Gli spiriti mediocri esigono dalla scienza un genere di certezza che essa non può dare, una specie di soddisfazione religiosa. Solamente le reali e vere menti scientifiche sanno sopportare il dubbio, inseparabile da tutte le nostre conoscenze. Lettera di Freud a Marie Bonaparte (data?)
Cos’è un caso clinico?
È la ricostruzione storica dell’evoluzione di un evento morboso in un soggetto. In quanto “storico”, il caso clinico è una narrazione che fa inevitabilmente uso del principio di ragion sufficiente; presuppone cause morbose che producono effetti patogeni e narra la genesi del caso in base a una ragione non sempre ragionevolmente documentata.
Senza intenti polemici questo scritto critica lo sfruttamento dei casi clinici a scopo di conferma di qualche dottrina più o meno convalidata all’interno di una scuola, nell’ipotesi che esista un significato fondamentale della teoria cui l’empiria dovrebbe corrispondere. In generale qui si parla contro il confirmation bias delle fake news, che si è diffuso su tutta la rete informatica mondiale, ben oltre il ristretto ambito delle scuole di psicanalisi. L’imputato principale della mia critica è proprio l’applicazione incauta del principio di ragion sufficiente, che da norma empirica su “come conviene pensare” in un contesto professionale, regolato da una disciplina convenzionale, diventa condizione formale del pensiero.
Il punto epistemologico è acquisito: le conferme non confermano le teorie scientifiche, che rimangono congetturali fino alla prova contraria che le fa decadere. Questa peculiarità della pratica scientifica dipende dalla sua logica, orientata più a escludere che a includere; a differenza dalla scienza antica, la moderna (galileiana) mira a escludere ciò che non è scientifico piuttosto che a includere ciò che è scientifico. Lo scetticismo scientifico, erede del dubbio cartesiano, considera ogni tesi, anche la più accreditata, come ipotesi da confutare e ogni ipotesi, anche la più strana, come possibile tesi, suscettibile di verifica e sviluppi.[1] Per esempio, la teoria generale della relatività resta una bella – anzi bellissima – congettura, nonostante sia stata mirabilmente confermata (sarebbe più esatto dire “corroborata” per l’ennesima volta) dalla registrazione delle onde gravitazionali, previste da un secolo. Contro ogni probabilità potrebbe essere presto confutata. Le conferme empiriche non confermano la teoria ma prolungano l’attesa della confutazione; se non a domani, la rimandano a dopodomani. 3+5 = 8 non conferma la congettura di Goldbach dei numeri pari maggiori di 2 somma di due primi; sposta la confutazione oltre i primi quattro pari.
Mi si consenta un banale aneddoto autobiografico, prima di affrontare considerazioni più astratte. Fresco di laurea in medicina, ero responsabile dell’archivio dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, diretto dal professor Pietro Bucalossi, allora sindaco di Milano. Ricorderò sempre la lezione metodologica, impartitami da Umberto Veronesi, che aveva lo studio accanto all’archivio. Il grande chirurgo mi raccomandava di non prendere mai troppo sul serio le statistiche basate sui casi clinici d’archivio, perché il materiale, selezionato in modo sconosciuto, era quasi sempre a favore della tesi da dimostrare. Solo molto tempo dopo ho capito che quella tesi era regolarmente suggerita dagli stessi dati usati per confermarla: la conferma era in realtà una petizione di principio.
Il polarizzarsi delle fake news sul web nasce dallo stesso principio. Più una notizia è confermata più si conferma, a scapito della verità; il feed-back positivo della conferma genera la cosiddetta post-verità con modalità coatte. L’autentico empirismo richiede controlli più sciolti e meno autoreferenziali. Qui voglio approfondire l’insegnamento di Veronesi.
