Il vitalismo non è un concetto, perché il suo argomento, la vita, è definibile solo in modo tautologico: vivere significa sopravvivere. Forse non è un caso che, proprio perché sfugge alla concettualizzazione, sia diventato l’argomento filosofico per eccellenza sin dai tempi dell’ilozoismo greco. Per pudore, per non dire che si parla di nulla, il discorso filosofico sulla vita, tranne rare eccezioni, si sviluppa in termini ontologici astratti: l’essere è e il non essere non è. In Heidegger la vita diventa “esistenza”, Dasein, l’“esserci dell’essere”. Solo alcuni moderni, gli Schopenhauer, i Nietzsche e i Bergson, parlano espressamente di vita, quasi che i secoli precedenti li autorizzassero con tutto il loro bagaglio di volontà d’ignoranza a parlare della tragedia del nulla.
Oggi la vita è trattata dai filosofi in due varianti discorsive esplicitamente ideologiche; con la bioetica e la biopolitica tentano di condizionare il potere. Leggendo gli autori citati, si ha l’impressione che conoscano la cosa di cui parlano, raccontandone le metamorfosi, ma che non vogliano o non sappiano dirci le ragioni. Trovo la cosa particolarmente evidente – e imbarazzante – quando gli autori parlano di causa ed effetto, in riferimento a un’ipotetica essenza comune che transita dalla causa all’effetto. Sembra superstizione o scaramanzia. Che differenza c’è con i no-vax? Semplice, i no-vax sono l’espressione politica e ignorante del vitalismo, Mattarella la chiama anti-scienza; data dal 1633, con la condanna di Galilei.
Tanto vacua è la portata filosofica del “concetto” di vita, altrettanto vasta è la sua portata narrativa in campo letterario. Esiste tra vita e romanzo una correlazione diretta. Poesie e romanzi parlano a tutto spiano del mondo della vita, die Lebenswelt, prevalentemente di vita soggettiva la poesia, di vita oggettiva i romanzi. Il mondo dell’editoria crollerebbe se dovesse contare solo sulle produzioni scientifiche. Le quali entrano nella cultura solo nella misura in cui sono tradotti in racconti, più o meno metaforizzati dalla cosiddetta volgarizzazione scientifica, un genere letterario in Italia non in voga. In generale si può dire che la difficoltà dei grandi della Terra a concepire il fenomeno planetario del cambiamento climatico è di essere una realtà non romanzesca: è un reale che non cessa di non scriversi, come diceva il mio maestro. È chiaro che la psicanalisi, con le sue storie cliniche, si iscrive più facilmente nel genere romanzesco che il quello scientifico.
Ma tanto basta. Qui voglio affrontare una versione vitalista che mi sta particolarmente a cuore, benché non la condivida: il vitalismo di Freud, che tanto lo avvicina alla filosofia. Si tratta della variante psichica del vitalismo, che la psicanalisi conosce tanto bene nella sua controfigura: la paranoia, come vitalismo contro la vita. Parto da un dato statistico molto evidente. Mi sono stancato a contare con il “cerca trova” nelle 7000 pagine delle Sigmund Freud gesammelte Werkele ricorrenze del termine Seelenleben, “vita psichica”. Non sbaglio di molto dicendo che ricorre ogni venti pagine. Il numero si riduce, quasi si dimezza, cercando insieme Triebleben, “vita pulsionale”. Il significato di vita psichica è vita sexualis, come spiega Freud nel saggio del 1908 sulla Morale sessuale “civile” e il nervosismo moderno. È la vita percorsa da correnti di forza.
Sì, perché è quasi una costante: non c’è discorso vitalistico che non faccia ricorso a qualche mitico concetto di forza: l’élan vitale in Bergson, o der Wille zur Macht, la volontà di potenza, in Nietzsche. Meno energico Husserl con la sua filosofia dell’intenzione (Absicht). In particolare, si presenta una coppia di forze contrapposte. In Freud sono le forze dell’eros o della vita (Lebenstriebe), e le forze della morte (Todestriebe), le prime che tendono a unire la materia vivente in aggregati sempre più vasti, le seconde che tendono a disgregarli, riportando la materia allo stadio inorganico. Nella Questione dell’analisi laica Freud arriva a dire che le altre lingue invidierebbero alla tedesca il termine tedesco der Trieb, “pulsione”. A un genio si perdonano certe sciocchezze.
