Iniziamo, con questo articolo di Paolo Mottana, il discorso da portare avanti all'interno della Rubrica LA FORMAZIONE E LA CURA (che è anche il titolo di un Seminario Permanente che Mario Galzigna, in collaborazione con Pietro Barbetta, organizza all'Università Ca' Foscari di Venezia).
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PAOLO MOTTANA
Professore all’Università di Milano – Bicocca
Controeducazione a scuola significa rovesciarla da capo a fondo. Non c’è mediazione. La scuola, così com’è, è semplicemente un obbrobrio. E non c’è benemerita storia che possa giustificarla. Con tutta la buona volontà e in molti casi anche la stima nei confronti degli uomini e delle donne che ci lavorano, e che, a volte, con passione e impegno ci insegnano, non c’è altra soluzione. Raderla al suolo e ricominciare da capo. Perché la scuola è la tetra e irrecuperabile riproduzione degli istituti di internamento e di ricovero di cui ricalca fedelmente forme e modi e dunque va ripensata radicalmente a partire dalla sua struttura e dalla sua architettura. Perché nella scuola la gerarchia e la sistematizzazione dei sapere è percepibile tanto nei muri quanto nei testi ed è la cupa riproduzione di un episteme morto e sepolto (ma morto non perché privo di potenzialità e inerte quanto perché mortificato e ibernato, disinnescato di ogni potenza generativa). Perché le classi sono organismi in sé sbagliati, perché gli insegnanti sono figure spurie e perlopiù inutili, perché i libri di testo, i registri, le lavagne sono strumenti indegni e irrecuperabili per lubrificare l’esperienza virtualmente straordinaria che è quella di imparare. Perché occorre smetterla di rinchiudere in questi covili asfissianti e patogeni i bambini e i ragazzi che di tutto avrebbero bisogno fuori che di questa carcerazione preventiva e di questa rettificazione obbligatoria.
La prima domanda che andrebbe radicalmente riformulata è a che cosa serve la scuola. Nessuna risposta sedicente democratica può ridurre la percezione acutissima dell’atroce verità di questi luoghi di pena. Se c’è bisogno di alfabetizzare e acculturare le giovani generazioni sono sicuro che esistano soluzioni infinitamente più adeguate e entusiasmanti di quella che siamo soliti appellare con il nome di scuola. Se la risposta invece, come è molto più credibile, è che essa serve a custodire, manipolare e disciplinare, in funzione strumentale alle esigenze di un sistema oppressivo, il periodo di maggior potenza fisica vitale, di più vivace spinta creativa e di più inesauribile energia espressivo-affettiva e cognitiva, della vita di ognuno di noi, allora si tratta certo di una risposta ben calcolata ma non per questo meno terrificante.
E a questa risposta, che è poi la ragion d’essere di un tale sistema capillare di soggiogamento della vita nei suoi primi fatidici anni, occorre reagire con azioni almeno simmetricamente altrettanto esiziali. Non solo perché la scuola è appunto questo, un sistema di oppressione legalmente riconosciuto, ma anche perché, nell’intento di raggiungere i suoi scopi presunti, è pensata per fallire e si poggia su un sistema di azioni votate al fallimento. E non a caso. Essa è costruita per produrre il fallimento dei suoi obiettivi dichiarati (quelli sedicenti democratici), e viceversa per realizzare quelli latenti, che sono appunto quelli legati alla custodia, alla manipolazione e alla sorveglianza. La verità della scuola giace nel suo dispositivo profondo, molto meno invisibile di quanto si creda e di sicuro assai verificabile nei suoi risultati: generazioni e generazioni di giovani che escono da quel luogo in larga maggioranza indeboliti fisicamente, condizionati negativamente nel loro immaginario del sapere, inebetiti e fondamentalmente anestetizzati o addirittura portatori di odio per ogni forma di cultura.