E vengo ai casi di psicanalisi, in particolare freudiani. Lì la selezione è meno nascosta e la fallacia confermativa, corrispondente al confirmation bias delle echo chambers sul web, dovrebbe essere più evidente. I casi clinici freudiani sono selezionati per confermare alcuni pregiudizi metapsicologici, tipicamente edipici. Freud mira a confermare i propri pregiudizi eziologici. L’eziologia stessa è di per sé un pregiudizio, dovuto all’abitudine di vedere associati due eventi; lo mostrò David Hume in pieno XVIII secolo. “Nei singoli casi dell’operare dei corpi non riusciamo mai, pur spingendo la nostra ricerca all’estremo, a scoprire altro che un evento seguito da un altro evento, senza riuscire a comprendere la forza o il potere per cui la causa agisca né la connessione fra la causa e il suo supposto effetto.”[2] Ludwig Wittgenstein non usò mezzi termini: “Credere al nesso causale è superstizione”.[3] Con ciò decade il valore epistemico del caso clinico che si basa sui nessi causa-effetto? Forse non del tutto; forse resta uno spiraglio di verità anche lì.
Superstizione a parte, va detto che nessun apparato psichico ammette di buon grado la decadenza del principio di ragion sufficiente, perché da una parte conferisce parvenza di scientificità, ancorché fallace, alle elucubrazioni genealogiche, quali sono le eziologie e le psico-patogenesi, e dall’altra offre a due interlocutori la “presunzione acritica di comprensione reciproca”.[4] Da più di due millenni l’aristotelico scire per causas regola tuttora il funzionamento della vita psichica di noi occidentali e la genesi delle nostre ideologie individuali e collettive: i nostri modi di pensare e di lavorare, cioè di interagire collettivamente. Senza l’ausilio di qualcosa di simile al principio di ragion sufficiente, non arriveremmo a congetturare ciò che il nostro simile pensa, dedotto dal suo comportamento. Ipotizzando che il desiderio dell’uomo sia desiderio dell’altro, anche Lacan fa uso implicito del principio di ragion sufficiente: il desiderio dell’uomo è causato dal desiderio dell’altro.[5]
Detto in soldoni, la fallacia è sempre quella: siccome se piove è bagnato per terra, prendo il caso della terra bagnata come prova che ha piovuto. Hai voluto uccidere tuo padre e giacere con tua madre? Allora hai il complesso di Edipo. Semplice, no? È la logica perversa del confirmation bias, la stessa che anima la campagna antiwax.
Per dimostrare la funzione del principio di ragion sufficiente nella costruzione del caso clinico analitico, utilizzo un famoso caso, riferito dallo stesso Freud, noto come Rattenmann, l’Uomo dei ratti. Cosa voleva confermare Freud prendendo appunti su quel caso? Freud aveva una posizione epistemologica debole: credeva di essere empirista perché, come molti suoi epigoni, era convinto che l’empiria producesse e confermasse la teoria.[6] Pensava che bastasse narrare le cose come stanno per fare teoria. (Mai fidarsi delle narrazioni! Ogni giudice sa bene quanto siano inattendibili i racconti dei testimoni. Rashomon ne fece un film.)
Invece, se sono scientifiche, le teorie si possono verificare (cioè non escludere) ma non confermare con osservazioni empiriche. Il dato empirico può al massimo solo confutare una teoria in base alla logica del modus tollens: se A implica B e se non B, allora non A.[7] Nel caso della pioggia, la congettura “ha piovuto” non è confermata dalla terra bagnata; è solo confutabile. Se piove, è bagnato per terra, ma se non è bagnato, allora vuol dire che non ha piovuto. Fino alla smentita, ogni teoria scientifica rimane congetturale, cioè confutabile; l’empiria non la verifica mai una volta per tutte. Da questa incertezza non si scappa.
“Dalla somma delle disposizioni del bambino nasce l’uomo moralmente responsabile solo nel corso dello sviluppo”, scrive Freud. “Il paziente mette però in dubbio questa origine di tutti i suoi cattivi pensieri, ma io gli prometto che la cura gliela dimostrerà in ogni singolo caso”.[8]
Ecco il punto: Freud vuole “convincere” il proprio analizzante che la cura analitica ha un potere predittivo (o previsionale o prognostico).[9] Se predice il vero, allora è vera, o no? Dopo tutto la legge dei gas è considerata vera perché prevede che scaldandolo un gas aumenta di volume e raffreddandolo diminuisce, come effettivamente accade. Certo, ma la sua verità non dipende dal risultato dell’esperimento, bensì dalla bontà del modello meccanico (astratto!) su cui si basa il fenomeno.
