J. Lacan,
Il tempo logico e l’asserzione di certezza anticipata. Un nuovo sofisma, 1945
Il collettivo del Milan fa (faceva) molti gol.
Non è in questo senso che intendo affrontare la questione. Mi chiedo, invece, quali siano i fattori, se esistono, che trasformano un generico insieme di persone in un sistema individuabile e riconoscibile come tale con precise funzioni in ambito sociale. Cosa fa di un collettivo un collettivo? I collettivi sono forse fenomeni spontanei, che insorgono per caso come le mutazioni genetiche o le specie biologiche e si mantengono solo perché ex post si dimostrano evolutivamente vantaggiosi? O si dà ex ante una loro genesi ben precisa?
Pur non avendola formulata così, dando per scontata l’esistenza di una causa “collettivizzante”, Freud ha tentato di rispondere alla questione nel saggio del 1921, intitolato Psicologia delle masse e analisi dell’Io (in Sigmund Freud gesammelte Werke, vol. XIII, p. 73). La risposta di Freud è scadente, ungenügend, insufficiente. Come tutti i fenomeni psichici, anche il collettivo deve avere, secondo Freud, una causa ben precisa: infatti, è il prodotto dall’identificazione al Führer, sostiene Freud, prendendo a modello di massa la Chiesa e l’esercito. L’individuo diventa membro di un collettivo – di una massa in senso freudiano – identificandosi al leader, al top della gerarchia di governo. Cosa vuol dire “identificandosi”? Vuol dire, spiega Freud, che ogni individuo pone l’oggetto “esterno” d’amore – nel caso il concreto leader, ma anche l’astratto ideale di gruppo – al posto dell’ideale dell’Io, cioè in quel luogo “interno” al soggetto da cui l’Io è governato e che pertanto sarà il luogo in cui si insedierà il Super-Io, il legislatore morale del soggetto. L’analisi di Freud è idealistica, perciò prescientifica; in epoca scientifica si dimostra insufficiente.
Non dico che la teoria freudiana sia falsa, dico che è scadente, proprio perché idealistica (presuppone un ideale dell’Io) e eziologica… per partito preso. Mi chiedo, allora: è proprio vero che, posto il leader nell’ideale dell’Io, si produce un collettivo? Sembra di sì, ma attenzione alle apparenze! Il Milan di Sacchi, identificato al patron Berlusconi, era un collettivo che segnava molti gol, quando Berlusconi era in auge. Decadendo Berlusconi e con lui la sua identificazione, anche il Milan è decaduto a un livello che i cinesi hanno trovato conveniente comprare per la modica cifra di 750 milioni di euro. Ma non è tutta la storia. È vero che un collettivo si può identificare al leader, ma prima occorre che sia diventato collettivo, cioè un soggetto (non esistono soggetti non identificati).
Perché è scadente, allora, la teoria di Freud? Fondamentalmente perché riduce la psicologia sociale all’individuale. Non esiste altro soggetto che individuale, secondo Hans Kelsen, tesi che Freud ammette con riserva (v. cit. cap. 3, in Sigmund Freud gesammelte Werke, vol. XIII, p. 94n). Sia il giurista sia il medico lavorano con soggetti individuali e non c’è nulla da eccepire. Quel che fanno nel loro ambito, per individuare responsabilità giuridiche o psicopatologiche, è ben fatto. (Anche se non sempre in concordanza di intenti: si pensi all’attuale legge italiana sulle vaccinazioni e alle abnormi reazioni individualistiche che ha scatenato). Il punto è che c’è un altro ambito, che non si riduce all’individuale, rispetto al quale gli sforzi teorici del giurista e del medico, non dico che falliscono, ma non colgono il punto. Non hanno sensibilità per cogliere l’anima collettiva, nei cui confronti si pongono con indifferenza, per non dire con atteggiamento autistico. Né Freud né Kelsen sono in grado di giustificare fenomeni collettivi come la musica e la danza. Seguire il tempo musicale in un concerto o in una sala da ballo è una prestazione estetica sociale e socializzante, che il riduzionismo dell’identificazione individualista non spiega. (Si sa che Freud era duro d’orecchio.)
