1. Chi osserva chi*
Il processo migratorio implica l’arrivo in un determinato posto, già occupato da una comunità autoctona[1], di una nuova entità.
Per capire cosa avviene in questo incontro è necessario vedere con quali occhi la comunità che accoglie guarda coloro che arrivano; e, viceversa, con quali occhi coloro che arrivano guardano la comunità che li accoglie.
La prima cosa da fare è ragionare su questo duplice sguardo. Ogni gruppo sociale, ogni persona quando riflette sulla relazione tra se stessa e gli altri inforca un determinato paio di occhiali, specifico del proprio gruppo che varia sul piano storico, diacronico e sincronico.
In termini sincronici, è possibile che gruppi sociali, i quali vivono contemporaneamente la stessa situazione, abbiano punti di vista molto diversi, frutto di particolari fini, obiettivi, vocazioni caratteristici di una certa comunità.
Un esempio può far capire quanto sia specifico il punto di vista che si può assumere: prendiamo il profilo del Monte Cusna, la montagna più alta dell’Appennino Reggiano che svetta a Sud sull’orizzonte.
Immaginiamo che negli stessi minuti, ad esempio questa mattina, due amanti dopo una notte d’amore aprano la finestra della loro stanza e guardino il profilo del Cusna.
E immaginiamo che, proprio nello stesso momento, un carcerato nella Pulce faccia altrettanto, e che la stessa cosa faccia in stazione un vecchio emigrante reggiano che sta facendo ritorno in Svizzera dopo le vacanze pasquali.
Queste tre entità hanno visto la stessa cosa (il profilo del Cusna) ma le emozioni provate da ciascuno di essi saranno senz’altro molto diverse: l’emigrante avrà visto il profilo del Cusna con nostalgia (nostalgia = dolore per il passato); gli amanti avranno potuto fruire esteticamente del paesaggio come completamento del piacere che precedente si sono reciprocamente dati; e, probabilmente, il carcerato avrà sperimentato un sentimento più amaro dell’emigrante perché quel bel profilo che lui pur vede risulta per lunghi anni irraggiungibile.
Quest’esempio per dire che, a mio avviso, quando si parla di osservazione nell’ambito delle scienze umane, essa assume un significato molto diverso rispetto a quello che essa assume all’interno delle scienze esatte.
Esistono cioè due tipi di sapere:
– il primo, proveniente dalla sperimentazione scientifica, galileiana, è tipico delle scienze esatte. In tal caso si progetta e si realizza un esperimento. Per dimostrare l’efficacia di un nuovo farmaco, si prende un campione rappresentativo ed omogeneo della popolazione che si vuole studiare. Si suddividono i soggetti in due gruppi: su un gruppo si sperimenta un placebo (gruppo di controllo), all’altro si somministra il farmaco (gruppo sperimentale). Si confrontano i risultati dei due gruppi e si vede se lo scarto (la differenza) fra i risultati ottenuti nei due gruppi è statisticamente significativo o meno. A dire il vero i metodologi della scienza hanno ammesso che anche in questo tipo di osservazione oggettiva vi sono elementi soggettivi poiché, ad esempio, i presupposti motivazionali che spingono gli scienziati a privilegiare un ambito di ricerca invece di un altro partono da presupposti che sono al di fuori dell’ambito della sperimentazione galileiana.
– E, in ogni caso, quando si parla di droga, d’immigrazione, d’integrazione, quando si fa ricerca su questi argomenti, solitamente si usano metodologie osservative diverse da quelle tipiche della sperimentazione galileiana. In questi casi vale un altro criterio osservativo che si riferisce a un’altra scienza; e l’osservatore che non vuole ricondurre anche questi fenomeni, fortemente coinvolgenti sul piano emozionale, al tipo di osservazioni che è possibile fare all’interno delle scienze esatte solitamente si rivolge a quel sapere ermeneutico, dialogico ed interpretativo a partire dal quale, ed in base a presupposti conoscitivi del tutto diversi da quelli tipici delle scienze esatte, nasce un’altra “scienza”, un’altra forma di conoscenza: quella che proviene dall’incontro e dal dialogo con l’alterità.
Perciò in sintesi: – se ci allontaniamo dall’oggetto della nostra osservazione e tendiamo ad oggettivare, a reificare l’oggetto, assumiamo un criterio di lettura che è quello della sperimentazione scientifica; – se invece ci avviciniamo emozionalmente all’oggetto della nostra osservazione ci muoviamo nell’ambito delle scienze umane e non possiamo non rivolgerci alla seconda forma di sapere e di conoscenza, quella ermeneutica e interpretativa.