“Forza” è un termine tratto dalla meccanica. Ci si aspetterebbe che la metapsicologia pulsionale sia un discorso meccanico. Invece è meccanico solo metaforicamente, cioè per finta. O meglio, evoca una meccanica immaginaria, direi umanistica, per dire a misura d’uomo. È deterministica, essenzialmente statica. È la meccanica nel senso aristotelico del termine, superato da Galilei, che per ogni effetto presuppone una causa, ma è priva di principi generali come la conservazione del moto inerziale in assenza di forze. Infatti, tutto il discorso vitalista è un discorso in presenza: la vita è la presenza stessa, die Anwesenheit. Con il suo neologismo Vorhandenheit, Heidegger direbbe, “essere alla mano”, complementare di zum Tode sein, “essere per la morte”; l’assenza di vita è la morte, ovvio. La psicodinamica freudiana non ha molto di dinamico nel senso meccanico – galileiano – del termine, anzi è molto statica, per non dire ferma. Nel suo trattato sulle schizofrenie, Bleuler ironizza sull’invenzione freudiana della libido come energia pulsionale: come può essere energia fisica una libido, se è priva di unità di misura? Ricordo a Bleuler che Freud non conosceva Galilei, che non cita mia, non avendo in biblioteca nessuna sua opera. Del Rinascimento italiano Freud conosceva solo Leonardo e Michelangelo, oltre a Boltraffio e Signorelli di sfuggita.
Le carenze freudiane sono ben altre e più decisive. Stanno a monte. Ne segnalo solo due, le più importanti, che impedirono a Freud l’accesso a un discorso scientifico moderno: la variabilità e l’interazione. Freud rientra in una lunga storia . Per venire storicamente alla luce i concetti di variabilità e interazione hanno attraversato un lungo periodo “preistorico”; letteralmente per millenni non si è scritto di variabilità e interazione, termini assenti dalle letterature greca antica e latina.
La nozione di variabile ha latitato per millenni sotto quella di grandezza, la meghéthos degli antichi greci, che non conoscevano ancora le variabili qualitative, per esempio le binarie di presenza/assenza di una certa caratteristica, giusto per trattare un concetto ontologico chiave, l’esistenza, che è o presente o assente. La variabilità entra definitivamente in campo con l’algebra, importata dagli arabi dall’India, come scrittura specifica della matematica, che per tutta l’antichità classica occidentale è rimasta retorica, cioè narrativa.
Un esempio paradigmatico. Si pensi all’algoritmo di Euclide delle divisioni successive per trovare il massimo comun divisore di due numeri, ancora oggi in uso, essendo molto efficiente. Euclide lo presentò nei primi due teoremi del libro VII degli Elementi. Non avendo il concetto di zero e non considerando l’uno un numero, non gli restò che “raccontarlo” nella versione particolare delle differenze successive, rigorosa sì, ma non generale. Poi, gli sfuggi la portata dell’algoritmo per risolvere in interi l’equazione lineare in due variabili x e y: ax + by = 1. Faccio notare, per inciso, che i teoremi euclidei non hanno la forma logica moderna: “per ogni valore della variabile x esiste un valore della variabile y tale che”, non disponendo né della scrittura delle variabili x e y né, quindi, della nozione di quantificatore logico.
L’incognita è il valore della variabile che verifica l’equazione; è lei a dare letteralmente valore alla cosa, alla “cossa”, come la chiamavano gli algebristi rinascimentali; è lei, l’incognita, ad attribuire lo statuto di variabile a una grandezza nel momento in cui ne fissa il valore che vale per una certa relazione di uguaglianza. È singolare che anche Freud tratti la “cosa”, la chose freudienne, come la chiama Lacan, ma non ne concepisca la variabilità. La “cosa freudiana” è l’inconscio, cioè la cosa epistemica che non si sa di sapere. Ma rimase inconscia anche per Freud. Ha una sua variabilità, certo: la variabilità dello sviluppo individuale, la cosiddetta psicogenesi, che non ha bisogno del termine Variabel per essere descritta. La cosa passa regolarmente dalla fase orale, all’anale, alla fallica.
