Dal 1978 al 2016 sono passati quasi 40 anni, rileggere questo lavoro che ho scritto a quel tempo è veramente impressionante. Agli esordi della legge 180, nota anche come legge Basaglia, si era già manifestata una lotta polemica e politica che nelle sue linee essenziali è attuale anche se sono “leggermente” cambiati i termini della questione, questione questa che pone la follia al centro del dibattito non mai sopito, e come mai dovrebbe poi essere sopito!, che anima ancora oggi profani e i clerici. Quest’ultimi sono quelli che per passione e per mestiere dedicano buona parte del proprio tempo professionale a farsi carico dei cosidetti pazienti psichiatrici cioè i matti. Solo alcune delle domando possibili:”I matti come si curano? Chi sono i matti? Poi che cosa si intende per cura della follia? Quali sono i luoghi dove si possono fare delle operazioni di gestione e contenimento di questi pazienti? La follia è solo un problema clinico?…”. Il termine stesso follia è molto ambiguo in quanto abbraccia molteplici significati possibili e usati per significazioni differenti. In genere viene dato del “ matto” a chi ha convinzioni e modi di essere diversi dai propri e in questo senso viene conclamato il proprio dissenso con una connotazione decisamente negativa e in questo modo la parola matto è usato come un evidente senso di inconciliabilità e addirittura come insulto . Le stesse classificazioni nosologiche psichiatriche sono spesse utilizzate per lo scambio di scortesie che chiudono il dialogo in modo netto con l’altro come diverso e straniero. Tale fatto avviene anche tra clinici e nella clinica. Questo per dire che quando non si capisce più niente si ricorre ad usare la follia e la pazzia come termine che delinea quest’aera di incomprensione, vera frontiera tra ciò che sembra ragionevolmente comprensibile e quello che non lo è. Qua le variabili soggettive la fanno alla grande e ciascuno poi dice la sua in completa e presunta liberta secondo le proprie opinione spesso ammantate di scientificità che serve sempre a dare autorevolezza alle proprie personalistiche idosincrasie. Dal quando ho scritto gli articoli, dopo un anno di distanza l’uno d’altro, le idee sul tema sono diventate via via sempre più oscure e confuse, ho assistito ad un processo inverso da quello auspicato da Cartesio che voleva che le idee divenissero col tempo chiare e distinte. Quello di cui si parla è di fatto complicatissimo e coinvolgente a tal punto che non si hanno affatto soluzioni facili da proporre. In questi giorni, ad esempio, si parla, in sordina, della chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. Nel 1978 ci sarebbe forse stato un caos politico, ora non c’è più quella risonanza. Qua sta la differenza tra quella stagione e questa che percorriamo. Si sono esaurite in parte le ideologie totalizzanti che erano il fuoco del sessantotto e della contestazione, il dibattito sociale e politico ora si riversa su temi quali la legalizzazione delle droghe leggere, i matrimoni gay, la fecondazione assistita, la questione delle carceri e il connesso problema giudiziario. Questi temi sociali sono diventati di maggiore attualità in un clima di fluidità e di disintegrazione collettiva. La follia è come se venisse messa da parte e compare qua e là nei fatti di cronaca e lì chiusa e conclusa, senza quella risonanza che un tempo aveva quando il male si pensava nascesse dalla disuguaglianza e dalla lotta di classe. La sede dell’insorgenza del male psichico era iscrivibile al disastro sociale esaminato nell’ottica di convinzioni organizzate ideologicamente e politicamente: eterna lotta tra i poveri verso i ricchi dove la miseria umana e cioè i poveri, quando malati, venivano confinata nei ghetti manicomiali come veri e propri lager dell’emarginazione. Inferni per i dannati della terra, come diceva Franz Fanon, per i quali non c’è redenzione, possibilità di riscatto. Questo clima ideologico non c’è più, ma la miseria rimane tale e quale come ad un tempo anche se con volti differenti, nel suo tragico silenzio. Sta di fatto che con la chiusura di alcune strutture