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Coronavirus, lo scacco della ragione e la decrescita infelice

6 Mar 20

A cura di luigidelia

 

In un recente articolo (Il Covid-19 come fenomeno psicosociale. Quale responsabilità degli psicologi. In: stateofmind.it 03/03/2020), ho già sottolineato come l’attuale incombente situazione epidemica, stia sottoponendo la nostra civiltà, nell’epoca di massima espansione e di massima presenza dell’infosfera e della tecnosfera nella vita quotidiana, ad un vero e proprio scacco della ragione: Questa situazione psicosociale, legata alla comparsa di un’epidemia virale in corso in questo momento storico, mette in crisi lo stesso sistema della ragione contemporanea, dei principi di razionalità e della catena di giudizio, di azione e di responsabilità sia delle istituzioni sia dei singoli professionisti della salute. Pone dunque la necessità di sostenere una nuova forma di razionalità e di governo delle emergenze e del rischio che sia in grado di gestire nuove complessità e che sappia allo stesso tempo regolare il chiasso mediatico che oscura e confonde azioni pubbliche e private.

Ciò accade in sostanza a causa dell’impossibilità di decifrare e prevedere compiutamente il fenomeno e le sue evoluzioni. Luigi Zoja in un suo contributo sul tema (Paranoia e virus. In: doppiozero.com. 01/03/2020), dopo una breve disamina delle caratteristiche del virus, lo dice chiaramente: Le previsioni sono ben difficili, perché troppe sono le variabili in gioco. Sarebbe come azzardare che tempo farà, diciamo, il 22 ottobre dell’anno prossimo: anche il metereologo più esperto non ci proverebbe. 




La psicologia cognitiva e la psicologia sociale conoscono fin troppo bene i sistematici inciampi della mente umana in presenza di situazioni indecifrabili, ipercomplesse, emotivamente sconquassanti, imprevedibili. E quando le previsioni sono azzardate e le variabili in gioco troppe, ecco che spuntano fuori, direi come funghi, i famosi bias, termine anglofono che si traduce con pregiudizio e che in sostanza sta ad indicare che il nostro cervello cade con una deludente sistematicità in errori di valutazione o, per dirla con un termine a me caro, in dispercezioni strutturate.
In questo contributo di Marianna Moni (Coronavirus tra bias cognitivi e narrazione del rischio. I princìpi che alterano il percepito. In: rbhq.it, Economia comportamentale. 27/02/2020), ne troviamo descritte alcune di queste dispercezioni (bias). Fenomeni di framing, euristiche di rappresentatività, allarmismo evolutivo, percezione di imminenza-vicinanza o di lontananza, sovraesposizione a stimoli di pericolo, effetti di ricompensa del sacrificio, e così via, deformano in maniera piuttosto sostanziale percezione del pericolo in una direzione o nell’altra, verso l’allarmismo o verso la negazione del problema.

E questa medesima polarizzazione tra fobici e controfobici, tra impauriti-evitanti e negazionisti-scettici-complottisti, per quanto possa apparire noiosissima e già vista e rivista agli occhi di un esperto di media e comunicazione, è esattamente quanto è avvenuto e continua ad avvenire negli spazi pubblici dell’infosfera dei media, dei social, ma anche nelle discussioni private. Un vero e proprio inquinamento dello spazio psichico che determina un sensibile abbassamento del discernimento (individuale e collettivo) anche in persone considerate mediamente presenti a se stesse o mediamente intelligenti.

Ci affidiamo perciò alle parole rassicuranti degli scienziati, e possibilmente delle scienze più esatte possibili: modelli matematici, calcoli sociometrici, curve di andamento epidemiologico, schemi di sviluppo di precedenti fenomeni virali. Ma anche qui non siamo scevri dalle polarizzazioni e dai dibattiti e al cospetto dell’ignoto e dell’imprevedibile anche le scienze più esatte rischiano di ridursi ad opinionismo.

Peggio, molto peggio, accade quando ci si affida alle parole di saggi e interpreti del presente, laddove essi si rivelino privi di sufficienti strumenti euristici e dove appare del tutto evidente come il possesso di chiavi di lettura del fenomeno anche sofisticate quando sono mancanti di sufficienti fonti informative scientifiche o sono in possesso di informazioni parziali, finiscano per sovrascrivere, direi pericolosamente e incoscientemente, sulla realtà del fenomeno che intendono interpretare, oscurandolo e falsificandolo di fatto. È il caso dello scritto dell’autorevolissimo filosofo Agamben, che inciampa, come tutti i negazionisti, nel rappresentarsi il Covid-19 come una comune influenza e come una “epidemia inventata”. Fortunatamente a stretto giro, gli risponde un suo amico filosofo, Nancy (salvando in calcio d’angolo l’onore dei saperi sociali), prendendolo affettuosamente un po’ in giro (vedi risposta di Nancy ad Agamben).