In Freud sussiste solo la variabilità dello sviluppo individuale. La sua scienza è genetica, ma non è una scienza dei collettivi biologici, la genetica di Mendel, riscoperta ai tempi dei Tre saggi sulla teoria sessuale, ma mai citata da Freud (come Galilei). La genetica freudiana è la genesi aristotelica della catena di cause successive, operanti nel singolo individuo: dalla prima, alla seconda all’effetto finale. Dico che in Freud esiste la variabilità “statica” del polimorfismo delle forme di vita, codificate da Linneo in generi e specie fisse dei viventi, predisposte dal buon dio nel suo piano provvidenziale. Freud fu cripto-religioso. La lezione di Darwin sull’attitudine di una specie a variare in altre specie, per meglio affrontare i cambiamenti ambientali – la tanto travisata struggle for life – non fece breccia sull’intelligenza di Freud, di certo non ecologica. (In biblioteca Freud non ebbe l’Origine delle specie.) La cosa non deve stupire, se perfino un filosofo contemporaneo, un vitalista della portata di Foucault, non recepì Darwin, sotto l’influsso nefasto del suo maestro Canguilhem, in nome dello storicismo, tipica variante vitalista della filosofia idealistica.
L’assenza di interazione tra viventi nella massa freudiana è la conseguenza diretta dell’incapacità di Freud di concepire la loro variabilità. Due individui uguali non possono interagire ma solo conformarsi a uno schema comune. Solo se sono diversi possono interagire a favore o a sfavore l’uno dell’altro. La storia dell’interazione umana è lunga, con antecedenti in ominidi precedenti. Homo sapiens sopravvisse alle altre specie di Homo perché da quando nacque, 300.000 anni fa, fino a 12.000 anni fa, praticò solo interazioni positive, cioè le cooperazioni: dallo scheggiare le selci al cacciare e raccogliere insieme cibo nella foresta. Grazie alla cooperazione, Homo sapiens conquistò il pianeta Terra senza colpo ferire. Solo 12.000 anni fa, dopo l’invenzione dell’agricoltura e la fondazione delle grandi città con i loro granai, presero piede le interazioni negative: le guerre in vista del saccheggio dei granai; le cooperazioni, forse perché nell’immediato meno redditizie delle interazioni negative, passarono in secondo piano; è più redditizio, infatti, sul tempo breve, saccheggiare un granaio che arare, seminare, mietere e trebbiare su tempi certo più lunghi.
Gli individui freudiani sono relativamente recenti; risalgono a meno di 12.000 anni fa, dicevo. Sono fatti con lo stampino edipico. Sono tutti uguali; sono maschi, perché delle femmine non se ne parla, in quanto esseri inferiori, destinati solo a procreare; tutti vogliono uccidere il padre, da cui temono di essere castrati, per aver desiderato copulare con la madre. Naturalmente, è un mito vitalista, senza alcuna base paleontologica, tanto da suscitare l’irrisione di Jay Gould. L’Edipo fu posto da Freud a base della propria metapsicologia, frutto di grande ignoranza scientifica, fondato solo su conferme cliniche. Freud ignorava che le teorie scientifiche moderne, a differenza di quelle antiche storicistiche, non si possono basare solo su conferme empiriche; devono prevedere certe possibilità di confutazione. Anche i deliri paranoici si basano su conferme sul piano di realtà, perciò sono incontrovertibili, perché non ammettono confutazioni. Niente di più vitalista di un delirio paranoico: il vitalismo è una fucina di paranoie, cioè di teorie contro la vita del soggetto. Viceversa, la paranoia è la controfigura del vitalismo. La castrazione e il parricidio, gli shibbolet freudiani, sono parenti del delirio paranoico; formano il delirio nevrotico di base del figlio maschio, che si sente perseguitato dal padre. Il fatto che sia molto diffuso, non dimostra che sia universale. Confermarlo in clinica non significa dimostrarne la verità.
