud e dai suoi epigoni, la pedagogia era stata rivoluzionata da Maria Montessori, la filosofia da Jean Paul Sartre, persino la Chiesa dal Concilio. Mentre un prete anomalo, don Lorenzo Milani, stava scrivendo che “l’obbedienza non è più una virtù”. E dopo che nel grembo degli anni ‘60 del Novecento andava maturando  il terremoto che avrebbe avuto luogo l’anno successivo, il ‘68 del quale in quel 1967 chi era più attento avvertiva già i prodromi.
La libertà, in altri termini, che Marandon de Montyel prevedeva per i suoi ricoverati, una libertà “paternamente” concessa e non conquistata (e una libertà fortemente condizionata), della quale dover essere sempre grati a qualcuno, era la stessa, infondo, di cui aveva goduto lui stesso per larga parte della sua vita – prima di essere il “capo” famiglia, e il Direttore –  e in qualche misura godeva ancora, stretto tra le convenzioni e i vincoli di una società rigidamente bianca, capitalista, patriarcale, quella della borghesia dell’ultimo Ottocento; ed era una libertà che, negli anni in cui scrivevano Jervis e Schittar, non poteva più essere considerata libertà.
Non dobbiamo stupirci, perciò, se per Marandon de Montyel è soprattutto la gratitudine, che sta a monte di una libertà soprattutto concessa, a essere terapeutica, a creare bravi pazienti capaci di godere con la moderazione e i vincoli che ci sono a tutti comune della libertà. E se per Basaglia – lettore di Hegel attraverso Sartre e Fanon – e chi collabora in quel momento con lui, invece,  la gratitudine è il veleno peggiore che può accompagnare la libertà, la quale può essere soltanto conquistata nella dialettica e nella reciprocità, e mai concessa. Il che, di fronte all'irrompere impertinente della follia, è un bel rebus. E per noi?
 

Beh, un po’ di suspense… proverò a fornire anch'io qualche spunto per ragionare insieme su noi, su “che cos’è” – oggi, per noi – “la psichiatria”, dal prossimo 27 giugno su questa rubrica (clicca qui per il link).  



[i] L. Schittar, L’ideologia della comunità terapeutica, in: Aa. Vv., L’istituzione negata. Rapporto da unospedale psichiatrico (a cura di F. Basaglia), Torino, Einaudi, 1968, pp. 153-178 (p. 156).
[ii] Rimando, ancora, in proposito al contributo personale fresco di stampa: P.F. Peloso, Dalla sorveglianza al sostegno. Note su pericolosità e controllo in psichiatria, Psicoterapia e scienze umane, LI, 2, 2017, pp. 285-296.

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