Insomma, a parte l’elevato rischio per ognuno di noi di ritrovarsi dalla scomoda parte degli stupidi, qualunque posizione si decida di prendere, tutto di questo complicato momento storico sembrerebbe indicare un’eclisse della ragione, o quanto meno una sua crisi, si spera momentanea, che trova nella nostra civiltà dei nervi scoperti, delle falle di sistema.
Assistiamo così sui giornali e nei media al lamentoso strepitio di moltissimi opinionisti circa le conseguenze economiche delle quarantene e dei provvedimenti atti a ridurre la diffusione del virus. Ma cosa sostengono questi lamentosi in sostanza?

Ci si domanda, non senza un certo imbarazzo: allora non si sarebbero dovuti prendere questi provvedimenti? (e quindi quali altri provvedimenti andavano presi?); allora il virus non è così grave e non giustifica le quarantene e le cautele? (e quindi governi e istituzioni stanno esagerando oppure mentendo?); allora qualche anziano morto in più è un prezzo sociale giustificabile per non pagare il costo della recessione? (e quindi la frenata dell'economia vale più della vita di persone?); allora non si doveva far sapere in giro che in Italia c'è il virus? (e quindi ci dovevamo trasformare nella Corea del Nord e bloccare radio, tv, giornali, internet?)
Di cosa dunque ci si lamenta e quali sono realmente le possibili controproposte? Domande inevase e potenziali risposte inquietanti che aprono ancora su uno scenario di attuale, imbarazzante, scacco della razionalità.
Il virus sembra proprio proporsi come un gigantesco test proiettivo: svela tutte le possibili forme di stupidità umana, smaschera i cinici, gli antisociali-psicopatici, stana i paranoici, svela in sostanza l'incapacità di persone e gruppi di intravedere in questo fermo occasioni e possibilità salvifiche. Così come accade per ogni fermo nella vita di individui e popoli

Ma al di là della diffusa irrazionalità che l'attuale situazione comporta e al di là di tutte le inutili diatribe mediatiche citate (tutta roba che, in definitiva, fa vendere pubblicità ai media), forse occorrerebbe provare ad allargare lo sguardo e comprendere che questa eclissi della razionalità non è solo e semplicemente un bug di sistema casuale ed estemporaneo dovuto alla situazione critica incipiente, ma mostra qualcosa che agli occhi dei più risulta ancora interdetto e cioè la fragilità stessa della nostra civiltà in questo preciso momento storico.
Non c’è alcun compiaciuto disincanto in chi scrive nel sollevare questo aspetto, tutt’altro. Mi piacerebbe davvero tanto poter dire di vivere nel migliore dei mondi possibili, credetemi, ma proprio non mi riesce a dirlo.
Le quarantene programmate nelle zone-focolaio o solo i cambiamenti delle più comuni abitudini nelle zone limitrofe introducono immediatamente il tema della crisi di sistema annunciata come crisi delle economie nazionali e mondiali. Saremo presto costretti tutti, ed alcuni di noi già sono costretti da settimane, a modificare per un po’ di tempo le nostre abitudini quotidiane. Ma fermarsi e modificare abitudini coglie la gran parte di noi del tutto spiazzati.
Già dopo queste primissime settimane si alternano nei nostri canali mediatici le notizie delle stime al ribasso per le economie con le immagini satellitari delle minori emissioni di CO2 nelle zone maggiormente contagiate (Cina e Pianura padana). L’economia boccheggia, ma il clima migliora. Relazione inversa assolutamente prevedibile che però solo un virus poteva dimostrare concretamente.
Allo stesso tempo l’impatto psicologico delle quarantene, già noto agli addetti ai lavori (Brooks, S. K., Webster, R. K., Smith, L. E., Woodland, L., Wessely, S., Greenberg, N., & Rubin, G. J. (2020). The psychological impact of quarantine and how to reduce it: rapid review of the evidence. 26 Febbraio 2020, Lancet), ma lontano dalla memoria di molte nazioni, compresa la nostra, è un impatto durissimo fatto di post traumatic stress, rabbia, depressione, frustrazione, noia, confusione, etc. Chi si ritrova inattivo, fermo, passivo, senza lavoro, con lo spettro della povertà alle porte, senza una reale prospettiva e una chiara scadenza di questa condizione, vive di fatto una condizione davvero assai penosa. “Rimanere isolati in casa, non poter frequentare luoghi pubblici o ridurre drasticamente la vita sociale rimanda immediatamente ad una deriva depressiva se non addirittura ai sintomi negativi di alcune psicosi. Nell’immaginario collettivo si ferma la vita, si cade in una passività e in una solitudine senza ritorno. Settimane se non mesi in uno stato di reclusione domiciliare come se si scontasse una pena […]. occorre saper tracciare ed indicare i confini temporali di esperienze così angoscianti e fornire supporto e comprensione nonché strategie di occupazione del tempo e della convivenza creative e se possibile anche innovative”. (Ibidem)




Provare ad intravedere in questa nuova condizione imposta dal virus (isolamento, ritiro, distanza, cautela, quarantena), un'imperdibile occasione per un salto evolutivo richiede un non comune spirito visionario. A maggior ragione se si volesse intravedere in questa penosa condizione l’occasione buona per risolvere questioni molto più grandi di un'epidemia attraverso lo strumento involontario della serendipity.
Per chi non lo sapesse la serendipity è quella situazione fortunata che ti porta a trovare qualcosa di importante (anche una soluzione) mentre ne cercavi un'altra.
Cosa possiamo trovare, dunque, grazie al virus?