La verità è che in Freud non esiste una psicologia del collettivo ma solo una psicologia della massa, fatta da individui tutti uguali, perché tutti identificati allo stesso Führer, avatar dello stesso padre amato-odiato, uguale per tutti. Qui si innesta un tratto di disonestà intellettuale di Freud, il quale fa risalire il proprio mito dell’orda primitiva a Darwin. Darwin avrebbe concepito una forma di convivenza di un capo, uno stallone (Männchen), che teneva per sé tutte, obbligando i fratelli all’omosessualità. Questo è falso. In Descent of Man Darwin parlò di small communities; non parlò mai di orde, tanto meno di stalloni.
Insomma, Freud fu cripto-nazista come fu cripto-religioso, pur essendo a parole contro il nazismo e contro la religione. Il risultato è che Freud non riuscì a concepire la civiltà altrimenti che come ostilità (Feindseligkeit) individuale all’istituzione sociale, per la rinuncia pulsionale (Triebverzicht) imposta dal collettivo all’individuo, con immancabile senso di colpa per la potenziale trasgressione del desiderio. Non ebbe l’idea di civiltà come cooperazione trans-individuale, se non come coazione imposta dall’alto, dal suo Führer. In fondo la massa freudiana è solo un grosso individuo, per non dire grossolano, con un Führer al posto del padre che si ama e si odia. Risultato: la civiltà è per Freud un sintomo nevrotico del soggetto. In parte è vero.
Come si può concepire una psicanalisi senza dimensione autenticamente collettiva? Fu l’obiezione di Jung, che Freud misconobbe. Si può recepire Jung senza adottare le sue ingenuità archetipiche, varianti di psicologia della conferma. Si tratta di riformulare il freudismo in termini galileiani di variabilità e di interazione, fatti salvi alcuni assunti di base freudiani non vitalisti: l’esistenza dell’inconscio, con una proto-rimozione e l’indisponibilità immediata del sapere. L’assioma lacaniano del soggetto supposto sapere nel transfert analitico rientra nella stessa assiomatica.
Facile, no? Facile, vitalismo permettendo. “Sono riuscito dove la paranoia ha fallito”, confidava Freud a Ferenczi. Non era del tutto vero. Freud rimase vitalista, anche un pochino paranoico, quando parlava di ostilità alla psicanalisi.
Caro dottor Sciacchitano dopo
Caro dottor Sciacchitano dopo aver abbandonato il “velenoso inconscio collettivo” di Facebook subito dopo la dipartita del professor Galzigna ed essermi ritirato ad un semi- eremitaggio (ho abbandonato anche i corsi seminariali di Figline Valdarno capitanati da Gilberto Di Petta- mia unica occasione mondana professionale-) mi ritrovo a leggere i suoi articoli su Psychiatry on line e a riflettere sui gruppi, sui ruoli nei gruppi e sulla paranoia istituzionale. Sono ormai 13 anni (da quando sono entrato in specializzazione a Bari in una scuola di Psichiatria totalmente organicista e vecchio stampo) che mi trovo a riflettere sul mio ruolo di Alter se non francamente Alienus in tutti i gruppi di riferimento (famiglia, amici, lavoro). Situazione di identità diffusa e labile accentuata da grossi vissuti di vuoto e solitudine (più percepita che reale) accentuatasi nel mio rapporto ad alta dose di ambiguità e ambivalenza col mondo fenomenologico. Purtroppo dopo un po’ di tempo passato in un gruppo sviluppo una particolare conflittualità con i leader o i capi. Volevo ordunque chiederle? Perché i vari Führer incontrati mi hanno sempre pesantemente o combattuto pesantemente o ignorato grandemente (che è il risvolto della stessa medaglia)? La ringrazio per una sua chiosa e risposta con nuove sollecitazioni.
Non dà la mano…
Non dà la mano…