“In questo paese chi ha più soldi ha più ragione ”
Giuseppe Berto, Anonimo veneziano
Di Giuseppe Berto vi consiglio, se non siete appassionati di salute mentale, Tutti i racconti[1]. Ci sono dei capolavori, lì in mezzo, e comunque la sua scrittura, dai contenuti spesso realistici e amari, è perennemente ironica e piacevole.
Una cara amica, non a caso, Augusta, mi ha regalato questo libro di racconti così ho conosciuto questo scrittore e mi sembra assurdo che sia così dimenticato. Prendo coraggio e affronto Il male oscuro, il libro più famoso di Berto. Ricordo che mi faceva un po’ paura, lì, sullo scaffale in salotto, quando ero bambina; fino ad allora, non avevo mai desiderato leggerlo.
Ti avverto, caro lettore, che il testo che seguirà è pieno di spoiler, quindi, decidi tu, perché ti racconterò un po’ la trama. Lacan non analizza mai o quasi gli autori ma le loro opere. Questo caso, però, oltrepassa la regola, perché qui Berto è dichiaratamente della sua vita che racconta, soprattutto della vita del male oscuro che lo abita.
“Uno scrittore è, sempre, autobiografico. Tuttavia si può dire che lo è un po’ meno quando scrive di sé (…) perché allora il narcisismo da una parte e il gusto del narrare dall’altra possono portarlo ad una maliziosa deformazione…”[2]
Il male oscuro comincia così:
“Penso che questa storia della mia lunga lotta col padre, che un tempo ritenevo insolita per non dire unica, non sia in fondo tanto straordinaria se come sembra può venire comodamente sistemata dentro schemi e teorie psicologiche già esistenti” Poi poche righe sotto: “…potrei benissimo sostenere che il mio scopo nello scriverla è appunto quello di fornire qualche altra pezza d’appoggio alle dottrine psicoanalitiche che ne hanno tutt’ora più bisogno di quanto non si creda.”[3]
Nato a Mogliano Veneto nel 1914, da padre ex maresciallo dei carabinieri che aveva messo su con la moglie un negozio di cappelli poco fruttuoso. E’ il primogenito, con cinque sorelle femmine, più alcuni aborti involontari.
“…non è da dire che mio padre abbia lottato col suo quanto io ho lottato col mio fin dalla nascita probabilmente, in verità io non so molto di questi fatti e suo padre ossia mio nonno paterno non l’ho nemmeno conosciuto né di lui ho saputo mai niente all’infuori della circostanza che era contadino, però tutto sommato doveva essere un uomo di buon senso senza spropositate ambizioni di mandare i figli a scuola, mentre il padre mio era proprio malato di queste ambizioni almeno nei riguardi del primogenito.”[4]
A nove anni Giuseppe viene mandato in collegio, con sentiti sacrifici economici da parte della sua famiglia. Lui dice che da quel momento, da quando viene lasciato solo in collegio, anzi da subito dopo, quando gli fregano la palla nuova, si sente solo, con una sofferenza tale che un bambino può reggere solo non essendo più bambino.
Scoperto il sesso tramite le puttane, la sua smania di essere primo della classe scema fino alla decisione del padre di non pagargli le spese dell’Università.
La gloria letteraria diventerà poi il suo tarlo.
Giuseppe Berto dice che la sua lotta col padre è durata sessant’anni e quattro mesi e la divide in tre fasi.
La prima fino ai diciotto anni: questo è il periodo in cui c’è una supremazia paterna, la figura del padre gli fa ombra, con l’unico peccato di accanirsi nel combattere inutilmente la sua calvizie.
A diciotto anni Giuseppe ebbe l’idea di diventare soldato, anche perché, visti gli scarsi risultati della dispendiosa avventura liceale, il padre decide di non pagargli oltre gli studi. La seconda fase, che va dai diciotto ai trentotto anni, è l’era della caduta della supremazia del padre.
