di Antonella Capoferri, Infermiera Professionale
Partecipare alla Conferenza della Salute Mentale che si è tenuta presso la Facoltà di Economia, Sapienza Università di Roma, in collaborazione con oltre 100 associazioni, come ogni evento formativo di livello nazionale, è stato rigenerante. Non solo iniezioni di fiducia e speranza ma anche approfondimento di temi e pratiche, confronti e opportunità di crescita. Si allargano gli orizzonti. La Conferenza è durata due giorni che sono stati intensi, interessanti ed emotivamente coinvolgenti. Ne è emerso che un SSN performante non è una priorità per i governi, risulta sotto finanziato in rapporto ai bisogni cambiati e aumentati dell’attuale società. Se le risorse sono esigue per tutta la Sanità atavicamente ancor di più lo sono quelle destinate ai DSM. Occorre intervenire con politiche adeguate sui determinanti sociali delle disuguaglianze nella salute, costruendo una società che non sia stigmatizzante, discriminante verso gli individui. Deistituzionalizzazione anziché “Sanitarizzazione”. I Servizi a porte chiuse, a funzione contenitiva, generano la stigmatizzazione dei Servizi stessi e la sfida passa attraverso le paure e il superamento del concetto che la povertà sia da contenere… La paura della sicurezza sociale invade il SSN. Noi tutti sappiamo che non si può separare la questione sociale da quella della salute mentale. Si propongono i Servizi aperti 24 ore, sette giorni su sette.
È necessario cambiare la narrazione dei servizi, cambiarne la visione. Il presidente del SIEP Starace analizza quali sono le invarianze che accompagnano il nostro sistema sanitario da 40 anni e prima fra tutte è il linguaggio degli psichiatri.
È necessario avvicinarsi alla gente, al territorio, conoscerlo in primis e poi interagire con tutte quelle figure che possono essere comitati, scuole, enti, associazioni, gruppi e quant’altro il territorio esprime. Cambiare linguaggio significa cambiare mentalità, acquisire la cultura dell’accoglienza vera, del non giudizio, del rispetto dei diritti della persona. La questione oltre che politica è culturale ed è questo quello che è emerso prepotentemente. Abbiamo Servizi che non sanno e non conoscono il loro territorio e non decodificano i bisogni anche perché non li recepiscono. D’Elia su questo dice che i Servizi vanno visti da dentro, il pubblico non riesce a farlo, non è prassi. Non sapendolo, non conoscendo il territorio, l’impatto sul bisogno è di incontro/scontro se non di sopraffazione, il Servizio non decodifica i bisogni, non ne è consapevole, ad esempio non lo è dell’effetto devastante dell’uso dei farmaci. Non conosce le leggi. Soprattutto non ha capacità imprenditoriali sociali.
Anche sul tema delle residenzialità, sul tanto ostentato rapporto costi-efficacia del famoso studio della Bocconi: ok in termini quantitativi ma in termini qualitativi? Parliamo di costi in termini di posti letto, e l’aumento dell’uso dei farmaci? La creazione della cronicità? Li chiamano anche cronicari non a caso. Sempre riguardo alle Strutture Residenziali si è parlato anche di conflitti e ambiguità che le pervadono da sempre, una specie di mercato, (35 mila posti letto) e poi non c’è la ripresa.
Una sensazione piacevole, calda e poi un brivido quando R. Mezzina urla a gran voce al microfono: no pratiche scientifiche ma pratiche etiche!
Assistiamo ad una scissione tra formazione e pratiche. Ci sono degli ossimori che vanno smascherati: M. Macario dice che mettere insieme le parole socio e sanitario non è una vera integrazione. L’integrazione avviene con la vera accoglienza da parte dei servizi a partire dagli stessi operatori. Il nostro presidente Marcello Macario porta il “Dialogo aperto” in tutta Italia con i corsi di formazione e dice che il cambiamento deve partire da noi: “ora intanto ti ascolto e vengo a casa tua togliendomi le scarpe…”. Togliendomi le scarpe mi piace tantissimo perché è tutto qui: sto con te e ti rispetto!
