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CORPO E CITTA’: spazialità e corporeità dei dispositivi disciplinari in occasione del G8 genovese. 15 years later – Parte II

20 Lug 16

A cura di chiclana

Segue da Parte I.
 
Dal sorvegliare al punire: un non impossibile ritorno indietro.
 
Michel Foucault[i] colloca tra il XVIII e l’inizio del XIX secolo il momento in cui «ci si è resi conto che era più efficace e redditizio, dal punto di vista dell’economia del potere, sorvegliare che punire». Con questo passaggio, scrive altrove[ii] l’intellettuale francese, «è scomparso il corpo come principale bersaglio della repressione penale». «Con la scomparsa dei supplizi» – prosegue poco oltre – «è dunque lo spettacolo a cessare; ma è anche la presa sul corpo ad allentarsi». E poco oltre ancora: «Scompare dunque, all’inizio del secolo XIX, il grande spettacolo della punizione fisica; si nasconde il corpo del suppliziato; si esclude dal castigo l’esposizione della sofferenza. Si entra nell’età della sobrietà punitiva». Quest’età, che corrisponde alla nascita della prigione come luogo e strumento prioritario dei dispositivi disciplinari, è dunque caratterizzata da due contemporanei fenomeni: l’eclissi del supplizio, praticato semmai nel segreto dei muri perché la sensibilità generale lo fa ritenere strumento poco presentabile; e la perdita graduale d’importanza da parte del corpo come “oggetto” del castigo, sostituito via via dal controllo sul tempo detenuto. Misura della gradazione delle pene non sarà quindi più l’intensità del dolore fisico inferto (il numero delle staffilate o delle bastonate), ma quello dei giorni, mesi od anni di carcerazione. Se il primo di questi fenomeni può essere considerato pressoché ubiquitario in Europa occidentale e irreversibile, lo è meno il secondo. Scrive infatti ancora Foucault: «Quanto alla presa sul corpo, anch’essa, alla metà del secolo XIX, non era stata del tutto eliminata. Senza dubbio la pena non è più centrata sul supplizio come tecnica per far soffrire, e ha preso come oggetto principale la perdita di un bene o di un diritto, ma un castigo come i lavori forzati o perfino la prigione – pura privazione della libertà – non ha mai funzionato senza un certo supplemento di punizione che concerne proprio il corpo in se stesso: razionamento alimentare, privazione sessuale, percosse, celle di isolamento (…). La pena ha difficoltà a dissociarsi da un supplemento di dolore fisico. Cosa sarebbe, un castigo incorporeo? Nei meccanismi moderni della giustizia penale, permane quindi un fondo suppliziante, un sottofondo non ancora completamente dominato, ma avvolto, in maniera sempre più ampia, da una penalità dell’incorporeo». La vicenda carceraria rimane dunque pur sempre nei fatti una vicenda di corpi, corpi ammaestrati, corpi incatenati, corpi rinchiusi, corpi spinti, corpi trattenuti, corpi che si tagliano e si affamano per diventare voce (spesso l'unica voce possibile), a volte anche corpi che picchiano e corpi picchiati. Ma sono il modello di riferimento, l'orizzonte culturale, la linea di tendenza della penalità ad essersi, con la nascita della prigione, profondamente trasformati. Resta poi fermo il fatto che, beninteso, nella prospettiva foucaltiana anche la "sorveglianza" presenta insidie per la democrazia e necessita perciò di essere dialettizzata, resa trasparente e pubblicamente regolamentata e "sorvegliata" per non diventare strumento ancora più pericoloso dell'arbitrio.
 