2. Come si forma lo sguardo
Una decina di anni fa il Centro Sociale Aquarius è stato ospitato nelle campagne intorno a Roncadella: là dove cioè da lunghi anni sono presenti svariati nuclei contadini che orbitano intorno alla frazione. È chiaro che l’arrivo di Aquarius non poteva non apparire agli occhi di questi contadini come qualcosa di non facilmente riconducibile alle loro abitudini, al loro stile di vita, alla loro quotidianità. Aquarius, cioè, appare ai loro occhi come un’alterità inquietante con la quale però non si può non fare i conti.
Per cui quando noi fossimo chiamati ad intervenire in questa realtà (che, come vedete, comincia a somigliare a quella che si determina in città e in provincia con l’arrivo dei migranti) per capirci qualcosa dovremmo farci due domande: con quali occhi i contadini guardano Aquarius? E con quali occhi i giovani di Aquarius guardano i contadini? Due domande, anzi tre: perché, se vogliamo fare un’indagine completa dovremmo chiederci anche con quali occhi “noi” guardiamo a questa realtà?
E immediatamente dopo, se vogliamo analizzare le ragioni di questi sguardi che s’incrociano e s’interrogano, sorgono altre domande: sulla base di quali elementi storici si è definito lo sguardo odierno con cui ognuna di queste tre entità osserva le altre due, e prende poi posizione rispetto ad esse? in che rapporto è lo sguardo odierno di tutti questi protagonisti con quello dei loro genitori, dei loro avi?
Scopriamo così che uno sguardo, un giudizio, un’opinione si formano e si trasformano in relazione sia ad elementi diacronici, lungo asse storico del passaggio da una generazione all’altra, sia ad elementi sincronici, come può essere arrivo oggi di una nuova entità che sconvolge più o meno grandemente il tran tran quotidiano.
Veniamo ora agli immigrati: c’è un “prima” in cui gli immigrati non c’erano: a dire il vero c’erano, ma essendo sotto la quota considerata critica del 5% era come se non ci fossero. I sociologi infatti dicono che solo al di sopra del 5% l’accoglienza dei migranti diviene problematica[2]. Fatto sta che ora hanno di molto superato il 5% per cui non possiamo fare a meno di vederli poiché la loro presenza pesa. E, come per l’Aquarius, dall’incrocio di sguardi nostro e loro, dal tipo di scambio che si determina fra noi e loro nasce il nuovo, che può essere più o meno problematico.
Inoltre Reggio Emilia oggi è una realtà post-moderna e complessa in cui difficilmente si ha in generale una omogeneità di punti di vista: tutto ciò nel caso dei migranti (che come ognun sa è un caso ad alto impatto emotivo) si riverbera sul territorio dando origine ad una pluralità di sguardi non sempre fra loro sovrapponibili.
Nelle società pre-industriali l’identità gruppale era nettamente prevalente rispetto all’identità individuale, che veniva compressa dal gruppo di appartenenza, per cui, di fronte a questa incombente identità gruppale, l’individuo o si conformava il più possibile agli orientamenti della comunità o veniva stigmatizzato come “altro” da marginalizzare o, al limite, da sopprimere. L’individualismo è frutto della modernità, così come frutto della modernità è la libertà di pensiero: per cui oggi non solo è possibile avere ed esprimere un proprio pensiero individuale, ma anche coniugare il nostro sguardo e il nostro pensiero individuale con quelli di quella parte della comunità che sentiamo più vicina a noi.
I punti di vista esistenti possono essere convergenti o divergenti. E i cambiamenti strutturali e culturali avvenuti a Reggio Emilia negli ultimi decenni determinano lo sguardo odierno o meglio, gli sguardi odierni, nonché le differenze tra questa pluralità di sguardi e quelli che furono gli atteggiamenti e gli stili di vita delle generazioni passate.
3. Gli sguardi della cultura egemone e quello delle culture vinte nel momento in cui più culture s’incontrano
Gli antropologi dicono che quando due popoli o più s’incontrano e si pongono in una situazione di coniugazione e di scambio c’è sempre una cultura “egemone” ed una o più culture “vinte”. Il processo in base al quale nasce nel tempo la nuova cultura che nasce da questo scambio viene chiamato, sempre dagli antropologi, “acculturazione”.
