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COVID-19: Salute psicologica, stili di vita e revisione politica durante la quarantena collettiva. (Non lo sappiamo se andrà tutto bene)

8 Apr 20

A cura di Luigi D'Elia

Mai come oggi, in piena pandemia, parlare di salute psicologica coincide totalmente col parlare di revisione politica.

L'errore più grande che noi operatori di salute mentale possiamo commettere oggi è quello di prestarci, convintamente o inerzialmente, alla logica imperante del "andrà tutto bene" e del ricominciamo, del riprendiamo da dove abbiamo lasciato. No, non sappiamo affatto come andrà a finire. Non si riprenderà da dove abbiamo lasciato. Questa pandemia, nel bene e nel male, sarà uno spartiacque.

Di certo, abbiamo tutti da "apprendere dall'esperienza" anche se l'esperienza da cui abbiamo da apprendere è ben lungi dall'essere compiuta ma soprattutto compiutamente comprensibile.

Se non cogliamo la complessa catena di cause e conseguenze che come civiltà, come collettività, come specie, ci ha condotto a questo fermo (a questo TSO planetario), questa pandemia corre il serio rischio di essere derubricata a parentesi sfortunata di una fase espansiva della nostra civiltà.

Cercare cause e conseguenze non significa cadere in uno sterile autocolpevolismo, ma vuol dire imparare ad osservare come l'impatto umano (le conseguenze dell'antropocene, come detto altrove) ha ultimamente agito contestualmente sugli ecosistemi e nelle nostre vite, nei nostri stili di vita.

Questa pandemia attesta la reale fragilità della nostra civiltà. Ci costringe a prenderne atto. E al contempo ci chiama a svolte epocali, a revisioni radicali, a ripensamenti e correzioni storiche. Nei nostri stili di vita e, isomorficamente, nell'organizzazione sociale e politica. Questa pandemia, inoltre, ingaggia per la prima volta la nostra intera specie in quanto tale. Persino il concetto di collettività non è più sufficiente per comprendere le implicazioni che il costrutto “specie” evoca rispetto alla vita in questo ecosistema.

Fin dall’inizio è apparso molto chiaro agli osservatori più attenti delle complessità e a coloro che si occupano di fatti scientifici che ci trovavamo di fronte ad un fenomeno in buona parte sconosciuto e imprevedibile. Una mutazione del ceppo covid (le comuni influenze) non letale come la peste, ma molto più letale di una comune influenza. Non si conosceva la contagiosità, la reale letalità, l’impatto sulle diverse realtà locali e mille altre informazioni indispensabili. Sapevamo solo di non essere immunizzati, sapevamo solo cioè di essere tutti vulnerabili. Si sapeva, insomma, talmente poco che anche molti scienziati avevano sottovalutato la sua reale pericolosità avventurandosi in previsioni rivelatesi false solo pochi giorni dopo.

False previsioni di scienziati si associano ad affermazioni gradasse dei leader mondiali che a pochissimi giorni di distanza appaiono grottesche e idiote. Lo scacco della conoscenza che la nostra civiltà ha conosciuto ai livelli più alti ha determinato una certa confusione che ancora oggi stiamo pagando e che continueremo a pagare nei prossimi mesi e anni. La mancanza di una regìa mondiale, di una centrale di pensiero e strategica sulla gestione della crisi (come ci ammonisce Harari), le risposte incerte e a tratti francamente sociopatiche delle istituzioni centrali (penso all’Europa in particolare) riguardo alle misure per affrontare la crisi e i dopocrisi, tutto questo e molto altro ancora, ci mette di fronte una volta per tutte alla défaillance dell’intera nostra civiltà.

Questo virus ci sta insegnando il limite della nostra conoscenza. Non siamo né onniscenti, né onnipotenti. Avevamo bisogno di ricordarcelo, evidentemente.

Riprendere dimestichezza e confidenza con la nostra limitatezza come specie parte di un ecosistema a seguito di un evento “figlio” dello stesso ecosistema, ci racconta moltissime cose interessanti per chi abbia orecchie e occhi per ascoltare e osservare. Un equilibrio si rompe e se ne rende necessario un altro, del tutto sconosciuto. Sembra semplice a dirsi, molto più complicato a viversi. L’abbiamo davvero, profondamente, compreso questo? Dubito.