In occasione del G8 genovese abbiamo assistito comunque, e una molteplicità di evidenze sembra ormai documentarlo in modo inoppugnabile, a un ritorno da parte di quello che per brevità chiameremo foucaultianamente il “Potere” senza impegnarci in ulteriori definizioni – o almeno di alcune sue componenti importanti – dalla sorveglianza alla punizione, e dal controllo il più possibile incorporeo dello spazio e del tempo alla presa violenta sul corpo. Veniamo alle evidenze.
– Scarsissimi sono stati nella loro efficacia – per ammissione dello stesso prefetto De Gennaro in sede di Commissione Parlamentare – e per lo più male mirati i tanto decantati filtri alle frontiere e lungo il viaggio per Genova; sia stato cioè per cattiva volontà, o per approssimazione organizzativa, è un fatto che l’apparato di controllo si è dimostrato assai più arretrato e incapace di quanto chiunque avrebbe potuto immaginare. Dove sono finiti gli strumenti di intelligence, forse mitizzati nelle loro capacità dalla sinistra, ma certo qui rivelatisi del tutto inconsistenti? Va detto poi che la scarsa affidabilità democratica del nuovo governo agli occhi del popolo antiglobale, unitamente alla chiara volontà dimostrata di sabotare le manifestazioni per l'impossibilità di impedirle apertamente e alla tendenza, fin da quel primo momento, a far di tutta l’erba un fascio, hanno fatto sì che GSF e forze politiche di opposizione non abbiano evidentemente potuto fidarsi del tutto, e abbiano perciò contestato l'esecuzione dei controlli, trovandosi poi  nell’imbarazzo e nella contraddizione di dover denunciare la loro inefficacia.
– Totalmente errate, e abbiamo già richiamato questo punto, sembrano esser state la disposizione in campo e le strategie di intervento delle Forze dell’ordine, assolutamente inidonee a garantire, come sarebbe stato auspicabile, l’ordinato svolgimento dei cortei, difendere in modo intelligente e flessibile la Zona rossa senza dimenticare che ci si trovava di fronte a gente numerosa sì, ma inerme, e proteggere la città dai casseurs. Questo errore strategico e il conseguente sentimento di frustrazione che gli agenti impegnati sul campo, ma forse anche i loro superiori, devono aver avvertito, potrebbero forse contribuire a spiegare la violenza delle cariche, destinata a colpire duramente i pacifici senza fermare i pochi e rapidi autori di violenze, la deriva iniziale dei carabinieri che hanno dovuto contare tra di loro feriti e contusi nel primo giorno di scontri, e soprattutto lo sparo che in un clima fattosi caotico ha ucciso Carlo Giuliani.
 
Fin qui, il venir meno della sorveglianza, gli episodi di apparente incompetenza. Ma altri fatti dimostrano un arretramento, meno imputabile all'errore e più a una scelta premeditata e deliberata a qualche livello della catena decisionale, su dispositivi disciplinari più arcaici, propri di un'applicazione generalizzata e immediata della punizione (fisica).