Poiché la coniugazione fra due o più entità dipende da come le varie comunità coinvolte sono fatte, e – più precisamente – dal loro sguardo sull’altro, ne discende[3] che le forme dell’acculturazione possono essere molto diverse e si dispongono lungo un continuum che va dall’accoglienza più calda e dallo scambio più paritario fra cultura egemone e culture vinte, fino al rifiuto del rapporto di scambio e alla distruzione delle culture vinte, e a volte anche degl’individui che le rappresentano.
Da una parte l’accoglienza si nutre di una reciprocità piena e arricchente: Graecia capta ferum victorem cepit – la Grecia vinta conquistò il buzzurro vincitore – dissero gli stessi romani dopo la conquista della Grecia).
Dall’altra non c’è scambio, non c’è nemmeno pietà per il vinto, che viene annientato: è nota l’esclamazione con la quale Catone terminava ogni discorso “Ceterum censeo Carthaginem esse delendam” – Inoltre ritengo che Cartagine debba essere distrutta – con la quale l’oratore romano voleva indicare la necessità di evitare qualsiasi scambio con la città che dopo la seconda guerra punica era ormai diventata una mortale nemica di Roma. E Cartagine effettivamente fu distrutta e, come testimonianza di questo odio mortale, sulle sue rovine fu sparso del sale onde lì non potesse crescere neanche un filo d’erba.
In mezzo mille e mille stili di coniugazione più o meno oscillanti sul piano dell’accoglienza e della reciprocità.
Certo è che l’altro da me è come un pugno nello stomaco che costringe al confronto, ad uscire dalla propria realtà quotidiana, sia il membro delle cultura egemone, e questo (lo abbiamo appena visto) è importante nel momento dell’impatto; sia anche però i membri delle culture “vinte” perché anche loro devono fare i conti con il nuovo che emerge da questo scambio, che ad esempio sul piano linguistico è sempre l’acquisizione di una lingua nuova, che – certo – sarà influenzata, come tutto il resto, da quelle delle culture vinte, ma a costo di una rinuncia che però, per il migrante, è molto più dolorosa e, direi, pericolosa sul piano dell’integrità delle propria identità personale.
Un altro elemento importantissimo, che spesso viene utilizzato nella metropoli in chiave razzista, è costituito dalla presenza dell’altro da me in termini fantasmatici prima ancora che esso materialmente arrivi presso di me. Ciò vale sia per l’autoctono, sia per il migrante, sia addirittura per chi rimane “laggiù” e decide di non migrare.
L’autoctono “vede” il migrante – glielo fanno vedere i media metropolitani (!) – già nel momento in cui si comincia a parlare di migranti. La forza di questo sguardo, che spesso è uno sguardo stereotipizzante, è grandissima, ed anche se si erige una frontiera impenetrabile per impedire lo sbarco dell’immigrato in Europa, egli è pur sempre presente fra di noi come fantasma, come stereotipo.
Il migrante, come ci dice Sayad[4], vede la metropoli prima di partire fin dal momento in cui abbozza il proprio progetto migratorio, che parte inevitabilmente da una illusione che sarà tanto più esposta alla delusione quanto più alta era stata la forza illudente del suo sguardo iniziale sulla metropoli.
Ma anche chi non parte deve fare i conti con queste presenze fantasmatiche: lo fa come il suo simile o il suo familiare che decide di partire, lo fa attraverso i media che gli propongono una versione edulcorata dell’emigrazione, lo fa infine attraverso il racconto di coloro che sono già partiti e di tanto in tanto ritornano e che spesso hanno interesse a fare riferimenti distorti su ciò che hanno visto e patito “qui”.
In conclusione, oggi ho cercato di dire: 1. che il processo migratorio non può essere visto con lo sguardo freddo degli scienziati delle scienze esatte, e che anzi richiede un approccio interpretativo; 2. che tale approccio comprende anche l’analisi di ciò che avviene in noi stessi, come social worker, quando ci avviciniamo al problema; 3. che a partire dall’incrocio fra lo sguardo nostro e quello “loro”, cioè dei migranti, s’innesca un processo di scambio e di coniugazione a partire dal quale nasce il nuovo; tale processo, che gli antropologi chiamano acculturazione, può essere più o meno ricco e non è detto che finisca sempre a ‘tarallucci e vino’.
(1998)
Il processo migratorio implica l’arrivo in un determinato posto, già occupato da una comunità autoctona[1], di una nuova entità.
Per capire cosa avviene in questo incontro è necessario vedere con quali occhi la comunità che accoglie guarda coloro che arrivano; e, viceversa, con quali occhi coloro che arrivano guardano la comunità che li accoglie.
