quando è l’unica che abbiamo»
Émile-Auguste Chartier
Usi e abusi di un concetto scomodo.
Tra i tanti miti sull’argomento, probabilmente, quello più resistente riguarda l’eugenetica come scienza pseudo-reazionaria. In verità, nella prima metà del novecento diversi liberali britannici, «socialdemocratici tedeschi e scandinavi», progressisti americani, radicali e finanche comunisti francesi, si dichiararono a favore dell’eugenetica; secondo loro avrebbe potenziato razionalmente le possibilità biologiche della specie, tutto ciò è stato però messo da parte e ri-significato alla luce della tanatopolitica nazista. Come sottolinea Cassata, ancora intorno agli anni Trenta del Novecento, un vasto, e trasversale movimento d’opinione ritiene l’eugenetica un modo razionale di risolvere diversi problemi che spaziano dall’eliminazione delle «disuguaglianze prodotte dal sistema capitalistico» (p.6), alla gestione della natalità per considerazioni neomalthusiane, fino alla propaganda di genere. Come spesso accade nel dibattito pubblico – e nell’abuso pubblico che si fa della storia – dietro una categoria ci sono però molteplici varianti di un fenomeno, rivoli e sfumature che finiscono per presentare così tante differenze da essere solo a fatica ridotte entro l’uno. A fronte di ciò, il libro di Cassata si propone non tanto nei termini di «una storia sintetica dell’eugenetica» (p.8), quanto «di ragionare sull’uso pubblico del concetto, i suoi tropi, le sue contraddizioni, le sue funzioni» (p.8). Vengono così posti sotto la lente d’ingrandimento «i processi paralleli di nazificazione dell’eugenetica e di banalizzazione del nazismo» (p.8), quella reductio ad Hitlerum che nei termini di vera e propria fallacia argomentativa troviamo dispersa nei dibattiti più vari e nei contesti più diversi. L’Autore procede inoltre alla problematizzazione della tesi che fa da contraltare a quella decostruita nella prima sezione, più precisamente l’idea che sia possibile dividere il percorso storico dell’eugenetica in due tronconi: uno «oggetto di ripulsa e di stigmatizzazione» (p.8) terminato con il «Processo ai medici di Norimberga» e uno virtuoso sviluppatosi a partire da quel momento. Infine, con una conclusione che tiene insieme intelligentemente i fili dipanati nel piccolo libro, nell’ultima parte si discute «sull’inadeguatezza euristica del concetto di “ritorno dell’eugenetica”» (p.8), incapace di rendere conto delle forme e dei significati diversi assunti dal concetto in relazione alla storia della medicina.
Se il volume di Cassata ha soprattutto il grande merito di decostruire, attraverso la storia critica, l’immaginario sull’eugenetica inquinato dalla nazificazione, il libro di Paolo Francesco Peloso «La guerra dentro. La psichiatria italiana tra fascismo e resistenza (1922-1945)»[4] , in particolare nel secondo capitolo intitolato esplicitamente «Vite prive di valore: eugenetica e sterminio dei malati di mente»[5], affronta proprio il tema dell’uso nazista dell’eugenetica, più precisamente dell’eliminazione dei malati di mente (p.81). Nel testo viene analizzata e posta sotto la lente d’osservazione la tesi di fondo che animava le tanatopolitiche nazista: «gli inabili, i malati inguaribili e i pazzi potevano […] essere eliminati perché fonte di spese assurde per la famiglia e per lo stato» (p.81). In quest’ottica, ci dice Peloso, il ruolo della psichiatria non è solo quello di esecutrice ma anche di sapere che va incontro ad un processo di disalienizzazione attraverso il dilagare fuori dai manicomi, in un abbraccio sempre più stretto con le scienze sociali e con la politica, alla ricerca di quella legittimazione tanto sospirata. La psichiatria si fa così sempre più tecnologia dei corpi che si serve dell’eugenetica per legittimare il proprio ruolo biopolitico. Come afferma Peloso, in questo movimento «la psichiatria arriva ad avanzare la pretesa di sostituirsi alla giustizia da un lato, e all’igiene dell’altro» (p.83); si gettano così le basi per «l’adesione alle teorie dell’ereditarietà» (p.83) da cui si sviluppa un razzismo «che si differenzia da quello etnico tradizionale» (p.83), un razzismo che ha come obiettivo gli anormali, i degenerati. L’eugenetica, la scienza che si propone di migliorare la specie umana «attraverso interventi in grado di modificarne e dirigerne l’evoluzione» (p.85), assume sempre più la funzione di sapere che si oppone alla degenerazione della specie.