So bene che un cospicuo numero di colleghi, operatori, insegnanti sono impegnati nel compito assai arduo ancorché nobile, di rimediare ai guasti intrinseci dell’istituzione, di escogitare soluzioni che possano facilitare la vita scolastica, migliorarne le pratiche. Mi inchino al loro indomito spirito riformatore, alle loro buone intenzioni e certo anche agli effetti balsamici e rinfrancanti che spesso generano nel tessuto della vita scolastica, come a volte viene sagacemente narrato.
Sono anche consapevole della stizza che molti di loro provano nei confronti di chi attacca in maniera così diretta e sfrontata la scuola, della loro insofferenza verso chi non intende piegarsi sulle ferite suppuranti delle attività scolastiche con spirito di solidarietà, di complicità, di servizio. E tuttavia vorrei dir loro che occorre anche analizzare con una certa radicalità e con un certo rigore il senso di un tale operare. Se effettivamente concorra a fare della scuola qualcosa di diverso da ciò che è, qualcosa che effettivamente vada nella direzione di potenziare, di liberare e di affrancare oppure se vada nella direzione opposta, quella di coadiuvare una tendenza intrinseca di tale istituzione, quella appunto già sottolineata e che produce danni irreparabili a quello che io considero il traguardo fondamentale di un’esperienza di apprendimento, il desiderio di sapere di più e di sperimentare ancora.
Voglio sfidare la consueta sufficienza con cui si giudica chi si batte o si è battuto per il rovesciamento della scuola, da Steiner a Illich a Schérer a Vaneigem a Naranjo. Occorre finirla con il voler salvaguardare gli elementi strutturali di un sistema di questa natura, un sistema che incarna il geometrismo morboso di una razionalità prometeica e distruttrice a partire dalle sue mura, monotone e ortogonali. Che prescrive il suo cadaverico galateo a cominciare dal disegno dei corridoi, dalla tinteggiatura delle aule, dai materiali con cui confeziona laboratori e palestre (laddove questi ultimi due ambienti minimi per la sopravvivenza di un corpo vivente per altro esistano). Che condiziona ad un’immagine del sapere cupa e detestabile a partire dalle copertine e dagli indici dei suoi manuali, dei suoi libri di testo, in cui il sapere è immolato sull’altare dell’omogeneizzazione, della classificazione e della mortificazione sistematica di ogni traccia di vita, di interiorità, di differenza.
Occorre davvero usare il lanciafiamme contro l’impalcatura intellettualistica dei suoi contenuti e delle sue attività, contro il primato dei saperi cognitivi, contro la metodica deduttivistica con cui si sperimenta l’apprendere, contro l’emarginazione sistematica e perversa delle facoltà intuitive e immaginative, della curiosità, della potenza espressiva e creatrice del corpo e delle emozioni, della pregnanza insostituibile dell’esercizio di pratiche concrete e reali (il che peraltro la presunta recente “sovversione” delle cosiddette “competenze” sembra tutt’altro che in grado di produrre, con il suo entusiastico e quasi trionfale elogio di un apprendimento finalmente orientato all’ “agire”, fondamenti costruttivisti a parte. Ancora una volta il problem-solving, il fare, un fare ragionato certo, un fare positivo, un fare – non se ne può dubitare- just in time, continuerà a piegare la scuola sotto il giogo delle “attese” industriali…).
Contro la bruttezza, la noia, la trascuratezza diffuse in ogni dove.
Francamente è difficile giudicare se la scuola sia salvabile. L’ho detto e scritto ovunque mi sia stato possibile dello stato di degrado spaventoso di questa vecchia carcassa. Nel tempo ha conosciuto molteplici tentativi di rianimarla, di riarticolarla, di ripensarla, qualche volta anche con discreti risultati, e penso alle scuole nuove e alla stagione delle sperimentazioni. Ma ormai sembra defunta, inemendabile.