P. Palomba: “L’evidenza è degli dei, noi uomini dobbiamo approfondire … perciò non pratica basata sulle evidenze ma evidenze basate sulla pratica!” e continua dopo un’analisi sull’esclusione dal lavoro degli svantaggiati “Tra l’abbandono e la reclusione cosa c’è? Costruire dal basso a partire dagli ultimi”.
L’alternativa alle mini strutture istituzionali è: l’appartamento supportato… ma i servizi ne sono in grado? La visione è quella del breve periodo… e insomma il discorso si complica tra quello che dovrebbe essere e quello che invece diventa ma il discorso è lungo, servono più puntate.
Rimaniamo sul tema della necessità di cultura e di formazione. È evidente che non bastano i corsi di formazione per gli operatori, che dovrebbero essere già formati, quindi parliamo di formazione continua, ma come affrontare il problema culturale? Da dove possiamo iniziare? Dobbiamo sentirci inermi? Oppure iniziamo da noi…Dai CSM, quegli elementi che dovrebbero fare da collegamento tra servizi e territorio. Sta ai CSM fare opera di sensibilizzazione, informazione, promozione della salute mentale, incontrando la popolazione del territorio attraverso tutti i contatti possibili a partire dalle scuole, le strutture residenziali, le associazioni dei familiari, le associazioni culturali, le cooperative… mi viene in mente ancora Palomba che parla di contaminare i servizi con la normalità: i cittadini che entrano nei servizi non vedono la malattia ma la persona. Questa dimensione pratica e umana è quella che serve ai Servizi.
Non posso non mettere in evidenza una bella iniziativa che ho trovato spulciando la posta, si tratta del portale della asl 1 di Roma, ha una sezione che si chiama “la Asl che vorrei”, favorisce e sostiene la partecipazione delle persone a cui sono rivolti i servizi, con l’obiettivo di raccogliere idee e proposte per rendere la ASL Roma 1 ancora più vicina alle persone. Tra le proposte ce n’è una di una associazione che riguarda la psichiatria, la proposta si chiama: Salute Mentale: Relazione Medico – Paziente, e mira a rendere possibile cambiare lo psichiatra di riferimento nel caso non si riesca a costruire una buona relazione con l’utente. È firmata da Silvio d’Angerio dell’associazione “Spazio Disponibile”.
“Nella ASL che vorrei tutti gli operatori devono essere selezionati anche per la loro capacità di instaurare una relazione e di empatizzare con utenti e familiari.
Nella ASL che vorrei si deve poter cambiare lo psichiatra di riferimento se l’utente ne fa richiesta.”
Cose che dovrebbero essere scontate, perché sostenute dalla legge, fanno difficoltà a entrare nelle pratiche comuni. Soprattutto nella mentalità dei medici e degli psicologici dei CSM. Che figuriamoci se mollano un po’, solo un pochino del loro potere…e che poi è inutile far finta di essere vicini all’altro svestendo il camice bianco, unicamente. Infatti si vedono entrare e non salutare nessuno, nessun paziente, sono chiusi nelle loro stanze, accessibili solo dopo aver bussato o aver fatto la coda. Non mangiano insieme agli “utenti”, si vedono mangiare in disparte, tra di loro, modestamente al sacco, in un misero stanzino della Asl, ma con la porta chiusa.
“Ai fini terapeutici, la relazione e l’integrazione sociale sono ben più importanti degli psicofarmaci.”
La capacità di instaurare una corretta relazione con i pazienti dovrebbe essere un requisito normale per chi lavora in psichiatria, la cultura della separazione non rientra certo nelle buone pratiche.
Intanto io a Roma ho avuto modo di progettare un incontro tra il nostro gruppo di uditori “Noi Due” e il gruppo di uditori di voci di Gubbio che verrà presto a Sant’Egidio alla Vibrata. E poi ho conosciuto la dr.ssa A. Barbagallo che a Torino promuove il servizio IESA ASL TO3 per l’inserimento etero familiare supportato di adulti, ho conversato con il dott. A. Ricci della Cooperativa “Panta Rei”, e salutato personalmente la dr.ssa Paola Carrozza, ho usato un suo libro per la mia tesi, e mi ha stretto la mano Don Ciotti, ne sono orgogliosa. È ovvio che mi senta rigenerata!
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