– Le cariche di polizia potevano essere in alcuni casi indispensabili, in altri no[iii]. Obbligo di referto ci consente di cogliere concretamente il carattere di brutalità e le finalità prevalentemente punitive che spesso le hanno caratterizzate. Almeno in un'occasione in cui hanno raggiunto particolare durezza, quella di corso Gastaldi che ha avuto come evento collaterale lo sparo a Giuliani, sembrerebbero aver riguardato un corteo precedentemente autorizzato. Loro finalità avrebbe dovuto essere, comunque, sfollare, o in alcuni casi bloccare, le persone; una finalità che non spiega quindi affatto l’uso perverso, evidente in molte documentazioni fotografiche, dei vecchi manganelli (impugnati all'incontrario, o adornati con moschettoni o altre amenità), o l’adozione dei nuovi, i "tonfa", concepiti solo per fare più male, né la necessità di infierire a calci sulle persone bloccate (un alto dirigente della Questura di Genova si è particolarmente distinto in questa pratica) e il rifiuto di distinguere tra mani alzate a tirar pietre e altre alzate nel segno della pace e di una resa inerme, tra giovani e anziani, tra uomini e donne. Quando la disciplina degli spazi ha cominciato a scricchiolare, è iniziata sistematicamente, con le cariche, la rottura del rassicurante rapporto tra lo spazio e il corpo, e l'avvinghiarsi ai corpi ha raggiunto spesso la ferocia tanto che sono state centinaia le persone genericamente rastrellate e quelle ferite. Ma, fatto ancor più grave, questo evidente equivoco tra efficacia e ferocia nel controllo dell’ordine pubblico – patrimonio storico di una cultura che avevamo creduto cacciata con la Resistenza – non ha riguardato soltanto i concitati momenti dei cortei, quando potrebbe essere, in qualche misura, compreso. Nasceva purtroppo, sembrerebbe, molto prima[iv] – e prima anche del cambio di governo, il che renderebbe necessarie chiare spiegazioni dei partiti di sinistra al proprio popolo che ha avuto l'opportunità di assaggiarne i colpi – con l’inquietante acquisto dei “tonfa”, rivelatisi poi vere armi a metà strada tra sfollagente e staffile, strumenti di tortura di piazza utili non a “sfollare la gente”, ma a infliggere inutilmente ferite e dolore. Leggiamo in Obbligo di referto: "Le ferite da taglio sono state provocate dai manganelli, tutte le lesioni da manganello che abbiamo medicato in quei giorni, si presentavano come soluzioni di continuo, nette, come se fossero state inferte da dei coltelli. Nel caso della ragazza di Treviso, una di queste lacerazioni era così profonda da mostrare con facilità la teca cranica" (p. 63).
– Questa esplosione della rabbia e della ferocia è proseguita dopo, la notte di sabato, a pacificazione ormai ampiamente avvenuta, quando non contenta di avere massacrato nei cortei, ha inseguito, cosa incommensurabilmente più grave perché a quel punto disorientamento e emergenza c'entrano ben poco, i corpi ormai prigionieri con i numerosi casi di tortura denunciati a Bolzaneto – tutti dovrebbero leggere le testimonianze[v] prima di parlare di Genova – rispetto ai quali è attualmente in fase di accertamento la posizione dei medici presenti. E si è riverberata con ferocia ancora maggiore su un’esigua retroguardia del movimento pacificamente addormentata nella scuola dedicata al nome, caro agli antifascisti genovesi, di Sandro Pertini, dove dei "tonfa" si è fatto largo uso, tanto che di 90 fermati i due terzi hanno dovuto passare per i presidi ospedalieri. A questo atto gravissimo, l’avvocato genovese Alfredo Biondi, vicepresidente della Camera, si è riferito in un’intervista al principale quotidiano genovese con il termine “spedizione punitiva”.
 