Nella seduta dell’11 ottobre 1907 Freud cerca di dimostrare che la cura attinge “il senso originario del rimosso”.[10] Siamo sempre nell’ambito della predizione: se la cura predice come i fatti si svolgeranno in futuro o ricostruisce come si sono svolti in passato, allora è vera. Freud trascura che anche una monetina può predire l’uscita del prossimo lancio … nel 50% dei casi. (Non c’è traccia di argomentazioni probabilistiche in Freud, che non aveva familiarità con la scommessa di Pascal.[11])
L’ingenuità di Freud, che ragionava da medico, è seducente ma pericolosa; è seducente per la certezza che promette all’operare clinico, ma è pericolosa perché accanto alla medica cela una radice paranoica. Il paranoico vede il proprio delirio confermato da tutto e confutato da nulla. Perciò, prima che falso, il delirio paranoico è incontrovertibile.[12] Ma la paranoia non abita in casa Galilei, il quale procedeva per “sensate esperienze e dimostrazioni necessarie”;[13] il grande Pisano era indifferente alle conferme; in un certo senso era come l’isterico che, sapendo falso l’amore dell’altro, è indifferente alle sue manifestazioni affettive. L’alternativa radicale è tra conferma e confutazione, tra scienza e paranoia. Non si può fare scienza in modo paranoico basandosi su conferme. Quando nella lettera del 6 ottobre 1910 scriveva a Ferenczi di essere “riuscito là dove il paranoico fallisce”, Freud diceva più di mezza verità, perché la sua teoria si basava su conferme affini alle paranoiche.
Questa epistemologia è chiara e distinta, pur invisa al buon senso. Bisogna rassegnarsi che i casi clinici non confermino la teoria, come il senso comune auspica. Allora a cosa servono le conferme in psicanalisi? Servono – e molto! – perché, una volta esibite, creano consenso sociale a favore della teoria, cioè del suo autore, quindi rinforzano il legame sociale attorno al maestro. I casi clinici hanno una giustificazione pratica extra-scientifica, direi politica, all’interno del collettivo di pensiero psicanalitico, strutturato come una scuola. Freud scriveva casi clinici per creare accordo intorno a sé nel gruppo che dirigeva; cercava di farsi amare, anche esponendo i propri errori. Quasi per dire: “Fate come faccio io e farete bene, anche se talvolta sbaglio anch’io, non meno di voi”. Una perfetta trappola ipnotica acchiappa-consensi, che utilizzava addirittura la confutazione a proprio vantaggio. Apprezzo che Lacan non abbia usato questo poco raccomandabile trucco per creare legame sociale attorno al proprio insegnamento psicanalitico. (Usò altri trucchi, altre manipolazioni dei transfert non meno subdole).
Qui sta la difficoltà a far transitare la psicanalisi dalla dottrina alla scienza, dall’ipse dixit al controllo collettivo. La psicanalisi si diffonde – si “trasmette”, amano dire i lacaniani – per identificazione ai maestri che la insegnano ex cathedra. Identificarsi al maestro è per l’allievo un transfert di conferma: “Io sono come lui, perché faccio il suo stesso discorso, quindi sono autorizzato a pensare come lui”. Troppo facile. La scienza è più esigente perché non si basa su conferme immediate o su identificazioni al guru del momento, ma su laboriose confutazioni e spericolate innovazioni, entrambe improbabili in regime di ortodossia, che applica in modo catechistico i dogmi magistrali. Poco o nulla del tradizionale processo di trasmissione della psicanalisi o della formazione degli psicanalisti – dalle analisi didattiche dei freudiani alla passe dei lacaniani (parlo come chi ha eseguito un percorso di passe all’EFP) – ha a che fare con la scientificità galileiana. Non dimentichiamo che Freud non leggeva Galilei; gli preferiva Leonardo. Misconosceva la consistenza collettiva dell’impresa scientifica; le anteponeva la prestazione (Leistung) individuale, in primis la sua.