Papa Francesco ci dà una mano a sviluppare questa comprensione introducendo l’idea del “peccato sociale”, un’infrazione contro la natura e contro il prossimo, e comunque, occorre precisare, una faccenda terrena e umana e non soprannaturale.

Ma io faccio lo psicoterapeuta di formazione psicodinamica e la categoria del peccato sociale mi intriga ma fino ad un certo punto. Le mie chiavi di lettura sono più che altro fondate sull’osservazione, anche genealogica, di atti mentali, fatti e comportamenti umani e sociali e mi è particolarmente facile riconoscere i parallelismi tra eventi differenti e, in tal senso, l’uso della metafora mi è molto utile e confidente.

E, seguendo il filo della metafora, ci troviamo dunque, riguardo questa pandemia e questo fermo collettivo, di fronte ad un sintomo psicopatologico, che riguarda l’intera specie e l’intera civiltà.

Di una cosa sono certo riguardo ai sintomi psicologici: di essi ci importano gli effetti che producono nella vita reale. Lì, cioè nella loro consistenza omeostatica, inefficacemente autoprotettiva, ma anche nella loro valenza sistemica e relazionale, possiamo rintracciare in buona parte il senso della loro comparsa e forse quello di un’eventuale scomparsa. Il sintomo, come ci insegna la psicoanalisi, è già un tentativo di compromesso che la mente escogita per non cadere ancora più in basso. Un tentativo, non riuscito, di prendere atto di nuovi equilibri ancora impraticabili. Ma sono le forme che i sintomi assumono, restringendo libertà e dignità delle persone che ne sono afflitti, che raccontano il disorientamento necessario che essi producono e che ci chiamano ad affrontare.

Questa digressione sul significato dei sintomi in psicopatologia per poter dire, uscendo dalla metafora, che le informazioni che in questa fase possiamo raccogliere circa i cambiamenti forzati degli equilibri precedenti, sono preziosissime e irripetibili.

Ma entriamo nel dettaglio di come la pandemia sta riscrivendo grammatiche e sintassi del nostro quotidiano. A volte tale riscrittura consiste semplicemente nel sottoporci un’evidenza già presente, altre volte la forzosità della nuova condizione imposta dal lockdown ci obbliga ad osservare alcune sorprendenti novità. Non si tratta di dare necessariamente giudizi di valore ai cambiamenti che osserviamo, si tratta semplicemente di verificarne innocentemente il loro sviluppo. Si tratta casomai di dare senso a tutto ciò, a mente fredda.

Occorre svolgere considerazioni su fatti che sono già palesi e visibili a tutti noi e che forse con difficoltà riusciamo a connettere circolarmente in un unico flusso di senso. Soprattutto un unico flusso di senso di rilevanza politica. I fatti ai quali mi riferisco riguardano la maggioranza delle vite delle persone in isolamento, molto più di coloro che per svariate ragione continuano a lavorare fuori di casa e a condurre una vita ancora troppo simile alla precedente.

E questi fatti riguardano:
 
Carichi di lavoro: riflessione sul lavoro identitario
Moltissime persone non stanno più lavorando da oltre un mese (questo articolo è scritto l’8 Aprile). Moltissimi altri hanno ridotto drasticamente i carichi di lavoro attraverso il lavoro a distanza o per la riduzione di spese e servizi necessari. Sono tantissime le persone che intercetto, anche appassionate di ciò che fanno, che mi dicono: sai, mi sono reso conto in questo momento che a me del lavoro non interessa proprio nulla.

Gestione delle spese e dei consumi
Nelle fasce medio-basse di reddito la pandemia è una vera e propria sciagura. Se prima erano poveri, adesso sono nullatenenti. Per loro la gestione di spese e consumi significa poter pensare di mangiare e curarsi a livello basico.
Nelle fasce medie e medio-alte, viceversa, si verifica un fenomeno assolutamente prevedibile. Vivere con poco non rende la vita più infelice, tutt’altro. Il crollo dei consumi di beni e servizi non essenziali non incide per nulla sulla qualità di vita. Anzi, si assiste talora al paradosso che pur lavorando poco, si risparmia molto più di prima. Questo andamento ovviamente è solo transitorio e l’economia globale ci aspetta al varco con i suoi crediti infiniti.
Quali riflessioni e conclusioni si possono trarre da questo specifico aspetto forse è ancora presto per dirle, ma di certo occorre osservare con attenzione queste dinamiche assolutamente inedite a livello collettivo.
 