psichiatriche, mancano ancora all’appello una buona parte dei manicomi giudiziari, il problema del dopo si è fatto preoccupante come quarant’anni fa e nella sue problematica essenziale è rimasta di fatto insoluta, lasciata priva del dibattito pubblico e quindi dell’appoggio politico. La vicenda del malato mentale è divenuto un problema di abbandono e di solitudine umana e sociale che può assumere dimensioni preoccupanti nella più grande incuria e indifferenza della pubblica opinione. Lo schizofrenico viene conteso ora come prima tra le più svariate competenze biologiche e sociologiche, ma di fatto affidato nella solitudine di famiglie disastrate che si trovano nel più drammatico abbandono. Che fare? L’ospedale chiude e poi, quali sono le strutture che potranno essere utili come supporto ai nuovi e reali bisogni di assistenza? Tutta questa parte, che è la più importante è affidata al braccio secolare di una collettività che non sa come fare e che teme per la propria sicurezza. La libertà è possibile dove la sicurezza è in parte garantita dalle strutture di servizio che lo stato fornisce, ma in queste faccende ci deve essere l’intervento pubblico. Si è vero, ma quale? Spesso tutto questo si lascia scorrere via con una alzata di spalle come se il problema fosse dell’altro e in particolare di quelli che il problema lo vivono sulla propria pelle. L’indifferenza rimane una difesa nei confronti della propria impotenza che viene di fatto legittimata dalla difficoltà che la problematica qua esposta apre nelle nostre coscienze. In effetti succede qualcosa che può essere interessante e avere degli sviluppi spesso affidati al volontariato e al privato sociale e anche all’intervento di servizi affiliati alla Chiesa che in Italia, è piuttosto attiva e spesso ha una funzione vicariante nei confronti di assenze dell’intervento laico e pubblico, I Centri psicosociali di zona fanno la loro parte, come i servizi per le tossicodipendenze, ma non sono idonei per la gestione delle patologia gravi e croniche che spesso trovano il loro contenimento in centri come i dormitori pubblici cittadini. L’isolamento nella casa diventa un’alternativa al vagabondaggio, camere che si trasformano in una specie di antro manicomiale per una emarginazione che va oltre ogni immaginazione. Ho compreso con il tempo che alcune patologia implicano esistenze personali e anomale che spasso vivono parallele a quelle ritenute normali e che convivono indisturbate con altre. Questo è un dato sicuramente positivo della riforma psichiatrica che non ghettizza più i malati, ma da a loro una possibilità di esistenze alternative, quando queste però sono possibili. Non sempre questo avviene, ma certamente apre ad una maggior tolleranza nei confronto dei diversi e della diversità. Le carceri sono piene di emigrati e nuovi arrivi di profughi sono prevedibili in futuro con il possibile aumento di sacche di emarginazione. La gestione del diverso apre nuove difficoltà che spesso invece di essere affrontate vengono utilizzate per una demonizzazione delle differenze in una lotta che dura da quando c’è il mondo tra il nuovo e il noto rassicurante. La follia è parte di questo sistema e una legge sicuramente utile non basta. La psicoterapia psicoanalitica e la psicoanalisi ha dato un suo contributo alla comprensione di queste difficoltà o perlomeno ha cercato di definire dei limiti entro cui è possibile intervenire. Il grosso del problema rimane comunque un fatto sociale e politico, lasciato quindi alla disputa ancor viva tra atteggiamenti conservatori, reazionari e progressisti che segnalano gli umori o meglio i malumori della pubblica opinione. Materia non trascurabile che è bilancia per possibili interventi futuri. A questo punto lascerei aperto il dibattito sull’argomento che è sempre attuale dal momento che la follia, sia come fatto individuale che sociale, ci appartiene e non è soltanto attribuibile agli altri. E’ un fatto quantitativo che con una certa “scientifica” ironia, ne possiamo avvalorare la certezza.
di Oddone Aguzzi
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