E fosse solo un fallimento teorico! La psicologia sociale individualista, che si fonda sul rapporto immaginario diretto tra individuo e leader, con esclusione di rapporti interindividuali, porta in pratica a formazioni sociali populiste, cioè al fallimento di ogni contratto (contatto) sociale. Il populismo, infatti, è la matrice di tutti i fascismi e di tutti i regionalismi, i primi basati sul Padre di tutti, i secondi sulla Madre di tutti; i primi generano patrioti, i secondi “matrioti”, secondo il bel gioco di parole inventato da Francesco Merlo. I populismi non fanno soggetti collettivi. Non sono democratici, perché non tengono conto dell’altro come altro, diverso anche quando è simile. Non sono solo xenofobi; non sviluppano rapporti neppure con il proprio simile all’interno della stessa massa, i populismi. Non esistono interazioni interindividuali nel populismo. Quindi non c’è soggetto collettivo populista. Il populismo fa solo massa, giusta la terminologia di Freud. Nato dalla psicologia individualista, il populismo cancella le differenze individuali. Il populismo, insomma, è una miseria psicologica.
Ripeto la domanda per chi non è né giurista né medico: cosa fa il collettivo?
Questa è la domanda che si pone il sociologo. Un sociologo alla Niklas Luhman risponde in termini sistemici. Un collettivo è un sistema. È il sistema che fa il collettivo. Cos’è un sistema? Un sistema è un insieme di parti in interazione reciproca (positiva o negativa) e con le parti che non appartengono al sistema, le quali formano il suo ambiente.
Mi soffermo su questa definizione semplificata di sistema perché vi ricorre un termine che fu tabù per Freud e lo è tuttora per molti post-freudiani: interazione. Freud non amava sentire parlare di interazioni, forse perché il concetto esulava dalla propria formazione medica. Era scientificamente troppo hard, quindi poco adatto a una scienza soft come la psicoanalisi. Nei suoi scritti il termine scientifico Interaktion non compare (e neppure nell’ottimo dizionario medico tedesco-italiano di Marcovecchio); Wechselwirkung ricorre cinque volte, una volta a indicare l’azione reciproca tra anima e corpo, altre volte per indicare gli effetti combinati di organi corporei. Più frequente l’uso di Zusammenwirken, a indicare la cooperazione tra fattori, nel senso di concause che concorrono a determinare un unico effetto.
Non si tratta di un’idiosincrasia particolare di Freud. È una peculiarità del pensiero filosofico. È caratteristico dell’impianto di pensiero idealistico (platonico) non concepire interazioni. L’idealismo pensa per essenze, le quali sono in sé e per sé; non interferiscono con altre essenze, che inquinerebbero la loro essenzialità. Allora, pensando per essenze, Freud concepisce l’essenza della massa come assenza di interazioni e come pura identificazione dei singoli individui al leader. Trascura le interazioni tra gli individui stessi, che rimangono isolati, addirittura estranei al loro collettivo, essendo estranei gli uni agli altri. In sostanza la deficienza e l’inefficienza, non solo clinica ma anche politica, del pensiero di Freud sta nel suo essenzialismo platonizzante.
Invece il pensiero meccanicistico, cioè scientifico, non parte dall’alto delle essenze, codificate da idee metafisiche; parte dal basso delle interazioni locali. Dai tempi di Democrito il pensiero meccanicistico presuppone particelle elementari, per esempio gli atomi, in moto e tra loro interagenti. Per esempio, secondo Lucrezio, gli atomi sono dotati di un clinamen, di una deviazione dal parallelismo dei moti (oggi in matematica si parlerebbe di deviazione dalla linearità), che li porta a urtarsi, componendo e decomponendo aggregati più ampi. La deviazione dalla linearità è la definizione formale di interazione. In tempi più vicini a noi il terzo postulato della meccanica di Newton, regola le interazioni meccaniche presupponendo la simmetria delle forze in gioco tra parti interagenti (Per ogni forza che un corpo A esercita su di un altro corpo B, ne esiste istantaneamente un’altra uguale in modulo e direzione, ma opposta in verso, causata dal corpo B sul corpo A). Il terzo postulato fa da pendant al primo, che presuppone un tipico fenomeno senza causa: il moto inerziale in assenza di interazioni (o interazione nulla).
Luhmann spinge il meccanicismo interattivo ancora più a fondo nel caso dei sistemi sociali, i quali si “interpenetrano” tra loro, nel senso che ognuno offre sé stesso come ambiente in cui il secondo sistema può esercitare le proprie influenze sul primo. L’operazione può coinvolgere più coppie di sistemi-ambiente, che si interpenetrano tra loro formando complesse reti interattive. Qualche anno fa si è cominciato a parlare di globalizzazione. Era sin da allora chiara la caratteristica multipolare e sincronizzata del fenomeno collettivo, dove perde addirittura senso la distinzione tra individuale e collettivo, talmente le due dimensioni si interpenetrano. (Un tratto della vita pulsionale che però non sfuggì a Freud).