La prima cosa da fare è ragionare su questo duplice sguardo. Ogni gruppo sociale, ogni persona quando riflette sulla relazione tra se stessa e gli altri inforca un determinato paio di occhiali, specifico del proprio gruppo che varia sul piano storico, diacronico e sincronico.
In termini sincronici, è possibile che gruppi sociali, i quali vivono contemporaneamente la stessa situazione, abbiano punti di vista molto diversi, frutto di particolari fini, obiettivi, vocazioni caratteristici di una certa comunità.
Un esempio può far capire quanto sia specifico il punto di vista che si può assumere: prendiamo il profilo del Monte Cusna, la montagna più alta dell’Appennino Reggiano che svetta a Sud sull’orizzonte.
Immaginiamo che negli stessi minuti, ad esempio questa mattina, due amanti dopo una notte d’amore aprano la finestra della loro stanza e guardino il profilo del Cusna.
E immaginiamo che, proprio nello stesso momento, un carcerato nella Pulce faccia altrettanto, e che la stessa cosa faccia in stazione un vecchio emigrante reggiano che sta facendo ritorno in Svizzera dopo le vacanze pasquali.
Queste tre entità hanno visto la stessa cosa (il profilo del Cusna) ma le emozioni provate da ciascuno di essi saranno senz’altro molto diverse: l’emigrante avrà visto il profilo del Cusna con nostalgia (nostalgia = dolore per il passato); gli amanti avranno potuto fruire esteticamente del paesaggio come completamento del piacere che precedente si sono reciprocamente dati; e, probabilmente, il carcerato avrà sperimentato un sentimento più amaro dell’emigrante perché quel bel profilo che lui pur vede risulta per lunghi anni irraggiungibile.
Quest’esempio per dire che, a mio avviso, quando si parla di osservazione nell’ambito delle scienze umane, essa assume un significato molto diverso rispetto a quello che essa assume all’interno delle scienze esatte.
Esistono cioè due tipi di sapere:
– il primo, proveniente dalla sperimentazione scientifica, galileiana, è tipico delle scienze esatte. In tal caso si progetta e si realizza un esperimento. Per dimostrare l’efficacia di un nuovo farmaco, si prende un campione rappresentativo ed omogeneo della popolazione che si vuole studiare. Si suddividono i soggetti in due gruppi: su un gruppo si sperimenta un placebo (gruppo di controllo), all’altro si somministra il farmaco (gruppo sperimentale). Si confrontano i risultati dei due gruppi e si vede se lo scarto (la differenza) fra i risultati ottenuti nei due gruppi è statisticamente significativo o meno. A dire il vero i metodologi della scienza hanno ammesso che anche in questo tipo di osservazione oggettiva vi sono elementi soggettivi poiché, ad esempio, i presupposti motivazionali che spingono gli scienziati a privilegiare un ambito di ricerca invece di un altro partono da presupposti che sono al di fuori dell’ambito della sperimentazione galileiana.
– E, in ogni caso, quando si parla di droga, d’immigrazione, d’integrazione, quando si fa ricerca su questi argomenti, solitamente si usano metodologie osservative diverse da quelle tipiche della sperimentazione galileiana. In questi casi vale un altro criterio osservativo che si riferisce a un’altra scienza; e l’osservatore che non vuole ricondurre anche questi fenomeni, fortemente coinvolgenti sul piano emozionale, al tipo di osservazioni che è possibile fare all’interno delle scienze esatte solitamente si rivolge a quel sapere ermeneutico, dialogico ed interpretativo a partire dal quale, ed in base a presupposti conoscitivi del tutto diversi da quelli tipici delle scienze esatte, nasce un’altra “scienza”, un’altra forma di conoscenza: quella che proviene dall’incontro e dal dialogo con l’alterità.
Perciò in sintesi: – se ci allontaniamo dall’oggetto della nostra osservazione e tendiamo ad oggettivare, a reificare l’oggetto, assumiamo un criterio di lettura che è quello della sperimentazione scientifica; – se invece ci avviciniamo emozionalmente all’oggetto della nostra osservazione ci muoviamo nell’ambito delle scienze umane e non possiamo non rivolgerci alla seconda forma di sapere e di conoscenza, quella ermeneutica e interpretativa.