Allora in una scuola di psicanalisi si continua a elucubrare su casi clinici, piegandoli a svariate interpretazioni, per consolidare la dottrina ufficiale; si pesta acqua nel mortaio. Intanto si fa scuola contro altre scuole, ma non si fa scienza. A suon di conferme la verità diventa un fatto di appartenenza a una tribù. In questo senso, è giustificato parlare di abuso dei casi clinici in una rubrica sul soggetto collettivo, essendo la “coazione alla conferma” un sintomo squisitamente collettivo. (Da qui la difficoltà a estirparlo). Risponde, infatti, alla necessità collettiva di confermare le verità del gruppo – della tribù – in modo semplice, sicuro e alla portata di tutti, che al tempo stesso cementi con certezze convenzionali e di comodo il legame sociale tra indigeni. Il confirm bias è attivamente perseguito. Cercare di smantellarlo porta a rinforzarlo.[14]
Verificare la teoria con un caso ad hoc è più semplice di scoprire il caso stesso; verificare (überprüfen) che x0 risolve l’equazione f(x) = 0 è molto più facile che risolverla. Allora si può tranquillamente continuare a sfruttare i casi clinici a conferma della teoria; la conferma vale da esercizio scolastico ed è promossa come allenamento all’ortodossia. I cartelli e i gruppi di studio non hanno molto a che fare con lo studio; sono rassicuranti dispositivi che placano la sete popolare di verità a buon mercato, poco importa se ideologiche. Vulgus vult decipi, ergo decipiamur. È latino ma è chiaro: il popolo è animato da una forte volontà di ignoranza. Lo sanno bene gli arruffapopoli populisti dei nostri giorni, simmetricamente animati da una forte volontà di potenza. La scienza, invece, è congetturale; non vende certezze categoriche; non liscia il pelo al popolo, che da chi lo governa o da chi lo istruisce pretende certezze poche, maledette e subito, non importa se false. La psicanalisi non fa eccezione.
Rimane un problema aperto che in parte sfugge alla presa del discorso appena fatto. Cosa succede se il caso clinico è falso? Il falso può ancora falsificare? Parrebbe di no; era l’opinione di Platone, ma non è così semplice. In realtà, in caso di falsità succede di tutto e di più: succede qualcosa di reale. Nella rete informatica succede che il falso conferma il falso. In psicanalisi il caso emblematico, tuttora da sviscerare, fu proprio quello personale di Sigmund Freud. Che credeva di avere un cancro orale (im Mund). Lo credevano anche chirurghi e radiologi, che macellarono il suo mascellare – lo mascellarono – in nome di quello che in medicina si chiama falso positivo; non lo credevano i patologi che ritenevano che Freud avesse un semplice papilloma (sessuale?).
In proposito il testo di riferimento è del chirurgo e psicanalista argentino José Schavelzon, Freud, un paciente con cancer, Editorial Paidos, 1983. Si tratta di un testo scientifico, pacato e documentato, per nulla polemico, caduto tuttavia nella più totale, per non dire ostile, indifferenza, come se dire che Freud non ebbe un cancro maligno fosse una provocazione indebita.[15] La verità è necessariamente scandalosa, pare.
La vicenda del cancro di Freud è un caso esemplare – rieccomi a parlare mio malgrado del caso clinico – di volontà d’ignoranza collettiva, pilotata dall’alto. L’entourage di Freud credeva – o voleva credere – che il maestro avesse un cancro, come se quasi tutti i suoi seguaci desiderassero – inconsciamente, s’intende – che morisse presto. Freud lo previde formulando la versione collettiva dell’edipo in Totem e tabù (1912-13). Poi ci mise del suo con la superstizione di dover morire a 67 anni (siamo nel 1923). A imbrogliare le carte tra livello individuale e collettivo intervenne poi la scelta freudiana del medico, Felix Deutsch, marito di Helene Rosenbach, analizzante di Freud, innamorata del proprio analista: infelice mossa contro-transferale.