Non sembra sia stata colta a sufficienza la pericolosità, per un paese democratico, della frattura, evidente soprattutto a Bolzaneto e alla scuola Pertini, tra settori delle Forze dell’ordine e la Magistratura, tra l’urgenza e generalità cioè della punizione e del suo saldo e immediato ancoraggio al corpo che animava chi ha invaso quella scuola o torturato in quella caserma, e i tempi lunghi, i doverosi distinguo in ordine al carattere individuale delle responsabilità, l'aspirazione di “civiltà” dell’eventuale castigo carcerario, che caratterizzano invece il moderno processo penale. Né è stato sufficientemente avvertito il segno di una inquietante tendenza a riportare all’immediatezza del fermo di polizia il momento definitivo della punizione, e alla corporeità concreta delle botte la certezza della sua efficacia. E quale strumento migliore, per perseguire questo duplice obiettivo, del "tonfa", sfollagente e staffile al tempo stesso, che consente fermo di polizia, arresto, processo e punizione (soprattutto!), il tutto in un sol colpo?  
 
Medicina e potere: alcune ambiguità si ripropongono.
 
Molte indiscrezioni sono trapelate sulla stampa in merito alle indagini della Magistratura relative ai molteplici episodi da chiarire nei giorni del G8 genovese; in due casi, esse riguardano il ruolo dei medici, e su di essi ci soffermeremo per svolgere, a partire appunto da ipotesi e indiscrezioni certo non ancora confermate, alcune considerazioni di ordine generale.
Nel primo caso, notizie di stampa hanno riportato che almeno uno dei servizi di Pronto Soccorso coinvolti nella gestione dell'emergenza G8 sia stato letteralmente occupato militarmente dalle Forze dell'ordine, che sarebbero giunte – sempre secondo le stesse fonti – a "sequestrare" pazienti in  reparto impedendone la visita, pretendere di affiancare l'Assistente Sanitaria nella rilevazione dei nominativi ed esercitare pressioni per accelerare la dimissione di pazienti destinati al circuito carcerario. Non è al momento possibile sapere se davvero le circostanze riportate dalla stampa corrispondano ai fatti riferiti dagli interessati. Chi ha esperienza di pratica, anche solo come consulente, nei Pronto Soccorso conosce però bene la fatica che talvolta richiede, in presenza di pattuglie particolarmente affette da protagonismo, ottenere che le Forze dell'ordine si facciano da parte e consentano il libero svolgimento dell'intervento sanitario nelle necessarie condizioni di riservatezza, anche nel semplice caso di accompagnamento di un ubriaco o di un paziente in crisi di agitazione psicomotoria. Non è perciò difficile immaginare che problemi a questo riguardo possano essersi verificati nella situazione di eccezionalità sanitaria e giuridica di quelle giornate. Ad un sanitario che voleva avvicinarsi in una particolare circostanza al proprio paziente nel reparto chirurgico del S. Martino leggiamo del resto che: "Mi veniva vietato, a parole e di fatto, in quanto non ho mai potuto avvicinarmi al paziente se non in presenza delle stesse guardie" (Obbligo di referto, p. 112). Quello che quindi ci pare di poter evidenziare con certezza è l'esistenza di un rischio grave di accorpamento del sistema sanitario genovese al dispositivo disciplinare che stringeva in quei giorni la città, che si concretizza in più punti delicati (la tutela della riservatezza del paziente in merito al proprio nome, il libero accesso alla diagnosi e alla cura, il diritto per chiunque a completarla in sede idonea). E insieme ad esso il dubbio che ben poco sia stato fatto, preventivamente, per impedire che eventi come quelli qui ipotizzati potessero aver luogo e per fare in quei giorni dei nosocomi genovesi una sorta di "zona franca" dove la prestazione di cure non si traducesse immediatamente nella schedature poliziesca del ferito e dove il medico potesse, rifacendosi esclusivamente – come il proprio codice deontologico gli impone  – a criteri sanitari, serenamente visitare, curare, dimettere i propri pazienti. Abbiamo ancora negli occhi l'immagine del Pronto Soccorso del Galliera circondato da una decina di blindati della polizia a luci accese, colto da una terrazza della circonvallazione a monte la sera della morte di Carlo Giuliani, che rimandava alla città l'immagine di un presidio sanitario militarizzato in stato di guerra. L'imponenza dell'apparato di polizia dislocato intorno agli ospedali, che acquistava per i medici più riluttanti a essere accorpati anche un evidente significato di intimidazione, suggerisce quindi che la garanzia di un contesto operativo impermeabile alle necessità e agli umori che i diversi tutori dell'ordine avrebbero potuto di momento in momento poi manifestare, non dovesse essere delegata soltanto al medico presente – che pure aveva il dovere di tutelare sul campo la salute e il diritto alla cura del proprio paziente – ma rappresentasse invece da ben prima un obiettivo per tutti i democratici, al quale avrebbero dovuto concorrere sul versante istituzionale, con una precisa contrattazione con Prefettura e Questura, il Sindaco come massima autorità sanitaria cittadina, i responsabili politici e amministrativi delle strutture sanitarie coinvolte e l'Ordine dei Medici. E ancora Obbligo di referto ci offre a questo proposito, nelle primissime pagine, due documenti: la lettera datata 6 luglio nella quale il GSF ha fatto presenti a Regione e Prefettura questi problemi, e in particolare quello che il soccorso sanitario non diventasse occasione di identificazione personale da parte delle Forze dell'ordine; e la risposta datata 17 luglio da parte della Regione, nella quale la volontà di fornire una risposta a coté per non cogliere questo punto delicato, e certo di non facile soluzione, e quella di non offrire risposte né positive né negative in proposito appaiono in tutta evidenza.
 