C’è che oltre ad arruolarsi volontariamente soldato, Berto, nel 1935, partì anche per la guerra d’Abissinia, ritornandone ferito ma con due medaglie, una d’argento e una di bronzo. Insomma, oltre a riscuotere gli assegni delle due medaglie, Berto aveva fatto parte dal 1929 degli Avanguardisti e poi dei Giovani fascisti, dei Gruppi Universitari fascisti e della Gioventù Italiana del Littorio. E non finisce qui.
Questo non facilitò la sua posizione tra gli intellettuali italiani del dopoguerra. E probabilmente continua, ancora oggi, a produrre i suoi effetti negativi nella valorizzazione della scrittura di Berto.
Si capisce che una certa totalizzante antipatia non può essere non condivisa da me. Nondimeno è piuttosto istruttivo quello che dice della guerra. “La vita è proprio interessante spesso qualcuno di noi muore ma chi non muore fa quantità enormi di esperienza sessuale con le ragazze abissine dato che quando se ne vede una che piace basta dire all’attendente di portarla e quello la porta poiché lì grazie a Dio sono gente civile e non badano a queste cose basta pagare pochi talleri…”[5]
La guerra gli scorre addosso senza apparenti traumi. Tranne qualche ulcera intermittente. Il suo focus resta, a posteriori, quello del sesso e il suo modo di considerare le donne è il secondo valido motivo per averlo in antipatia.
L’identificazione patriottica di matrice paterna era già caduta da sola, quando aveva visto con i suoi occhi i suoi vecchi capi accordarsi con i nuovi. Dirà di avere sprecato quegli anni rivestendo il patriottismo e la sua attiva belligeranza delle stanche scuse dell’equivoco.
Eppure preferiva andare volontario che insegnare, lavoro che non gli è mai stato congeniale.
La terza fase va dalla morte del padre al momento in cui scrive Il male oscuro. Dal momento del trapasso del padre ritorna anche la sua strapotenza. In quel momento Giuseppe Berto abitava a Roma, guadagnava abbastanza scrivendo per il cinema e aveva donne in abbondanza, sebbene tendenzialmente, una alla volta. Non andava mai a trovare la famiglia, ma spediva dei soldi, anche se pochi.
Il padre si ammala, Giuseppe va a trovarlo con una vedova francese che, dice lui, gli si era incollata all’ultimo momento. Dopo qualche giorno, appena operato il padre, per un tumore all’intestino, riparte con urgenza interiore per Roma. Appena tornato nella capitale, deve tornare indietro: suo padre è morto.
Di lì a poco la vedova viene surclassata da una diciottenne scaltra che con l’inganno lo sposa. Lui la mette incinta per dispetto dopo avere saputo che lo vuole lasciare per un altro che intende sposarla. Era una manovra architettata dalla ragazza con la complicità di un’amica.
Nasce Augusta, nemmeno sul nome i coniugi trovano un accordo. Augusta è il nome di sua madre. La vecchia signora Augusta, così la chiama nella maturità, oggetto di appassionato cieco e geloso amore infantile.
Nel frattempo s’ammala, ha dolori e mali, arrivano perfino ad aprirgli la pancia. Dopo varie sofferenze approda alla psicoanalisi, con Nicola Perrotti, tra i pionieri della psicoanalisi in Italia.
Dall'esperienza terapeutica, Berto trarrà la forza per guarire, almeno parzialmente, pubblicando infine, nel 1964, Il male oscuro, romanzo con il quale si aggiudica il Premio Campiello e il Premio Viareggio.
Ampi riferimenti a Perrotti sono rintracciabili lungo tutta l'opera giornalistica e autocritica dell'autore veneto, e in particolare nel libro L'Io legato e la libertà.
Il male oscuro è considerato il racconto di una nevrosi d’angoscia. E’ effettivamente la lunga storia della lotta col padre e della lotta con la donna.