C'è un doppio piano di analisi: un piano micro (ristretto, soggettivo, interpersonale, microsociale) ed uno macro (socio-economico-politico).

Noi psicoterapeuti accogliamo i "fermi" dei nostri pazienti, che si manifestano o attraverso sintomi psicologici o attraverso un diffuso disagio senza nome, come delle splendide occasioni di riconfigurazione e ripartenza, rese ormai necessarie, se non obbligate, da nuovi squilibri interni o esterni che si verificano nella vita della persona. Se si lavora duramente con impegno e continuità, in genere ciò accade e tutto ciò si manifesta come una sorta di miracolo della vita: si assiste cioè ad un vero e proprio "salto" evolutivo che fa voltare pagina sulle annose vicende che in precedenza portavano angoscia e preoccupazione.
Solo allora è possibile rivedere il fermo del passato come un'occasione fortunata. Ma questo chi ci sta dentro non può veramente vederlo.
Riecheggia alla mia memoria la fase che G. Anders fa dire a Noè mentre veniva dileggiato da coloro che lo vedevano affannarsi per costruire una nave enorme nel deserto: "dopodomani il diluvio sarà una cosa che sarà stata. E quando il diluvio sarà stato, tutto quello che è non sarà mai esistito […], se sono venuto davanti a voi, è per invertire i tempi, è per piangere oggi i morti di domani
Chi sta dentro un problema grande vede soprattutto il passato e il presente, a malapena il futuro prossimo, meno che mai il "dopodomani", unica posizione in cui può mettersi ad osservare il domani come "già stato". È l'unica possibilità di proiettarsi veramente e dilatare l'orizzonte temporale angusto del malessere.

La crisi economica che già stiamo vivendo (e qui siamo sul piano macro), già a poche settimane dall'inizio del contagio, è solo l'avvisaglia di quella che seguirà nei prossimi mesi (e forse anni). Il crollo dei consumi imporrà nuove misure dall'alto (in Italia già annunciate), che presumibilmente non impatteranno la crisi completamente, ma leniranno resilientemente l'inesorabile e lenta agonia della deriva neoliberista globale. Sarà probabilmente uno di quei casi in cui la resilienza del sistema è contraria al benessere generale. Nel breve periodo si godrà di qualche particella di ossigeno e riscopriremo forse per un attimo, grazie alla momentanea retrocessione o rallentamento della follia maniacale della crescita continua indotta da epidemia e conseguente crisi economica, il gusto della presenza dell'altro nella nostra vita.

Quando pochi decenni fa si diffondeva in ristretti circuiti la teoria economico-politica di Serge Latouche chiamata decrescita felice, forse nessuno ha mai pensato che grazie all’elementare saggezza intrinseca alle idee salvifiche di queste teorie, espresse forse con eccessivo elitarismo e ingenuo razionalismo, si potesse mai realizzare l’auspicato cambiamento di rotta della globalizzazione attraverso la decolonizzazione dell’immaginario consumistico e i cambiamenti degli stili di vita. Quale decrescita può mai essere associata alla felicità? Quale presunzione della ragione presume che qualcuno rinunci volontariamente, anzi felicemente, alla posizione di privilegio (reale o presunta) conquistata? Nessun re si auto-detronizza. Latouche come Noè, annunciatori di sciagure, dunque inascoltabili. Inattuabili.

Molto più comprensibile, ma anche lui piuttosto inascoltato, l’omologo economista inglese Tim Jackson che viceversa ci suggerisce piuttosto una “Prosperità senza crescita” (Edizioni Ambiente, 2011), libro di eccezionali contenuti. Ecco, già andiamo meglio, anche se ancora non ci siamo con la comunicazione.
Tutto fa pensare che l’impatto a lungo termine che questa pandemia produrrà, pur non essendo devastante, sarà una decrescita infelice e una decrescita senza prosperità.
Una voce sembra dirci in questi giorni: non avete ascoltato la possibilità di una decrescita, prospera, sostenibile e possibile? Allora accontentatevi di una crisi infelice, come tutte le altre che collezionerete in questa epoca neoliberista.

Quel “fermo” che nella vita dei nostri pazienti diventa occasione imperdibile e unica per un salto evolutivo, per la nostra civiltà è ancora una domanda negata, una domanda di cura che ancora non raggiunge il piano di una compiuta consapevolezza.

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