Gestione del tempo (lentezza e fretta)
Dopo un mese di adattamento e con la prospettiva di una sostanziale prosecuzione per altri mesi dello stesso tenore di vita, il vissuto del tempo comincia ad assumere nuovi significati per chi è isolato. Il tempo si sta progressivamente dilatando. Alcuni hanno sfasato sensibilmente i propri ritmi circadiani riducendo le fasi diurne e allungando quelle notturne.
Altrove avevo preannunciato il forte livellamento “democratico” riguardo all’attribuzione sociale di valore del tempo che questa pandemia sta producendo. Tutti abbiamo, grosso modo, lo stesso tempo libero a disposizione: chi sa usarlo meglio lo usi. E così, dunque, la gestione dei tempi vuoti, improduttivi e noiosi sta progressivamente avvicinandosi ad un fisiologico giro di boa: qualcuno diventa più irritabile, qualcun altro invece si accomoda e si annida dentro le proprie vuote routine, con qualche senso di colpa. Altri ancora, i più previdenti, hanno lanciato la sfida alla propria noia e la stanno già vincendo inventandosi nuove attività, nuovi interessi, nuove vite.
Ma quello di nuovo che si sta pian piano affacciandosi dentro le vite di tutti, forse la vera novità, è un nuovo elogio della lentezza e la condanna della fretta.
Quanti di noi stanno già apprezzando questa meravigliosa lentezza? E quanti sapranno conservarla anche dopo la fine della pandemia?
 
Gestione delle distanze
Improvvisamente il mondo globalizzato e interconnesso, tutto raggiungibile in poche ore di aereo, di treno o di automobile, ha smesso di essere così prossimo. Il sentimento di prossimità è totalmente crollato. L’industria del turismo e dei viaggi è di fatto chiusa fino a data da destinarsi. Il mondo è tornato ad essere improvvisamente enorme.
Ma questo sta accadendo anche su scala minore, se pensiamo ai semplici spostamenti da un quartiere all’altro, da paese all’altro, ma su scala ancora più piccola, da un isolato all’altro della propria città. Assistiamo ad una contrazione dello spazio e della percezione di esso. Fare chilometri a piedi o in macchina laddove urgente e possibile per valide e consentite ragioni appare, dopo solo un mese di isolamento, impresa più faticosa. Pigrizia, indolenza, apatia depressiva? Oppure semplice riduzione del raggio di movimento indotto dalle regole restrittive?
 
Contatto fisico e intimità
Un aspetto che certamente sta incidendo moltissimo nella vita delle persone è che questa distanza sociale è soprattutto una distanza fisica, corporea. Il corpo è all’improvviso il vertice della nostra esistenza. In tantissimi di noi, specialmente quelli che vivono l’isolamento in solitudine, siamo rimasti del tutto privi di contatto fisico, di intimità fisica e psicologica, di abbraccio, di inclusione prossemica, di scambio tattile, di sessualità. In tantissimi scoprono improvvisamente come la presenza fisica dell’altro nel proprio spazio psichico e fisico (Bleger la definisce socialità sincretica) è importante in quanto tale. Una di quelle fattualità che, nelle sue variabili forme, definisce il nostro stare al mondo, ma forse anche il nostro appartenere a questa nostra specie. Chi ne risulta deprivato non vede l’ora di risperimentarla appena possibile.
 
Per fortuna c’è internet
Mancando il corpo, il tatto e l’olfatto, ci rimane, per fortuna il contatto virtuale. Non sono di certo tra coloro che svaluta il virtuale in quanto parziale. Se non fosse per il virtuale oggi lavorerebbero molte meno persone e soprattutto avremmo infinitamente meno possibilità di mantenere relazioni con amici e parenti. Il web si sta affollando come non mai, consentendo in tal modo di scoprire (o riscoprire) e sperimentare nuovi modi di interagire. Ciò che fino a un mese fa era un’opzione, oggi è diventato un canale obbligato. Tutto o quasi avviene via web con i social, le chat, le videochiamate, anche di gruppo, dagli aperitivi con gli amici ai corsi di yoga, dalle psicoterapie alle torte, dalle conversazioni amorose a quelle amicali.
 