“Il campo della dialettica anale è il campo vero e proprio dell’oblatività (…) il termine stesso di oblatività è un fantasma dell’ossessivo. Tutto per l’altro dice l’ossessivo, ed è proprio quello che fa, perché trovandosi nella perpetua vertigine della distruzione dell’altro, non fa mai abbastanza perché l’altro si mantenga in esistenza.”[6]
“Il sessuale può rientrare qui soltanto in modo violento. (…) E’ nella relazione anale che l’altro, in quanto tale, assume pienamente la dominanza”[7]
Ma è veramente così?
La lotta tra Giuseppe e suo padre, come quella tra lui e la sua donna, è un’autentica lotta a morte, da cui nemmeno la morte libera.
Berto si sente finalmente libero solo quando lei lo lascia per un altro. Libero dalla guerra, libero di scriverne. Non c’è intermediazione alcuna di significanti se non scritti sul corpo, piuttosto segni della guerra che tentativi di nominazione. Non c’è dialettica né vertigine, solo un’unica eterna voragine che si apre, solo apparentemente, con la morte del padre.
Giuseppe si ritira in campagna a scrivere ed è felice.
Ha deciso di non annegare, non farsi risucchiare dal disancoramento, di rinunciare anche a un certo godimento.
La scrittura è la sua zattera sul mare.
Ha scelto dapprima di credere a uno, il suo analista; per non rischiare di ubbidire a tutti.
Poi deve essere al mondo e, con la penna, si sente come con lo scudo.
E così ha ricominciato a respirare.
Era più felice scrivendo, in campagna, era più pulito anche, rischiava meno di finire nel mattatoio, ossia di ri-schiavizzarsi e schiavizzare.
Ecco qua! Il gioco è fatto.
Un giovane di una casa famiglia, intelligente quanto schizofrenico, mi disse: io devo pagare dal di fuori.
In un certo senso è così anche per noi, psicoanalisti. Quel liminare di zona, in cui si rischia di scomparire (e pagare dal di fuori), quella zona di confine in cui ci tocca abitare in seduta, non è affatto diversa da dove ci troviamo abitualmente.
In un certo senso è così anche per Berto, che, un po’ come Schreber, deve pagare dal di fuori; perché il male oscuro diventi più chiaro.
Ottima analisi. Piccola
Ottima analisi. Piccola correzione specialistica all’affermazione: “Lacan non analizza mai o quasi gli autori ma le loro opere”. C’è un’eccezione: James Joyce, affrontato nel seminario “Il sintomo”, dove analizza il caso dello scrittore folle che addomestica la propria follia, riversandola in una scrittura che mima la dissociazione schizofrenica abolendo il senso (la semantica, l’immaginario). La performance di Lacan ha un certo valore, poiché il grande psicoanalista non era proprio a suo agio con la follia dell’artista. Per esempio, non capì nulla di Antonin Artaud. Tuttavia, la sua ipotesi eziologica della fuorclusione del nome del padre nella follia stimola una critica approfondita. Sta lì il suo valore: fa pensare.
Grazie per il giudizio. Il
Grazie per il giudizio. Il lavoro paga sempre, almeno sul risultato.
Rispetto al “Lacan non analizza mai o quasi gli autori” Sì Lacan con Joyce fa decisamente una cosa diversa. A tratti anche con Carroll e con altri. Scrivendo “o quasi” mi sono messa al riparo dalla questione in modo troppo sbrigativo. In effetti quello che volevo dire, grazie di avermelo fatto cogliere, era altro, cioè che Lacan sostiene che gli autori non si analizzano a partire dalle loro opere. E’ su questo che Il male oscuro fa eccezione. Devo correggermi.
Poi comunque si analizza effettivamente solo chi è in analisi, e non è certo lo psicoanalista a farlo.
Evito di scrivere dei casi che ho in analisi, così i testi della letteratura, i personaggi dei romanzi dei film dei fumetti etc possono aiutare.
Non conosco, francamente, quello che scrive Lacan di Artaud, ma rispetto alla follia dell’artista, credo che la pratica lacaniana permetta più di altre di ‘curare’ un artista perché è al di là delle norme, ma saldata all’etica. Almeno la mia storia racconta questo.