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Chi è l’uomo comunitario?

11 Ago 14

A cura di Luigi D'Elia

Circa un anno fa mi domandavo in un precedente articolo se i nostri stili di vita fossero immutabili, o se viceversa esistessero dei margini di movimento all’interno di un sistema di vita talmente consolidato, totalizzante e interiorizzato, come quello di questa fase storica ultra-capitalistica, da non lasciare spazio ad alcuna fantasia e speranza di cambiamento. In quel contributo dopo aver analizzato, come semplici pretesti di riflessione, due prospettive alquanto distanti culturalmente, una di matrice marxista, l’altra derivata dalla scienza dei sistemi complessi, concludevo approssimativamente che nulla è possibile immaginare se non partendo da due presupposti di base:

1.       non c’è possibilità di modificare strutturalmente uno stile di vita senza incidere profondamente sul paradigma e sulla natura dello scambio economico tra le varie parti di un sistema
2.       non c’è possibilità di un cambiamento strutturale dello stile di vita utilizzando esclusivamente criteri individualistici e soggettivi. Cambiare stile di vita ha senso solo all’interno di un campo comunitario e in una rete, piccola o grande, di relazioni.

Oggi, partendo da questi presupposti, voglio provare a portare avanti questa riflessione ponendo al centro della mia analisi proprio l’idea e la prassi del comunitarismo.

Lo faccio a ragion veduta avendo avuto nella mia esperienza professionale la pratica ventennale nelle comunità, benché terapeutiche, e avendo partecipato in passato alla fondazione e alla costruzione/conduzione di una piccola comunità. In estrema sintesi, in me convivono le buone pratiche della psichiatria-psicologia territoriale post-basagliana, i principi base di Rapoport, democrazia, condivisione, tolleranza, confronto con la realtà (“Community as a doctor”, 1960), una formazione su gruppi e istituzioni e soprattutto molta esperienza sul campo.

Parlo di comunitarismo, allorquando si voglia immaginare un’alternativa migliorativa all’attuale stile di vita, sia perché considero gli attuali stili di vita, per come si sono messe le cose, di fatto inemendabili, cioè impossibilitati ad autocorreggersi o autoriformarsi; sia perché la vita comunitaria appare a me e a quasi tutti gli analisti della contemporaneità esattamente come la parte mutilata della nostra natura umana, quella parte che in questa fase storica abbiamo dovuto sacrificare sull’altare di istanze, bisogni, temporalità, modalità di questo presente che viviamo.

ζῷον πολιτικόν (zoon politicòn) secondo la tradizione classica aristotelica andrebbe declinato, nella triplice accezione di uomo politico, socievole e comunitario. Il noi precede evolutivamente l’io e l’individualità è una pura astrazione al di fuori di un noi, di una vita gruppale, comunitaria, introiettata. Il modo di esistere degli ultimi decenni ha fortemente penalizzato questa specifica parte della natura umana, i suoi aspetti transindividuali (G. Simondon), i suoi aspetti di gruppalità interna ed esterna (S. Foulkes, D. Napolitani), enfatizzando le caratteristiche conformistiche dell’homo oeconomicus (S. Mill) e il suo tornaconto personale utilitaristico a detrimento di ogni movimento non-utilitaristico ma teso al bene comune (A. Caillé).

D’altro canto, tutte le ricerche sulla felicità e benessere in ambito della psicologia transculturale e sociale hanno come indicatore centrale le reti sociali formali e informali come elemento chiave nella valutazione della salute psicologica dell’individuo. Interessante notare a tal proposito, nelle ultimissime rilevazioni del Istat sul benessere degli italiani, come salute psicologica e relazioni sociali siano non a caso dimensioni visibilmente decrescenti.

L'uomo comunitario si staglia dunque come utopia navigabile per il futuro, orizzonte al quale guardare e tendere per un cambiamento possibile.