Sappiamo che la medicina non è scienza. Pertanto si presta bene per confezionare rivestimenti somatici, in particolare ipocondriaci, ai sintomi nevrotici. Freud non fece eccezione. Ma l’ipocondria è una malattia? Molière ci scrisse sopra una gustosissima commedia (e ci morì!). Mi pare che la commedia ipocondriaca, basata su falsi casi clinici, esiga una dimensione collettiva, un pubblico perché sia “giocata” in un gioco di false rappresentazioni prese per vere.
Dovremo tornare sull’equazione: falso ideologico = funzione del collettivo. Su di essa si sono basate le grandi ideologie hegeliane di destra e di sinistra del secolo scorso: nazismo e comunismo. Qui do solo un’indicazione di lettura: Ernst Nolte, La guerra civile europea 1917-1945. Nazionalsocialismo e bolscevismo (1987), a c. G.E. Rusconi, Sansoni, Firenze 2004, dove l’autore sviluppa la simmetria, anzi il pesante conflitto civile tra le due ideologie, già riconosciuto un anno prima all’insegna della domanda: “Non fu l’arcipelago Gulag più originario di Auschwitz?”, formulata nell’articolo Un passato che non passa nella Frankfurter Allgemeine Zeitung del 6 giugno 1986.
Nolte ricorda che nel maggio del 1933 colonne di studenti tedeschi sbraitavano: “Contro la sopravvalutazione della vita degli istinti, che corrode l’anima, per la nobiltà dell’anima umana. Io do alle fiamme gli scritti di Sigmund Freud”. “Contro il tradimento letterario del soldato della guerra mondiale, per l’educazione del popolo nello spirito della verità! Io do alle fiamme gli scritti di Eric Maria Remarque”.[16]
In realtà, all’epoca delle guerre mondiali del secolo breve, il soggetto collettivo stava prendendo con violenza il sopravvento sull’individuale (sulla vita degli istinti). Oggi, tramontando la contrapposizione destra-sinistra, c’è da chiedersi se il concetto di “ideologia”, intesa come concezione del mondo emotivamente giustificata, capace di innescare patologie di gruppo e la corsa alla violenza, sia tuttora valido e possa spiegare il conflitto tra globalizzazione e sovranismi, su cui getta inquietanti ed enigmatiche ombre un terzo attore, che non sappiamo ancora come collocare: la radicalizzazione musulmana, che gioca in modo imprevedibile tra individuale e collettivo.
A mio debole parere il conflitto individuale/collettivo, biologicamente predisposto dal conflitto riconosciuto da Darwin tra individuo e specie e paradigmaticamente realizzato nel modello di interazione violenta tra sessi (il maschio dalla parte della violenza fisica, la femmina della psicologica), fu già prefigurato da Hegel nella Fenomenologia dello Spirito, il nostro moderno “mito della caverna”, anche se stranamente il termine kollektiv in quell’opera non ricorre. Quale storico della filosofia saprebbe meglio di me dimostrare o confutare questa poco accademica intuizione? Quel che in generale per ora mi sento di dire è che Hegel narri la storia di un soggetto che, preso nella lotta autoduale tra servo e padrone, termina spalmato sullo stato etico prussiano, elevato ad autocoscienza. Il punto politico è però un altro: si tratta di decidere se questa storia continua tuttora o, archiviata nei libri di storia, si ripresenta oggi in forme diverse da ieri che non sappiamo ancora analizzare bene. I casi clinici evidentemente in questo caso non ci aiutano molto. Occorre una teoria di respiro più ampio. Hegel ci ha provato.