Come applicare questo approccio meccanicistico alla psicoanalisi? Risponde un analista che non si era posto la questione e forse proprio per questo il suo approccio merita attenzione, non essendo predeterminato da preconcetti ideologici ma guidato solo dal suo naso fino. Mi riferisco a Lacan, homo emunctae naris, avrebbe detto Orazio.
Il dilemma dei tre prigionieri è un rompicapo matematico, che Lacan tratta come sofisma, perché usa una logica più retorica che matematica (di ispirazione idealistica). A loro insaputa tre prigionieri portano sulle spalle un disco bianco; sanno solo che in partenza i dischi sono cinque: tre bianchi e due neri. Il loro compito è riconoscere con pure considerazioni logiche di che colore è il disco di cui sono portatori, senza comunicarsi esplicitamente informazioni. Chi ci riesce sarà libero, promette il direttore della prigione.
Il valore del rompicapo è duplice. Propone un modello di interazione sociale che inaugura al tempo stesso due logiche: una logica epistemica, articolata lungo il tempo di sapere, e una logica collettiva, basata sul legame sociale tra i componenti individuali, cioè sulle loro interazioni, che sono scambi di informazioni. La doppia valenza del rompicapo ci permetterà di rispondere alla domanda di partenza: cosa fa un collettivo? La risposta va oltre la “deduzione” lacaniana, che sfocia nella tripartizione fenomenologica del tempo di sapere in momento di vedere, tempo per comprendere e momento di concludere.
Tutto comincia nell’incertezza: ognuno dei tre prigionieri vede solo dischi bianchi. L’incertezza è la base epistemica comune del futuro collettivo. Come fare a decidere? La partenza è quella caratteristica del soggetto della scienza, immerso nell’incertezza tipica del soggetto cartesiano.
Lacan scotomizza il punto, parlando di certezza anticipata (come farebbe il filosofo idealista). Non c’è nessuna certezza anticipata, se si esclude che, proponendo tale compito ai tre prigionieri e promettendo la libertà a chi lo porta a termine, molto probabilmente, per non perdere la faccia, il direttore della prigione conosce già la soluzione del problema. Questa è l’unica certezza anticipata, ma in sé aleatoria.
Il punto di partenza dell’incertezza è dunque una certezza attuale: la certezza dell’incertezza non è un’antinomia; è la base di un procedimento logico ricorsivo che alimenta sé stesso. Se nessuno ha la soluzione, vuol dire che tutti sono certamente nello stato epistemico dell’incertezza. Allora ognuno può argomentare: “Se fossi bianco, dall’incertezza non usciremmo mai né io né gli altri”. Tanto vale, allora, scartare questa ipotesi, che non porta fuori dallo status quo e non guadagna nessuna conclusione (sarebbe unabschliessbar, “interminabile” o “inconcludente”, come dice Freud in Analisi finita e infinita, 1937, Sigmund Freud gesammelte Werke, vol. XVI, p. 64), e passare all’ipotesi complementare, cioè alla sua negazione. “Se fossi nero…”.
In quest’ottica le cose cambiano. “Se fossi nero, uno degli altri due potrebbe argomentare come me: ‘Se fossi nero, il terzo potrebbe vedere due neri e concludere di essere bianco’. Ma vedo che il terzo non conclude, quindi dalla sua incertezza, deduco che non sono nero” (per modus tollendo tollens, il principio base della confutazione scientifica, secondo Popper). La congettura “se fossi nero…” si dimostra così scientifica, cioè collettivamente confutabile. Infatti questo ragionamento è alla portata di tutti, tutti arrivano necessariamente a formularlo, e tutti democraticamente guadagnano insieme e sincronicamente la libertà, dimostrando di essere bianchi. Quando la diacronia diventa sincronia, all’orizzonte sorge la democrazia, sotto forma di giudizio, che è anche presa d’atto dell’individuo sul collettivo. (Il giudizio come atto della libera volontà è un’acquisizione cartesiana). Logicamente parlando, il giudizio è la conclusione di un procedimento ricorsivo autoreferenziale, dove l’autòs include l’éteros.