Ma qualche dubbio mi assale: siamo proprio così sicuri che quando parliamo di uomo comunitario, uomo che vive nella sua comunità, che vi appartiene, stiamo dicendo o pensando la medesima cosa, o piuttosto questo riferimento al comunitarismo oscilla paurosamente tra un’immagine rarefatta e sbiadita di un passato che è ormai alle nostre spalle (e i cui risvolti negativi appaiono cancellati) e riferimenti ad un presente che somiglia molto alle riserve indiane o ad enclave culturali resistenti? Molto facile quindi che il riferimento alla comunità sia astratto, teorico, idealistico, nostalgico e nulla sappiamo di quello che accade all’attuale uomo comunitario e tanto meno a quello futuro. Il rischio di ideologizzazione del concetto di comunitarismo e di uomo comunitario è quindi altissimo. Siamo proprio sicuri che il comunitarismo di oggi e quello di domani sia assimilabile a quello del passato oppure l’uomo comunitario di domani avrà tutt’altro aspetto?

Ci viene in aiuto il salutare e disidealizzante testo di Giovanni Barbieri, L'uomo comunitario nella società globalizzata (Rubbettino, Soveria Mannelli, 2010), che ci permette di vedere i lati oscuri dell’attuale comunitarismo: il misconoscimento dell’altro, il razzismo, l’ossessione identitaria, l’endogamia, l’autoritarismo, il clientelismo. Tutti aspetti questi che possono perfettamente convivere con gli elementi positivi della vita comunitaria senza produrre imbarazzo.

E dunque, l’insegnamento che ne possiamo trarre e che non è pensabile una comunità senza il male, questo è un presupposto ineludibile, e una comunità che lo esili, lo proietti all’esterno, che voglia chiamarsi fuori, è destinata quanto meno a rimanere sulle barricate e a giocare in difesa e in retroguardia.

Meglio di tutti questo concetto lo esprime a mio parere il film The Village, la storia di una comunità di fuggitivi, vittime delle violenze della società contemporanea, che ricrea in totale isolamento, ma anche mantenendo il segreto alle nuove generazioni, le condizioni di vita di una società felice, una società agricola preindustriale creata a tavolino, nell’illusione di lasciare il male e la violenza fuori dall’uscio. Ma per immunizzare la comunità dal male i suoi fondatori avevano escogitato un espediente che faceva credere a tutti che la foresta che circondava la comunità fosse abitata da mostri e ciò rendeva invalicabili i confini. La violenza però ritorna, come un rimosso, attraverso un “innocente” tentativo di omicidio per gelosia da parte di un minorato psichico. Questo costringerà la comunità a rompere l’isolamento e il segreto. Una bella metafora di una comunità fondata su presupposti umanamente comprensibili, ma di fatto inattuabili e inconsistenti. Principi imm-unitari che inficiano di fatto i principi com-unitari (R. Esposito).

Se è quindi indispensabile non esiliare il male da sé e incontrare l’immunitario che c’è in ognuno di noi, a maggior ragione non è nemmeno utile pensare al comunitarismo e all’uomo comunitario senza una solida pratica e senza un significativo campo applicativo che ci consenta di verificarne l’effettiva utilità e consistenza. Da psicologo faccio infatti fatica a sostare in idee e concetti che non abbiano anche un correlato empirico, un campo applicativo e una possibilità di verifica e confronto. Preferisco confrontarmi con chi ha già esperienze in un certo ambito piuttosto che con chi ha delle bellissime idee, ma senza un’esperienza reale. Mi risulta difficile quindi confrontarmi su concetti nobili quali quelli di democrazia, condivisione, tolleranza, leadership, organizzazione, decisionalità, se il mio interlocutore non sa, ad esempio, a cosa serve e come si conduce un’assemblea, o non si è mai confrontato per anni con i mille problemi di convivenza di una comunità reale. La fatica per la manutenzione di questi principi nella vita reale di comunità reali restituisce una pallida idea del perché nella vita pubblica essi sono diventati concetti vuoti e altamente manipolatori.