Se «il razzismo, come l’eugenetica in generale, non pare abbia avuto, a tutta prima, maggiore impatto sulla cultura e sulla psichiatria tedesca rispetto a quella delle altre nazioni» (p. 88), è con la fine degli anni Venti che «l’eugenetica in Germania esplose come questione di interesse pubblico» (p.89), assumendo quel ruolo tanatopolitico che ne avrebbe segnato a posteriori l’identificazione agli occhi della collettività. Ed è in tale declinazione che la lingua della psichiatria diventa «quella delle razze e del razzismo» (p.89), facendosi portavoce di istanze perverse che pretendono la difesa della società dagli anormali, dai matti, da quella multiforme e variegata popolazione identificata come inutile per le esigenze della specie. Il nazismo ha quindi radicalizzato i germi di una serie di istanze presenti nella società degli anni trenta e che si concretizzano nella tristemente celebre legge, approvata il 14 luglio 1933, attraverso cui Hitler dispone «la prevenzione della nascita di persone affette da malattie ereditarie attraverso la sterilizzazione obbligatoria» (p.89). Il dispositivo legislativo, come afferma Peloso, coinvolgerà «tra tre e quattrocentomila persone, il 5-7 per cento della popolazione tedesca» (p.89). E’ l’avvenimento che segna la nazificazione dell’eugenetica, la sua iscrizione nel paradigma tanatopolitico che prevede misure di igiene razziale sempre più radicali e illiberali. Il dato che deve far riflettere, e che offre più d’un argomento ai sostenitori della continuità tra l’eugenetica razzista e la psichiatria, intesa come sapere che amministra le procedure d’esclusione dell’anormalità, è quello che riguarda la sterilizzazione obbligatoria che colpì «nel 50 per cento dei casi frenastenici, nel 25 per cento schizofrenici, e per il quarto restante altre categorie»[6] (p.90). La sterilizzazione obbligatoria coinvolse quindi soprattutto quegli anormali da manicomio con cui la società fa fatica a relazionarsi e, per molti versi, non è un caso che «divenne, negli stessi anni, legge anche in Danimarca (1929), Norvegia e Svezia (1934), Finlandia (1935), Estonia (1937), e fu inasprita in senso più coercitivo in Svezia nel 1941 […]» (p.90). Un sentire condiviso, dunque, in buona parte dell’Europa del Nord, un modo di affrontare quello che venne percepito come un problema di ingegneria sociale, cui fece da contraltare la più tiepida accoglienza nei paesi latini, in cui la presenza e la forza politico-ideologica della Chiesa cattolica servì da freno, e nell’URSS, dove l’eugenetica venne rifiutata in quanto «scienza borghese ed evidentemente antiegualitaria» (p.90).