Nella nota finale del suo libro, dove tuttavia non citò mai Hegel, Nolte scrisse: “È noto che secondo Hegel la verità è il Tutto. Indagini scientifiche che hanno scelto una problematica troppo limitata e si fanno guidare da prospettive semplicemente convenzionali, si muovono nell’ambito della precisione e non della verità. [Nolte si formò alla scuola di Heidegger, che insegnava a privilegiare la semantica sulla sintassi.] Tuttavia, poiché non vi sono modi illimitati di porre il problema, non è mai possibile tracciare con sicurezza il limite [del Tutto]. Tuttavia, ciò che non scandalizza raramente appartiene all’ambito della verità”.[17]
Tornando dal collettivo all’individuale, in particolare al caso di Freud, si intuisce perché a un certo punto Freud chiuse le orecchie al controtransfert: non voleva più saperne dell’altro, troppo traumatico per il vecchio medico, troppo impegnativo per l’ancor giovane analista.
“Il caso clinico è il cuore della clinica”, mi rammenta il bravo clinico. Ok, concordo con lui a patto di precisare la metafora cardiaca. Le metafore sono sempre infide; vanno maneggiate con cura, essendo solo imprecise analogie, che trasmettono meglio il falso del vero. Il cuore ha anatomicamente due ventricoli: il destro riceve sangue non ossigenato e il sinistro espelle sangue ossigenato. In quale ventricolo la metafora situa il caso clinico? Per il discorso precedente il caso clinico starebbe nel ventricolo destro. Non apporta verità (ossigeno) al sapere costituito. Nel mio linguaggio, il caso clinico non verifica la teoria. A volte la falsifica, ma di ciò la metafora non tiene conto. Tuttavia, la metafora dice qualcosa di più e di diverso da non perdere. Prevede che il caso clinico talvolta migri arbitrariamente nel ventricolo sinistro; allora apporta nuovo sangue (ossigeno) alla teoria, evidenziando fatti nuovi non ancora previsti teoricamente. È questa l’importanza teorica – della pratica ho già detto – del caso clinico, anche quando segnala gli errori di chi lo ha stilato. E soprattutto allora, come dimostrano i casi clinici freudiani.
“La psiche è estesa, di ciò non sa nulla.”[18] Ribadisco l’originale: Psyche ist ausgedehnt, weiss nichts davon. Concludo il mio testo con questo riferimento all’ultimo Freud, che in modo imprevisto cita Cartesio, che non conosceva. La psiche è estesa, cioè è un corpo cartesiano. Il fatto che la psiche sia un corpo ha forse favorito l’equivoco che portò Freud stesso a configurare i propri casi clinici psicanalitici come casi medici. Le narrazioni intorno ai due corpi, quello somatico e quello psichico, sembrano isomorfe, strutturate come sono entrambe sul principio (superstizioso) di causalità.
Solo alla fine del proprio percorso Freud riconobbe la differenza. La psiche è sì un corpo, ma è un corpo che non sa della propria estensione. È, cioè, un corpo ignorante. L’inconscio freudiano è un sapere che non sa di sapere. È un sapere non filosofico, quello psichico; in particolare è un sapere non hegeliano, privo di autocoscienza. (Tanto si tenga presente per rettificare la deriva hegeliana del lacanismo scolastico).
Il dato clinico distingue a sufficienza le due serie di casi: medici e analitici. Nei primi non si pone il problema di cosa l’io del malato sappia della propria malattia; l’io dei secondi sa, ma non sa di sapere, addirittura non vuole sapere; mette sul tavolo – sul divano – il proprio sapere inconscio, cui regolarmente si dichiara estraneo. Le storie psicanalitiche, apparentemente strutturate in modo anamnestico come le mediche, ne differiscono in modo essenziale, perché sono il portato di un sapere che non dispone di sé stesso e, soprattutto, non vuole disporne. Lo apprendiamo dagli stessi errori di trattamento di cui Freud ha reso onestamente conto nei propri casi clinici, quasi che egli stesso volesse e non volesse sapere. Senza queste preziose, pur parziali, esperienze, forse continueremmo a confondere la psicanalisi con la psicoterapia medica, che la precedette di più di un paio di millenni. Con il rischio in più di ridurre i casi clinici a fake news.
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