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Cinema e DSM-5 a confronto. Il Disturbo da stress post-traumatico classico (parte I)

30 Mag 16

A cura di Matteo Balestrieri

  Recentemente mi è stato chiesto di rivisitare la psicopatologia del trauma attraverso i rimandi che ci ha dato il cinema. Il compito era tutto sommato semplice, per via della sterminata filmografia che ha trattato di eventi traumatici generatori di storie personali sofferte. L’occhio del cinema è in effetti decisamente portato a ricercare chiari eventi stressanti che giustificano la psicopatologia successiva, ed in ogni caso la trama, cioè le storie personali dei protagonisti, devono inserirsi con coerenza a partire dagli avvenimenti precedenti e come precursori di avvenimenti futuri. Individuare la fonte della psicopatologia significa quindi dare un senso alla diegesi del film.
 
  Al contrario il DSM-5, massimo strumento della psichiatria clinica (si può però usare anche un tono ironico nell’affermarlo), affronta la questione dei sintomi prevalentemente su un piano descrittivo, definendo sintomi e comportamenti in modo esatto e specifico, senza curarsi dell’origine della loro genesi. Con un’eccezione: i Disturbi correlati a eventi traumatici e stressanti. In questo unico caso infatti, i disturbi sono caratterizzati dall’esistenza di un fatto certo scatenante in grado di spiegare interamente la psicopatologia. Il DSM-5 elenca in questo capitolo una serie di disturbi ad insorgenza nell’infanzia o nell’adulto che sono definiti da cluster di sintomi. Essi sono il Disturbo reattivo dell’attaccamento, il Disturbo da impegno sociale disinibito, il Disturbo da stress post-traumatico (PTSD), il Disturbo da stress acuto, i Disturbi dell’adattamento e altri due disturbi con altra o senza specificazione.
  Tra questi disturbi, il PTSD è certamente quello più noto. Coniato per i veterani reduci dalla guerra del Vietnam e sempre più raffinato nelle successive edizioni del DSM, riprende l’eredità di migliaia di anni di descrizione delle conseguenze delle guerre nei combattenti (ad esempio nell’Iliade e nell’Epopea di Gilgamesh di 4500 anni fa). Le definizioni sono state quelle di “cuore del soldato”, “nevrosi da guerra” e altre ancora.
  Attualmente il DSM-5 descrive per il PTSD quattro cluster di sintomi: a) sintomi intrusivi (ricordi ricorrenti, sogni ricorrenti, flashback, sofferenza psichica o reazioni fisiologiche collegate a fattori che simboleggiano o assomigliano all’evento), b) sintomi di evitamento di situazioni che evocano il trauma, c) alterazioni negative di pensieri ed emozioni (amnesie, negatività, persecutorietà, colpevolizzazione, rabbia, vergogna, colpa, distacco, anedonia) anche descritti come sintomi di numbness cognitivo, e d) alterazioni dell’arousal (irritabilità, scatti di rabbia, ipervigilanza, risposte di allarme).
 
  Ma il PTSD è davvero plasmato dagli eventi tragici di contesto, come guerre o calamità pubbliche di vasta portata?
 
  Se si guarda al DSM-5 non si trova in effetti una definizione di questo tipo: il PTSD può essere causato da singoli eventi non necessariamente inseriti in un ampio contesto tragico e non necessariamente vissuti in prima persona. Se il primo criterio diagnostico è infatti quello di aver fatto esperienza diretta dell’evento traumatico (vissuto in prima persona o accaduto ad altri), è anche ammesso anche il solo di venire a conoscenza di un evento traumatico violento o accidentale accaduto a un familiare o a un amico. Non viene invece fatta menzione a guerre o calamità generali. Come si vede, il DSM-5 offre quindi un’ampia discrezionalità nell’attribuire questa diagnosi.
  Esiste poi il problema della diagnosi differenziale rispetto al Disturbo da stress acuto, che presenta criteri piuttosto sovrapponibili a quelli del PTSD. Le differenze risiedono infatti solo nella minore importanza alle alterazioni negative di pensieri ed emozioni (dei sette criteri previsti per il PTSD viene conservato solo il criterio della persistente incapacità di provare emozioni positive), nella maggiore enfasi su una componente dissociativa (amnesia, depersonalizzazione, derealizzazione) e sul fatto che non deve durare più di un mese dopo l’evento. Successivamente diventa un PTSD. Insomma dobbiamo proprio scordarci l’associazione tra guerre e PTSD che avevamo imparato a suo tempo.
 
  In definitiva quindi le definizioni del DSM-5 ci lasciano un po’ spiazzati, tanto che dovremmo guardare al PTSD in una luce diversa da quella che molti si sono fatti. Nella cultura psichiatrica di chi ha una certa età, in effetti, il PTSD è ancora collegato alla sua dimensione originaria, cioè agli eventi bellici in grado di produrre una radicale destrutturazione della persona, fino alla manifestazione di una psicosi.