Peloso, nel capitolo dedicato all’eugenetica, si concentra su quello che, probabilmente, è il più tragico e conosciuto programma di ingegneria razziale del Novecento: l’Aktion T4. Il piano di sopprimere le vite ritenute prive di alcun valore venne preparato dalle sollecitazioni di uno psichiatra, Alfred Hoche, e di un giurista, Karl Binding, che nel volume «L’autorizzazione a distruggere la vita indegna di essere vissuta» (p. 92) teorizzarono la possibilità di applicare l’eutanasia per liberare la società dal peso di esistenze inutili. Il testo fa parte di un clima più generale che in Germania interagisce con i progetti ideologici che puntano «alla composizione biologica della razza futura» (p.93). In tale contesto emergono figure tragiche come lo psichiatra Hans Heinze «che mise a disposizione il suo ospedale di Gorden, presso Brandeburgo» (p.93) per l’eliminazione dei disabili. Così, quando nel 1939 Hitler emanò quella sorta di direttiva non legislativa ma con valore esecutivo, «il piano Aktion T4», il clima nel mondo accademico e medico tedesco in favore della soppressione delle esistenze «indegne di essere vissute» è favorevole, ciò spiega il numero di 70 mila pazienti eliminati, cifra ben difficilmente raggiungibile senza il concorso di più forze all’interno dell’apparato socio-sanitario nazista. Il piano prevedeva una prima fase selettiva, seguita da un successivo esame operato da «tre esperti scelti da una lista di quarantadue» (p.94). Tre responsabili finali «prendevano poi la decisione finale» (p. 95). I principali candidati alla soppressione erano gli Ebrei e gli inabili al lavoro. La soppressione avveniva in sei centri di sterminio attraverso il monossido di carbonio. Il piano, originariamente pensato per la sola Germania, venne esteso all’Austria, alla Polonia, nella Repubblica Ceca, in Ucraina, Lettonia, Lituania, Estonia. Il progetto, insomma, coinvolse diversi territori e in tutti si procedette con una radicalizzazione delle categorie soggette all’eliminazione, in nome della tragica risoluzione del problema della degenerazione.
L’idea di degenerazione
Il concetto di degenerazione, elaborato da Morel, è centrale per lo sviluppo dell’eugenetica. Afferma la stretta correlazione tra le caratteristiche fisiche e morali dell’individuo e la loro trasmissione peggiorativa per via ereditaria, a tutto svantaggio dell’evoluzione della specie. Sul tema, sulla sua storia, sugli effetti sulle teorie psichiatriche e criminologiche, ha scritto Mauro Simonazzi, dottore di ricerca in Storia del pensiero politico e delle istituzioni politiche, in «Degenerazionismo. Psichiatria, eugenetica e biopolitica»[7]. Il testo è un attraversamento critico della storia di un’idea con ricadute potenti, in grado di generare un intero campo discorsivo, capace di segnare l’immaginario collettivo e di disporlo verso quella mortifera declinazione biopolitica che è stato il piano Aktion T4. Come riassume efficacemente l’autore: «l’idea di degenerazione ha segnato un’epoca» (p.1). Dalle sue origini nella «Histoire naturelle» di Buffon, fino alla «riformulazione nelle teorie criminologiche di Lombroso» (p.1), è tutto un percorso teso a caratterizzare l’evoluzione della specie come a rischio di peggioramento, appunto degenerativo. Dalla sua origine «all’interno della stretta cerchia dei naturalisti settecenteschi» (p.1) l’idea di degenerazione della specie, anche grazie alla sua potenza evocativa, riesce a farsi largo in diversi campi del sapere, «dalla filosofia all’antropologia, dalla psichiatria alla criminologia» (p.1). Ciò ha fatto sostenere a Daniel Pick[8] che l’intero arco di tempo compreso tra il 1848 e la Grande Guerra può essere descritto come l’età della degenerazione, una sindrome in grado di contaminare anche le categorie filosofiche come avviene con «la nozione nietzschiana di décadence, con la quale viene annunciata la crisi della ragione moderna e dalla quale si originano le varie teorie del declino e della decadenza della civiltà occidentale» (p.2). Secondo Simonazzi, sul piano antropologico l’idea di degenerazione è responsabile di virulente e convinte giustificazioni del razzismo, come quella che Arthur De Gobineau «formulò nel suo Saggio sulla diseguaglianza delle razze umane, dove sostenne che l’incrocio tra le razze avrebbe causato una degenerazione biologica dell’umanità che, a sua volta, avrebbe portato al crollo delle civiltà» (p.2). Da qui l’estensione del degenerazionismo e la fissazione in quella che Simonazzi definisce una «scienza dell’anormale», origine della criminologia lombrosiana e, più in generale, di quella biopolitica mortifera i cui esiti più tragici ed evidenti abbiamo visto con il piano Aktion T4.