Ancora più delicata di quella dei colleghi dei Pronto Soccorso appare la posizione dei medici penitenziari operanti a Bolzaneto, che sarebbero, sempre secondo notizie di stampa, stati chiamati in causa in merito alla partecipazione ad atti di tortura fisica o morale verso manifestanti già in stato di fermo. Anche a questo proposito, senza entrare in fatti che non possiamo conoscere in modo preciso, ci limitiamo a prendere spunto per considerazioni di ordine generale. Quella della complicità dei medici in atti di tortura – alla quale medici maggiormente isolati culturalmente e logisticamente dalla maggioranza dei colleghi come sono purtroppo i medici carcerari sono evidentemente più esposti – rappresenta una delle pagine più vergognose nella storia della nostra categoria, una pagina che sarebbe ben auspicabile, ma non è affatto ancora stato possibile, consegnare a un passato rozzo ed incivile[vi]. E' del 1975 la dichiarazione redatta dall'Associazione Medica Mondiale a Tokyo per sancire che «il medico non autorizzerà, tollererà o parteciperà alla pratica della tortura […], non metterà a disposizione alcun locale, strumento, sostanza o conoscenza […], non presenzierà ad alcun procedimento durante il quale la tortura od altre forme di trattamento crudele, inumano o degradante vengano impiegate o minacciate […]». Nel 1986 questi principi sono stati ribaditi a Copenhagen, dove si raccomanda tra l’altro che le associazioni mediche nazionali incorporino la dichiarazione di Tokyo nei loro statuti; che siano effettuati sforzi perché i contratti di lavoro dei medici non  possano mai contenere norme che li costringano ad agire in senso contrario alla tradizione dell’etica medica; che si pervenga a un network informativo internazionale riguardante le violazioni dei diritti umani perpetuate dai medici; che questi temi siano introdotti negli iter formativi dei medici e degli altri professionisti sanitari; che un supporto internazionale sia garantito ai colleghi che si sottraggono a pressioni a contribuire a violazioni dei diritti umani; che siano promosse iniziative di ricerca sulla tortura; che si persegua la cooperazione internazionale medico-giudiziaria contro la tortura. Quanto all'Italia, già il Codice di deontologia medica redatto dalla Federazione nazionale degli Ordini dei medici nel 1978 affronta questo tema riecheggiando le parole della dichiarazione di Tokyo, soprattutto al capo VI, Obblighi verso i pazienti reclusi, che recita all'art. 48: «Il medico che operi in Istituti in cui il paziente sia soggetto a vincoli di legge […] ha l'obbligo di rispettare sempre l'interesse del malato, l'integrità della sua persona e le norme del codice deontologico. Il sanitario ha l'obbligo di impedire, nei limiti del possibile, o di denunciare ogni atto lesivo per la personalità e la salute fisica e psichica dei pazienti a lui affidati». E, ancora più specificamente, all'art. 49: «Il medico non deve in nessun caso dare il proprio consenso, compiere o partecipare ad atti di tortura o ad altre forme di trattamento crudele, disumano e degradante […] e ciò in qualsiasi circostanza ed in particolare in caso di guerra e di conflitto civile».
A questi principi speriamo che tutti i colleghi operanti nell'occasione non abbiano mancato di  attenersi nel momento in cui la città viveva uno dei momenti più drammatici della sua storia recente; se le cose stessero diversamente, ciò getterebbe un'ombra pesante sull'onorabilità di tutti i medici genovesi e richiederebbe risposte inequivocabili dai loro organi disciplinari. Del tutto condivisibile quindi la posizione del presidente dell'Amapi Ceraolo[vii], che ha chiesto ai colleghi coinvolti di autosospendere l'attività di sanità penitenziaria fino al chiarimento della loro posizione.

Nel video allegato: Giampiero Alloisio, Canzone per Carlo
 
Segue parte III.

 

[i] M. Foucault (1975), Conversazioni sulla prigione: il libro e il suo metodo, in: Microfisica del potere, Torino, Einaudi, 1977, p. 120.
[ii] M. Foucault (1975), Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 1976, pp. 10, 12, 17, 18-19.
[iii] Per una testimonianza diretta di alcune cariche della polizia cfr. G. Chiesa, G8/Genova, Torino, Einaudi, 2001.
[iv] Si vedano a proposito dell'inquadramento storico e internazionale dell'azione della polizia italiana nei giorni del G8: S. Palidda, L'ordine regna a Genova, Le monde diplomatique ed. it., 8, 2001, 10, p. 11 e D. Della Porta e H. Reiter,  Protesta noglobal e ordine pubblico, Il mulino, 50, 397, 2001, pp. 871-882.
[v] Buone antologie sono disponibili ad esempio nel numero speciale dedicato da Diario ai fatti di Genova, ma anche nelle pagine dei maggiori quotidiani locali, nazionali e persino internazionali di quei giorni. Per una rapida ma efficace sintesi sui fatti genovesi segnaliamo poi il contributo locale: R. Bisso, C. Marradi, Le quattro giornate di Genova. 19-22 luglio 2001, Genova, Frat.lli Frilli Ed., 2001, oltre alle varie fonti citate nel testo e ai recenti: La battaglia di Genova, Malatempora, 2001; C. De Gregorio, Non lavate questo sangue. I giorni di Genova, Bari, Laterza 2001; A. Dal Lago, S. Mezzadra, Il movimento globale, Il mulino, 50, 397, 2001, pp. 850-860.
[vi] P.F. Peloso, Medicina e tortura. Considerazioni storiche ed etiche, Studium, 4, 1991, pp. 541-560.
[vii] “Il Secolo XIX”, 28 agosto 2001.

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