Considerarla come un elemento non negoziabile, come un fondamento della vita civile della nostra società, pare presuntuoso, specie nell’epoca in cui l’educazione passa in maniera così evidente al di fuori della scuola, attraverso canali ben più attrezzati e pervasivi di quelli che essa abbia ancora a disposizione o possa mai avere. Ritenerla un bastione contro l’imbarbarimento appare sommamente ingenuo, e soprattutto perché si continua a disconoscere il suo ruolo decisivo nell’imbarbarimento stesso, cioè nel rendere irrimediabilmente impermeabili alla cultura. Probabilmente chi non la frequenta per niente potrà coltivare un’immagine, della cultura, magari sbagliata, ma probabilmente più affascinante di chi l’ha sperimentata nella scuola. Quest’ultimo, come detto, nella maggioranza dei casi, sarà vaccinato per sempre contro il rigurgito del desiderio di sapere, e soprattutto di sapere ciò di cui si è trattato a scuola.
La scuola è ormai e finalmente, occorre dirlo, destinata a mutare, in maniera decisiva, a frantumarsi, a innervarsi in un tessuto, questa volta sì, di molteplici esperienze, uno sciame di possibilità, che aiuti a orientarsi in un cosmo plurale, fluido, disseminato. Che permetta di coltivare esperienze fortemente differenziate, collocate agli incroci del reale, non nell’aventino di una struttura subreale. Esperienze capaci di spaziare dal fisico al metafisico, dallo sportivo all’avventuroso, dall’immaginativo ed espressivo al riflessivo e al critico, dal matematico al teologico, dall’artistico al tecnologico, in un’apprensione della materia dell’esperienza non più frantumata in una presunta geometrizzazione dei saperi che lo elaborano e ne rendono conto separatamente in maniera schizoide. In una articolazione dello spazio della vita in cui bambini e ragazzi non debbano per forza essere reclusi e compressi ma nella multiformità del quale possano diventare seme che viene disperso in molteplici direzioni, vettori mercuriali capaci di fecondare i luoghi della vita reale con la loro presenza sia attiva che ricettiva. Vorrei immaginare luoghi di apprendimento per i ragazzi nelle imprese e nei teatri, nelle televisioni e negli atelier, nel commercio e nei laboratori scientifici, dove possano assistere, cooperare, essere attori e collaboratori. E poi luoghi specifici ma non totalizzanti individuati per loro, dove rielaborare le esperienze, dove sperimentarne di nuove, dove concentrarsi sui nodi, sui problemi, sulle domande. Non per esaurirle ma per moltiplicarle. Con un’apertura totale, oltre ogni censura, incontrando testimoni, rendendosi testimoni, esercitandosi, provando, con la mente, con il corpo, con le emozioni, con l’immaginazione.
Molte delle esperienze più positive del secolo che ci ha preceduti possono essere riattivate, consultate, rifondate per pensare un paesaggio dei bambini e dei ragazzi abitato, fertile, ricco attraversato dal loro sfrecciare, dal loro mobilitarsi, dalla straordinaria potenza della loro creatività qualora non venga inibita dall’irreggimentamento scolastico.
Certo, immaginare di poter descolarizzare in maniera totale è davvero utopico, e persino poco raccomandabile probabilmente. Occorreranno sempre delle funzioni leganti, dei nodi di interconnessione e di approfondimento. Ma è tutto il tristo apparato che bisogna re-visionare. A partire dalle classi di età, dalle misure dei gruppi, dalla fisionomia degli insegnanti. Favorire la mescolanza, che è sempre fertile, facilitare i flussi, i gruppi modulari, più bande che classi, più macchine da guerra che squadre di lavoro. Gli insegnanti possono diventare figure molto più ibride, setacciatori del territorio, organizzatori di esperienze, facilitatori di incontri e di scorribande, animatori, mèntori. Occorre valorizzare l’esperienza fuori porta, da vivere come escursione e avventura, come perlustrazione e scoperta, non come miserabile ispezione del previsto, instradamento sulla rotaia inamovibile della visita al museo o alla gipsoteca di turno. Piuttosto immersione d’ambiente, deriva, fluttuazione nello spazio e nel tempo, cercando i luoghi della battaglia, il vecchio atelier del grande pittore, la camera d’albergo dove moriva lo scrittore, il quartiere notturno dove si consumava la passeggiata debosciata del dandy, lo scantinato dove si rintanava il resistente, il laboratorio alchemico dell’iniziato ma anche semplicemente la strada, la piazza, gli edifici della periferia devastata, il castello e il parco, il bosco e la radura. Un’osmosi tra fuori e dentro dove però il dentro non è necessariamente una scuola ma l’appartamento del gruppo di compagni, la base, la casa dell’insegnante del momento. Ogni struttura va ripensata, aggredita, demolita e rifatta, per essere covo, spazio di espansione e di espressione, teatro, campo di gioco, laboratorio, nascondiglio. Spazio curvilineo, fitto di zone d’ombra, multimaterico, sonoro, danzante.