Gestione delle emozioni. Una nuova feritoia sul mondo interno.
L’interruzione del flusso semio-capitalista dei precedenti stili di vita, confermata da tutte, ed altre ancora, le variazioni delle più comuni abitudini (ripetiamo: la relativizzazione dell’identità lavorativa, la parziale sospensione della compulsione consumistica, la dilatazione del tempo e l’irruzione di noia e lentezza, il restringimento della mobilità, la sospensione del corpo e del contatto, e la ridondanza dei dispositivi virtuali e di passivizzazione, tv, pc, serie, etc.), apre la strada ad un nuovo rapporto con la propria interiorità. Si invertono a volte il giorno con la notte, peggiora in taluni casi la qualità del sonno, mentre altre volte si cominciano a ricordare i sogni. La solitudine, specialmente se “beata”, cioè vissuta con relativa serenità e senza troppe inquietudini, può in alcune situazioni aumentare il rapporto con la propria vita interiore. Si toccano le proprie emozioni con maggiore intensità e discernimento e può cominciare un fruttuoso dialogo che può diventare presto generativo. Di decisioni, di determinazioni, di voglia di cambiamenti.
 
Un nuovo ordine ecologico
Ma mentre dentro qualcosa che si muove comincia ad essere visto e riconosciuto come fonte di cambiamento, là fuori intanto l’ecosistema, che ha ricominciato a respirare e a riorganizzarsi, ritorna a muoversi felicemente approfittando della momentanea latitanza dei sapiens, specie oltremodo invadente e rumorosa. Si moltiplicano nei media le immagini di luoghi normalmente frequentati da esseri umani, ed ora deserti, che si popolano di animali di ogni genere: delfini che guizzano a ridosso dei porti, anatra e anatroccoli che passeggiano in fila sul marciapiedi del lungotevere, una famiglia di cinghiali che passeggia a trastevere, lepri che saltellano nei parchi urbani sotto le case. In tutto il mondo la natura si riappropria di uno spazio sottratto, gli animali si riprendono il pianeta stuprato dai sapiens.
Intanto i sapiens, si chiederanno gli animali, dopo circa 40.000 anni, forse sono tornati nelle caverne, e forse stanno ridipingendo le pareti con le immagini di mostri e animali feroci. Mondo interno popolato di fantasmi e sogni di riuscita e mondo esterno ugualmente popolato di animali selvatici.

Ripensare politicamente la salute come rifondazione dello stare al mondo

Mai come oggi, in piena pandemia, rivedere radicalmente i criteri che definiscono la qualità delle nostre vite è diventata urgenza ed obbligo.

Abbiamo l’imperdibile occasione di rifondare la nostra presenza nel mondo, ripensando e ricostruendo dalle fondamenta ogni pezzo della nostra civiltà e riconoscendo ciò che ha ammalato il mondo e ciò che ha condotto a questa attuale, ancora affrontabile, malattia che ci conduce ad una prigionia planetaria.

Ripensiamo all’economia, in primis, al ruolo demoniaco del debito come strumento di iniquità e violenza sociale. Ripensiamo al reddito come svincolato dal lavoro salariato.

Ripensiamo una politica che parta dai bisogni reali e basici dell’uomo e sia realmente prossima ad essi: i bisogni di continuità esistenziale (casa, reddito, istruzione, cultura, sanità), di progetto: costruire se stessi e la propria famiglia, di vita comunitaria: vivere pacificamente una buona vita insieme ad altri non (vissuti come) estranei e sentirsi parte di una comunità.

Ripensiamo i concetti di progresso, sviluppo, crescita, prosperità, sostenibilità.

Ripensiamo le nostre istituzioni e le nostre deboli democrazie, così poco solidali.

Ripensiamo i nostri welfare con i nostri sistemi sanitari e previdenziali, ripensiamo i sostegni alle famiglie.

Ripensiamo l’istruzione e la ricerca scientifica e umanistica.
 
Abbiamo mesi e mesi davanti a noi per pensarci.
 
 
 

 

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