“Insieme e sincronicamente” suggerisce allora un primo abbozzo di risposta alla domanda iniziale: cosa fa il collettivo? Rispondo: è il sapere a fare il collettivo. Si tratta di un sapere diffuso, inizialmente formattato nella versione del non sapere, cioè nel formato dell’incertezza (dell’ignoranza), che può evolvere verso il sapere (o verso una minore ignoranza). C’è collettivo là dove gioca un sapere esteso (la res extensa cartesiana che gioca sulla cogitans), che trasforma l’insieme destrutturato in un collettivo epistemico di elementi tra loro interagenti a suon di congetture inserite in altre congetture (logica ricorsiva). Il sapere congetturale è l’anima che dà vita al collettivo. Il sapere del collettivo fa parte di quel “sapere nel reale”, di cui scriveva Lacan nella Lettera agli italiani dell’aprile 1974.
Attenzione, però: ho detto sapere congetturale, perché non è un sapere enciclopedico e statico; è un sapere dinamico che si comunica da un soggetto all’altro – l’interazione è epistemica – e comunicandosi si trasforma. L’incertezza dell’altro, che io gli ho comunicato, se non conclude, si comunica di ritorno a me, che posso concludere con certezza. È questa la natura del legame sociale epistemico: il mio non sapere diventa il tuo non sapere, che a sua volta torna a me come mio sapere.
Attenzione ancora: il sapere congetturale non è un dato istantaneo e immediato; il processo epistemico di confutazione della congettura (“sono nero”) si svolge nel tempo, che è logico prima he cronologico. La mia incertezza passa a te (prima transizione) e torna me come certezza (seconda transizione). Per questi passaggi (interazioni) occorre tempo. Siamo in un ambito di logica epistemica molto diversa dalla logica classica, dove l’acquisizione della verità è immediata. In questa logica epistemica gioca il tempo di sapere attraverso il sapere dell’altro (o attraverso il non sapere che socraticamente gli equivale). Siamo nei pressi della logica intuizionista, dove la verità della negazione (“non sono bianco”) passa attraverso alcuni differenti stati epistemici (qui 2, il mio e quello dell’altro; in generale n-1, se i soggetti del collettivo sono n), prima che il suo valore di verità possa essere determinato. Nel 1965 Kripke propose per la logica intuizionista una semantica riflessiva e transitiva (un ordinamento parziale) con un numero infinito di stati epistemici (teorema di Gödel, 1933), dove la verità della negazione non dipende solo dallo stato epistemico in cui si formula, ma da tutti quelli a valle. Nell’intuizionismo non A è vero non solo se qui e ora non si verifica A, ma anche domani, posdomani, ecc.
Lacan non conosceva Kripke. Si è arrangiato come meglio poteva con Hegel. Il risultato non è stato disprezzabile, tanto più che si adatta bene a due assiomi esistenziali della metapsicologia freudiana: l’esistenza della rimozione originaria e della Nachträglichkeit o l’acquisizione differita del sapere.
La rimozione originaria, per cui esistono rappresentazioni che non saliranno mai alla coscienza, è la fonte primaria della nostra incertezza. Non occorre presupporre mitiche fissazioni a qualche antica posizione libidica o a qualche trauma originario, come propose Freud nel saggio sull’Analisi finita e infinita (1937, in Sigmund Freud gesammelte Werke, vol. XVI, p. 59, ma v. anche il saggio metapsicologico del 1915 sulla Rimozione, in Sigmund Freud gesammelte Werke, vol. X, p. 250). È la semplice conseguenza dell’esistenza dell’infinito. In questo modello la rappresentazione contenuta nello stato di sapere infinitesimo non arriverà mai alla coscienza in un tempo finito. Siamo ignoranti difronte al nostro stesso inconscio, ammesso che l’inconscio sia una struttura infinita, come sarebbe un albero infinito di alternative binarie (vero, falso), che si aprono a cascata l’una dopo l’altra. Ma se elaboriamo la nostra ignoranza, passando attraverso l’altro (posto in posizione di oggetto), possiamo après coup guadagnare, un po’ di sapere dopo un periodo di tempo opportuno.
Provare per credere. Si chiama psicoanalisi. Freud l’ha inventata in pratica, nella sua clinica, e questa resta un guadagno per sempre (ktéma es aei), nonostante ne abbia fatto una teoria scadente, che si può migliorare di molto, per esempio alleggerendo l’assetto eziologico. Magari passando per l’intuizionismo che sospende il principio del terzo escluso e introduce l’infinitezza della semantica. (Più approfondite considerazioni nel mio libro: Il tempo di sapere. Saggio sull’inconscio freudiano, Mimesis, Milano 2012).
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