Un’antiscuola che preceda e s’intrecci con l’oltrescuola in uno spazio urbano ed extraurbano non più interdetto ma rigato dai percorsi dei bambini e dei ragazzi, animato e abitato da loro e perciostesso riattivato, restituito ad una formidabile vitalità. Spazio che deve riassumere la fisionomia di un fitto scambio, capace di interrompere e deviare i flussi del traffico accelerato e indifferente dei saperi soggiogati e sfruttati. Presenza diffusa, che sconquassi le traiettorie della merce, che la costringa a sostare, a farsi interpellare, perlustrare, decostruire. Educazione come apertura e percorrimento della pelle delle cose, nelle loro forme reali, irreali, immaginarie, feticistiche. Un’antiscuola come luogo dove il mondo-mercato è interrogato, frugato, sanzionato. Penetrare negli itinerari della pubblicità, esplorarne i luoghi, smantellarne la finzione, produrla a propria volta, secondo forme che superino il ricatto del profitto o che lo dissipino nel dispendio. Aprire la comunicazione video, la televisione, il cellulare, schiavardarne i linguaggi, rifarli, disfarli. Recuperare l’arte come cuore di una cultura poetica che possa nutrire uno sguardo e una sensibilità desertificate e represse, manipolate e soffocate. Restare nelle opere dell’immaginazione fertile degli artisti come in case sovrabbondanti, senza inutili perimetrazioni precauzionali, tuffandosi in esse, siano le poesie rilette nella luce bigia di un’alba trevigiana in compagnia di Zanzotto, o le prose bizzarre e piene di oggetti curiosi, inusitati alla luce incandescente delle spiagge siciliane con Camilleri. Siano le installazioni immense e sconvolgenti di Christian Boltanski o le esperienze video di iniziazione alla spiritualità delle cose con Bill Viola.
Il mondo trabocca di occasioni di sapere, ancora vive, palpitanti, in movimento. Perché avvizzire sulle copertine e nelle pagine cloroformizzate di saperi liofilizzati, omogeneizzati e mummificati? Perché avvilirsi a rincorrere i brodini ristretti delle schedature poliziesche dei libri di testo?
E quando poi ci si rinchiude, nei giorni del freddo o della pioggia, occorre ritrovare i gesti, le atmosfere, i luoghi dove il sapere e l’arte sono nati. Con attenzione alle storie, alle immagini, alle domande. Non assecondando il grigio e torturante salmodiare della voce manualistica che sintetizza, ordina, comprime e riduce a diagrammi indigesti.
Una controeducazione che voglia rimettere la realtà nelle sue radici deve abolire questa scuola e sostituirla con una cosa ricca d’anima, affondata nella terra reale, tutta rovesciata sull’esterno e profondamente irrigata dalla differenza.
Riporto qui i commenti di
Riporto qui i commenti di DAVIDE RADICE e di FABIO MILAZZO.
DAVIDE RADICE. Come si può non essere d’accordo?
Trovo l’apertura e la chiusura molto interessanti, mentre tutta la parte centrale mi pare ripetitiva e poco distinta. Forse potrebbe essere più chiaro e andare in profondità.
Per me molto importante la parte in cui accenna al mito del “cambiare da dentro”. Mi viene in mente l’esperienza in questo senso di Fachinelli dentro la SPI. Si tratta di un’illusione, forse l’ennesima, in cui si declina l’abitare l’istituzione da parte dei “rivoluzionari”.