Se penso quindi alle esperienze consolidate di vita comunitaria oggi, penso a piccole o al massimo medie comunità o con una forte mission iniziale (comunità a scopo terapeutico ad esempio), o con una forte impronta religiosa o al limite una forte impronta civico-ideologica.

Non sono in grado di farmi un’idea di queste ultime, quelle religiose, ed invece, come detto, ho esperienza diretta delle prime, quelle terapeutiche, e già fermandomi su queste, le valutazioni sono fortemente contrastanti circa processi ed esiti di tali esperienze, oscillando da quelle ricche, formative e costruttive, anche importanti sul piano teorico, fino a giungere a esperienze decisamente negative, tendenti alla chiusura e all’autoreferenzialità iatrogena. Quindi un bilancio controverso dal quale però estrarre importanti insegnamenti.

Provo a immaginare come sarebbe l’uomo comunitario di oggi immaginando al contempo una sperimentazione pilota a partire dalla realtà esistente e a partire anche dalle premesse poste qui, dovendo perciò contemplare: gli aspetti degli scambi economici, gli aspetti relazionali e gruppali, gli aspetti controversi della natura umana, gli aspetti delle esperienze concrete già svolte, ma aggiungerei anche gli aspetti meta-contestuali all’interno dei quali svilupperebbe oggi un nuovo comunitarismo.

È mai possibile, cioè, pensare ad una sperimentazione che esuli dalle regole del sistema in cui insiste? Credo proprio di no.

Pensiamo ad esempio all’esperienza di comunità dei monasteri benedettini (e della loro regola) nell’alto medioevo subito dopo il crollo dell’Impero romano, paradigmi di una vita comunitaria che compendiava tutti i capisaldi del vivere civile e morale di quell’epoca (di cui la cristianità si faceva faro e portavoce) e che rappresentava anche un modello di economia locale di successo. Se proviamo a comparare, con un volo pindarico, quella esperienza ad esempio alle comuni hippy degli anni 60-70, laboratori di sperimentazioni relazionali e sociali, ancora troppo interni alle contraddizioni del sistema capitalistico e quindi esperimenti disinnescati in partenza, ci accorgiamo immediatamente della distanza abissale, anche in termini di risultati storici. Il monastero diventò paradigma e seme della futura civiltà europea, la comunità hippy ha lasciato sbiaditi e piacevoli parentesi di gioventù in qualche attuale nonnino sopravvissuto e non molto di più.

La sfida è quindi quella di immaginare una vita comunitaria oggi o domani che riepiloghi non-ideologicamente tutte le necessità di innovazione e cambiamento che la società ci propone, a cominciare dalla struttura dello scambio economico, fino a contemplare in quale dialettica quella comunità si ponga in funzione di ogni interfaccia interna ed esterna, ad esempio in funzione del rapporto individuo/gruppo, o famiglia/gruppo o del rapporto comunità ristretta/comunità allargata, solo per far alcuni esempi cruciali.

Se proviamo ad addentrarci nel vivo delle più acute contraddizioni che una vita comunitaria oggi ci proporrebbe, ci accorgiamo (e qui lo dico da gruppoanalista) che ciò che le esperienze di comunità ed anche le formulazioni teoriche più coraggiose fanno fatica a affrontare fino in fondo sono proprio questi nodi-interfacce indidivuo/gruppo, famiglia/gruppo, piccola comunità/grande comunità, dialettiche insature dell’interminabile lavoro personale di ognuno di noi. Questo perché i codici sociali che informano questi nodi cambiano rapidamente forma a queste dialettiche e con la forma cambiano anche, in buona parte, senso e contenuto.

Senza attraversare fino in fondo questi nodi, declinati al presente e concretamente, e non al passato e astrattamente, risulta difficile immaginare un comunitarismo contemporaneo. 

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