2. Come si forma lo sguardo
Una decina di anni fa il Centro Sociale Aquarius è stato ospitato nelle campagne intorno a Roncadella: là dove cioè da lunghi anni sono presenti svariati nuclei contadini che orbitano intorno alla frazione. È chiaro che l’arrivo di Aquarius non poteva non apparire agli occhi di questi contadini come qualcosa di non facilmente riconducibile alle loro abitudini, al loro stile di vita, alla loro quotidianità. Aquarius, cioè, appare ai loro occhi come un’alterità inquietante con la quale però non si può non fare i conti.
Per cui quando noi fossimo chiamati ad intervenire in questa realtà (che, come vedete, comincia a somigliare a quella che si determina in città e in provincia con l’arrivo dei migranti) per capirci qualcosa dovremmo farci due domande: con quali occhi i contadini guardano Aquarius? E con quali occhi i giovani di Aquarius guardano i contadini? Due domande, anzi tre: perché, se vogliamo fare un’indagine completa dovremmo chiederci anche con quali occhi “noi” guardiamo a questa realtà?
E immediatamente dopo, se vogliamo analizzare le ragioni di questi sguardi che s’incrociano e s’interrogano, sorgono altre domande: sulla base di quali elementi storici si è definito lo sguardo odierno con cui ognuna di queste tre entità osserva le altre due, e prende poi posizione rispetto ad esse? in che rapporto è lo sguardo odierno di tutti questi protagonisti con quello dei loro genitori, dei loro avi?
Scopriamo così che uno sguardo, un giudizio, un’opinione si formano e si trasformano in relazione sia ad elementi diacronici, lungo asse storico del passaggio da una generazione all’altra, sia ad elementi sincronici, come può essere arrivo oggi di una nuova entità che sconvolge più o meno grandemente il tran tran quotidiano.
Veniamo ora agli immigrati: c’è un “prima” in cui gli immigrati non c’erano: a dire il vero c’erano, ma essendo sotto la quota considerata critica del 5% era come se non ci fossero. I sociologi infatti dicono che solo al di sopra del 5% l’accoglienza dei migranti diviene problematica[2]. Fatto sta che ora hanno di molto superato il 5% per cui non possiamo fare a meno di vederli poiché la loro presenza pesa. E, come per l’Aquarius, dall’incrocio di sguardi nostro e loro, dal tipo di scambio che si determina fra noi e loro nasce il nuovo, che può essere più o meno problematico.
Inoltre Reggio Emilia oggi è una realtà post-moderna e complessa in cui difficilmente si ha in generale una omogeneità di punti di vista: tutto ciò nel caso dei migranti (che come ognun sa è un caso ad alto impatto emotivo) si riverbera sul territorio dando origine ad una pluralità di sguardi non sempre fra loro sovrapponibili.
Nelle società pre-industriali l’identità gruppale era nettamente prevalente rispetto all’identità individuale, che veniva compressa dal gruppo di appartenenza, per cui, di fronte a questa incombente identità gruppale, l’individuo o si conformava il più possibile agli orientamenti della comunità o veniva stigmatizzato come “altro” da marginalizzare o, al limite, da sopprimere. L’individualismo è frutto della modernità, così come frutto della modernità è la libertà di pensiero: per cui oggi non solo è possibile avere ed esprimere un proprio pensiero individuale, ma anche coniugare il nostro sguardo e il nostro pensiero individuale con quelli di quella parte della comunità che sentiamo più vicina a noi.
I punti di vista esistenti possono essere convergenti o divergenti. E i cambiamenti strutturali e culturali avvenuti a Reggio Emilia negli ultimi decenni determinano lo sguardo odierno o meglio, gli sguardi odierni, nonché le differenze tra questa pluralità di sguardi e quelli che furono gli atteggiamenti e gli stili di vita delle generazioni passate.
3. Gli sguardi della cultura egemone e quello delle culture vinte nel momento in cui più culture s’incontrano
Gli antropologi dicono che quando due popoli o più s’incontrano e si pongono in una situazione di coniugazione e di scambio c’è sempre una cultura “egemone” ed una o più culture “vinte”. Il processo in base al quale nasce nel tempo la nuova cultura che nasce da questo scambio viene chiamato, sempre dagli antropologi, “acculturazione”.
Poiché la coniugazione fra due o più entità dipende da come le varie comunità coinvolte sono fatte, e – più precisamente – dal loro sguardo sull’altro, ne discende[3] che le forme dell’acculturazione possono essere molto diverse e si dispongono lungo un continuum che va dall’accoglienza più calda e dallo scambio più paritario fra cultura egemone e culture vinte, fino al rifiuto del rapporto di scambio e alla distruzione delle culture vinte, e a volte anche degl’individui che le rappresentano.