Grazie Mario per queste sollecitazioni e buon week end!
FABIO MILAZZO. Molte sollecitazioni interessanti ma, mi sembra, l’ennesimo intervento che discetta sulla scuola, sui mali che l’affliggono, fornendo solo vaghi accenni di sapore “sessantottino”. Il grande problema di chi parla oggi di scuola è di farlo spesso, troppo spesso, dal di fuori, senza una piena consapevolezza di cosa significhi stare in classe, esperire sulla carne le “patologie del vuoto” degli studenti, di cosa voglia dire sentire sulla carne che il malfunzionamento del “luogo di apprendimento” è, in prima istanza, un sottoprodotto di una mutazione antropologica in atto di cui, forse, siamo ancora troppo poco consapevoli. Bene, allora, gli interventi di questo tipo se sollecitano riflessioni sul ruolo della pedagogia in relazione allo strutturarsi della “comunità”, meno se si riducono a vuoti esercizi di verbosità decostruttiva con prospettive rizomatiche che appaiono troppo poco attuabili (e funzionali) alla maturazione dei soggetti di domani.
2 ore fa
Mi ricollego a quanto scrive
Mi ricollego a quanto scrive Fabio Milazzo, quando sostiene che “il malfunzionamento del ‘luogo di apprendimento’ è, in prima istanza, un sottoprodotto di una mutazione antropologica in atto di cui, forse, siamo ancora troppo poco consapevoli”. Una mutazione che per un verso ha visto crollare il principio di autorità, quale dispositivo sovra-relazionale in grado di disciplinare le interazioni sociali studente-docente secondo una logica verticale, e che per l’altro naviga sulle acque, talora tempestose o imprevedibili, della rivoluzione digitale, in grado di incidere in maniera profonda e nuova sul pensiero, il comportamento e l’affetto tanto dei nativi, quanto degli immigrati digitali. Un cambiamento non privo di potenzialità, ma certamente carico di crisi, che vede impreparato non solo il vetusto sistema di apprendimento e il pensiero tradizionale che lo presiede, ma anche e soprattutto i suoi principali interpreti. Laddove “fare scuola” oggi non può non essere un’opera dialogica e interattiva, policentrica e variabile, quindi instabile e aperta, il luogo dell’apprendimento non sembra più poter essere l’aula, dispositivo che storicamente ha pensato al percorso di apprendimento in senso individualistico (anche quando lo si contamina con lavori di gruppo), predisponendo dei banchi singoli o al massimo doppi disposti univocamente verso una cattedra, talora rialzata da una pedana. Mi domando quali siano oggi gli scenari dell’apprendimento, in una scuola che si potesse rendere capace (e qui bisognerebbe comprendere a fondo le fitte maglie della normativa) di connettersi al mondo della vita, facendola entrare negli spazi e nei tempi dell’insegnamento e della ricerca, dilatando i confini disciplinari e di potere, che sempre l’hanno contrassegnata e che attualmente appaiono anacronistici e sfocati, fino a farli divenire vere e proprie frontiere di senso, ibridanti, dense e vibranti, luoghi di confronto aperti e incerti, e non barriere artificiali volte a fissare il mutamento. Una scuola nodo di una rete di apprendimento ampia e variabile, che leghi circuiti di crescita a più livelli, come una ragnatela di possibilità innervata dalla società. La mia esperienza professionale, peraltro limitata, mi porta a pensare che tuttavia saranno gli utenti della scuola, anzitutto gli studenti, a provocare un cambiamento in questa situazione di stallo. Già molti, non trovando soddisfazione nel luogo che è stato loro preposto, l’abbandonano per altre avventure formative, parallele al percorso scolastico o ad esso alternative. Non ho fiducia, in questo momento, in un mutamento che sappia discendere dall’alto, avendo prima compreso le ragioni profonde di ciò che sta avvenendo, non tanto a scuola, quanto nel più esteso sistema sociale di cui essa fa parte.
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