  La filmografia sul PTSD classico (cioè quello post-bellico) è a questo proposito piuttosto ricca, direi esclusivamente americana, e mai esausta. Personalmente ricordo l’effetto shoccante che mi fece all’epoca il film Il cacciatore, diretto nel 1978 da Michael Cimino, dove i protagonisti (interpretati da Robert De Niro, Christopher Walken e John Savage) presentano reazioni post-traumatiche importanti e violente. Tre amici reduci da tragiche esperienze nel corso della guerra in Vietnam, affrontano il ritorno a casa in modo diverso. Dei tre il più sconvolto è Nick, che si stordisce in una dimensione aliena dal mondo circostante attraverso il gioco della roulette russa, fino a soccombere con un ultimo colpo alla testa di fronte all’amico Michael che non è neanche in grado di riconoscere. I sintomi di Nick corrispondono a quelli elencati tra le alterazioni negative di pensieri ed emozioni, in particolare per gli aspetti dell’amnesia dissociativa e per il distacco ed estraneità dagli altri.
  Recente è invece American Sniper, film del 2014 diretto da Clint Eastwood che racconta la storia di un provetto cecchino arruolato in Iraq. Il film è basato sulla biografia del famoso cecchino Chris Kyle. Quando torna a casa, gli aspetti psicopatologici di Kyle sono quelli del disturbo del sonno, dell’isolamento e dei flashback. Talvolta effettua inoltre azioni di difesa inadeguate, per un’interpretazione della realtà condizionata dall’esperienza in Iraq. Qui troviamo diversi dei sintomi del PTSD.
  In mezzo a questi due film, ve ne sono diversi altri, tra cui: Tornando a casa diretto da Hal Ashby (1978), Nato il quattro luglio diretto da Oliver Stone (1989), Allucinazione perversa diretto da Adrian Lyne (1990), Forrest Gump diretto da Robert Zemeckis (1994), Salvate il soldato Ryan diretto da Steven Spielberg (1998), The Manchurian candidate diretto da Jonathan Demme (2004).
  Se in tutti questi film ritroviamo la sintomatologia descritta nei quattro cluster del DSM-5, a volte le conseguenze del trauma possono essere così destruenti da causare non solo una profonda alterazione del comportamento pur anche con innesti allucinatori, ma anche una vera e propria lacerazione psicotica duratura dell’identità. Si pensi ad esempio a Birdy – Le ali della libertà, film del 1984 diretto da Alan Parker, dove il protagonista reduce dal Vietnam assume l’identità di un uccello (rimandando alla sua passione giovanile di ornitologo), del quale assume i movimenti caratteristici, con atteggiamento catatonico e stereotipato.
  In sintesi, quindi il PTSD classico è ben rappresentato nella filmografia, in particolare quella statunitense. Più complesso è invece il capitolo del trauma non legato ad un ampio contesto tragico, ma derivante da storie personali. Di esso scrivo nel prossimo post (http://www.psychiatryonline.it/node/6285).

 

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2 Commenti

  1. info_1

    Due cose colpiscono
    Due cose colpiscono nell’ascolto di alcune persone sottoposte a trauma violento e ripetuto: la sospensione del tempo soggettivo e la refrattarietà alla scansione della seduta.
    Il militare congedato dopo un’operazione bellica interazionale nel corso della quale è stato sottoposto a torture, rivive da anni le scene delle sevizie patite, sia nell’attività onirica, sia sotto forma di immagini cruente che ossessivamente invadono la sua quotidianità.
    La ragazza abusata da uno psicoterapeuta è perseguitata da incubi nei quali lo sfioramento delle parti intime irrompe nella notte destandola, tracimando poi in un pensiero persecutorio diurno. La scansione delle sedute non lascia che deboli tracce in un infinito presente che si ripete e si estende ai successivi incontri.
    Sono individui dostoevskiani prigionieri di un tempo rappreso e congelato all’interno di un evento traumatico, ingabbiati in quel fenomeno che la psichiatria chiama riespereinza che li condanna a rivivere sine die la scena dell’offesa.
    Il militare era solo uno dei tanti che patì quelle pene, la donna non la sola ad avere incontrato quel terapeuta abusante. Perché solo alcuni cadono in questo cortocircuito del tempo, e non altri, vittime in alcuni casi di violenze ancora piu’ profonde? Lacan suggerisce una via di lettura :

    ‘ Non è trauma semplicemente ciò che ha fatto irruzione a un certo momento e ha incrinato da qualche parte una struttura immaginata totale. Il trauma è dato dal fatto che certi avvenimenti vengono a situarsi in un certo posto di quella struttura. E, occupandolo, vi assumono il valore significante che vi è connesso in un determinato soggetto. Ecco in che cosa consiste il valore traumatico di un avvenimento[1]’.

    L’evento traumatico sembra divenire il significante primario che azzera il passato, l’alba fredda di una nuova vita psichica immobile, quando questo si iscrive sopra il punto più vulnerabile del soggetto sino a quel momento velato. L’ufficiale in questione intraprese la carriera militare alla ricerca di ordine e disciplina per rimediare ad un ambiente familiare perverso e sregolato, ritrovato durante la prigionia. La giovane donna scelse un percorso psicoterapeutico dopo aver perso dimestichezza con la vita a causa di un passato di abuso sessuale da parte del padre. La scena traumatica attuale ha spalancato per entrambi la porta dell’orwelliana stanza 101, dove il re incontro con l’indicibile dal quale cercavano di prendere le distanze ha tramutato la loro vita in un infinito giorno della marmotta.
    Nel caso della ragazza la condanna penale del carnefice ha interrotto il protrarsi dello stato di paralisi della parola. Il riconoscimento formale dello stato di abusatore, l’ha tolta parzialmente da quella condizione di sospensione del tempo, permettendole di riprendere dimestichezza con lo scorrere dei giorni e delle sedute

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