Da una parte l’accoglienza si nutre di una reciprocità piena e arricchente: Graecia capta ferum victorem cepit – la Grecia vinta conquistò il buzzurro vincitore – dissero gli stessi romani dopo la conquista della Grecia).
Dall’altra non c’è scambio, non c’è nemmeno pietà per il vinto, che viene annientato: è nota l’esclamazione con la quale Catone terminava ogni discorso “Ceterum censeo Carthaginem esse delendam” – Inoltre ritengo che Cartagine debba essere distrutta – con la quale l’oratore romano voleva indicare la necessità di evitare qualsiasi scambio con la città che dopo la seconda guerra punica era ormai diventata una mortale nemica di Roma. E Cartagine effettivamente fu distrutta e, come testimonianza di questo odio mortale, sulle sue rovine fu sparso del sale onde lì non potesse crescere neanche un filo d’erba.
In mezzo mille e mille stili di coniugazione più o meno oscillanti sul piano dell’accoglienza e della reciprocità.
Certo è che l’altro da me è come un pugno nello stomaco che costringe al confronto, ad uscire dalla propria realtà quotidiana, sia il membro delle cultura egemone, e questo (lo abbiamo appena visto) è importante nel momento dell’impatto; sia anche però i membri delle culture “vinte” perché anche loro devono fare i conti con il nuovo che emerge da questo scambio, che ad esempio sul piano linguistico è sempre l’acquisizione di una lingua nuova, che – certo – sarà influenzata, come tutto il resto, da quelle delle culture vinte, ma a costo di una rinuncia che però, per il migrante, è molto più dolorosa e, direi, pericolosa sul piano dell’integrità delle propria identità personale.
Un altro elemento importantissimo, che spesso viene utilizzato nella metropoli in chiave razzista, è costituito dalla presenza dell’altro da me in termini fantasmatici prima ancora che esso materialmente arrivi presso di me. Ciò vale sia per l’autoctono, sia per il migrante, sia addirittura per chi rimane “laggiù” e decide di non migrare.
L’autoctono “vede” il migrante – glielo fanno vedere i media metropolitani (!) – già nel momento in cui si comincia a parlare di migranti. La forza di questo sguardo, che spesso è uno sguardo stereotipizzante, è grandissima, ed anche se si erige una frontiera impenetrabile per impedire lo sbarco dell’immigrato in Europa, egli è pur sempre presente fra di noi come fantasma, come stereotipo.
Il migrante, come ci dice Sayad[4], vede la metropoli prima di partire fin dal momento in cui abbozza il proprio progetto migratorio, che parte inevitabilmente da una illusione che sarà tanto più esposta alla delusione quanto più alta era stata la forza illudente del suo sguardo iniziale sulla metropoli.
Ma anche chi non parte deve fare i conti con queste presenze fantasmatiche: lo fa come il suo simile o il suo familiare che decide di partire, lo fa attraverso i media che gli propongono una versione edulcorata dell’emigrazione, lo fa infine attraverso il racconto di coloro che sono già partiti e di tanto in tanto ritornano e che spesso hanno interesse a fare riferimenti distorti su ciò che hanno visto e patito “qui”.
In conclusione, oggi ho cercato di dire: 1. che il processo migratorio non può essere visto con lo sguardo freddo degli scienziati delle scienze esatte, e che anzi richiede un approccio interpretativo; 2. che tale approccio comprende anche l’analisi di ciò che avviene in noi stessi, come social worker, quando ci avviciniamo al problema; 3. che a partire dall’incrocio fra lo sguardo nostro e quello “loro”, cioè dei migranti, s’innesca un processo di scambio e di coniugazione a partire dal quale nasce il nuovo; tale processo, che gli antropologi chiamano acculturazione, può essere più o meno ricco e non è detto che finisca sempre a ‘tarallucci e vino’.
(1998)
* Relazione tenuta all’interno del “Progetto Ligabue – Corso di formazione per youth workers” – otto lezioni su “Società dei consumi e disagio giovanile”, a cura di Reggio Children
[1] Si definisce autoctona la comunità nata e stanziata in un determinato luogo
[2] Come vedete anche nell’ambito delle scienze dell’uomo a volte si danno i numeri!
[3] Cfr: "Insegnamento e apprendimento: l'integrazione a scuola dei bambini e dei ragazzi immigrati", In: Angelini, Bertani-Cagossi, Cantini, "I giovani come risosrsa", Psiconline 2011
[4] A. Sayad, La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, R. Cortina, Ed., Milano, 2002
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