L’origine dell’idea di degenerazione si situa nella congiuntura del primo capitalismo industriale, quello che produce le baraccopoli nelle periferie dei grandi agglomerati urbani, insieme a quel senso di degrado e insicurezza che tanto colpisce l’immaginario di un’epoca. La trasformazione, accompagnata dall’inquietudine genera quelle angosce collettive così ben rappresentate dalla letteratura di Zola e di Baudelaire. In questo contesto è la biologia l’ordine discorsivo in grado di fornire gli elementi per una spiegazione «sufficientemente comprensibile da attrarre anche chi non era uno scienziato» (p. 3). Proprio questa facilità nasconde però il rischio della semplificazione e della fissazione in teorie che spiegano troppo. E’ ciò che lamenta Enrico Morselli, celebre psichiatra e antropologo italiano, quando sostiene che la divulgazione di alcune teorie scientifiche, quando transitano «dalla conoscenza profonda e misurata di alcuni competenti» agli appetiti delle folle, finiscono per fissarsi «nell’assolutismo ipotetico della verità conquistata e sicura» (p.3). Ciò che si sviluppa in forma problematica e misurata si trasforma in spiegazione certa e incontrovertibile, ratificata dal bisogno di sicurezza della collettività. D’altra parte cosa c’è di più evidente della trasmissione ereditaria dei caratteri della stirpe? Quando Morel afferma, con la «teoria della degenerescenza», che «le malattie mentali sono causate da un “germe” degenerativo, che è ereditario e progressivo, per cui ogni generazione diventa più degenerata di quella precedente» (p.3), sta offrendo alla società una spiegazione che ha i due crismi della semplicità e della forza suggestiva, elementi come pochi altri in grado di fissare il successo di una teoria. Da qui il passaggio al razzismo contro l’anormale non è poi così ampio e, come mostrato da Robert Castel, l’apporto della psichiatria, sempre più tecnologia biopolitica al servizio dell’ingegneria sociale, non è in alcun modo ridimensionabile. Non si tratta, però, soltanto di ribadire come un’idea semplice ed evocativa, unita ad un sapere desideroso di guadagnare legittimazione, abbiano prodotto, quasi necessariamente, le aberrazioni tanatopolitiche novecentesche, quanto di evidenziare come l’affermazione della teoria degenerativa abbia prodotto una grammatica e una semantica con effetti performativi, in grado di condizionare anche le legislazioni di paesi diversi, dagli Stati Uniti d’America al Nord Europa. Alla luce di ciò è interessante notare, come fa Simonazzi, che «le prime leggi sulle sterilizzazioni forzate dei “deboli di mente” e le prime (rare) proposte di “eutanasia involontaria” non vennero formulate nella Germania nazista, ma negli Stati uniti tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo» (p. 6). Tutto ciò spiega quanto il degenerazionismo abbia segnato un’epoca, le sue credenze e il suo immaginario e quanto, entro certi limiti, abbia risposto ai bisogni e alle esigenze di sicurezza della popolazione e ai provvedimenti attraverso cui la politica ha provato ad offrire una risposta.
La biologizzazione del discorso politico, di cui la teoria degenerativa è il supporto e l’eugenetica la pratica attuativa, è quindi prima di tutto un certo organizzarsi dei rapporti tra chi governa e chi è governato, alla luce di una certa configurazione di senso, di un determinato immaginario e di alcune istanze presenti nella società. Più che un incomprensibile deriva delle pulsioni di morte che abitano la collettività, bisogna parlare di una storia complessa, che oggi sfocia nella biomedicina contemporanea, e di cui è importante ricostruire e conoscere il percorso di sviluppo. Una storia che deve essere razionalizzata e compresa, prima che ridotta ad abuso ideologico strumentale, utile per zittire l’avversario di turno nel dibattito pubblico. La storiografia può, in tal senso, servire come antidoto nei confronti tanto delle riduzioni strumentali, quanto delle ipostatizzazioni ideologiche che minano dall’interno ogni serio tentativo ermeneutico. Questo perché l’eugenetica è tanto l’abominevole «piano Aktion T4», quanto le campagne contro la talassemia a cui fa riferimento Cassata nella conclusione del suo volume (p.112). Si tratta, volta per volta, di chiarire i contorni concettuali del termine «eugenetica» a cui ci si sta riferendo. Una prassi, questa, che possiamo definire di etica del concetto, necessaria per precisare i termini all’interno del dibattito pubblico e per evitare quelle derive strumentali che servono soltanto ad inquinare e confondere le posizioni in campo.
0 commenti