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CUTRO: Morire per salvare una visione ideologica

11 Mar 23

A cura di Sarantis Thanopulos

Il ministro Piantedosi ha una visione della vita ideologica. Pretende che la realtà si adatti alle sue idee costi quel che costi. Una di queste idee è che se qualcuno cerca di arrivare in Italia in condizioni precarie, fortunose -perché è disperato e questa è la sua unica speranza e scelta-, lo deve fare a suo rischio e pericolo. Non odia il prossimo, né desidera la sua morte, ma il dolore per questa morte (che sicuramente prova) non è per lui motivo sufficiente per spingerlo all’azione di soccorso, se deve contraddire un principio assoluto: l’Italia non è paese per gli sradicati del “terzo mondo”. Nella sua prospettiva si può chiudere un occhio, ci si può rassegnare al fatto che l’applicazione reale di questo principio è in gran parte impossibile, ma in nessun modo si può delegittimarlo con atti o parole che lo contraddicano. Detto in altre parole, il ministro interpreta una funzione laica secondo la morale che domina la dimensione dogmatica della religione. 

Si può ragionevolmente pensare che se il ministro avesse previsto la catastrofe, si sarebbe mosso per prevenirla. Tuttavia per prevedere che qualcosa di terribile potrebbe o sta per accadere bisognerebbe non avere il prosciutto ideologico sugli occhi. I profughi annegati nel mare di Cutro sono morti perché ci si è attenuti fino all’ultimo al rispetto di regole costruite in difesa di un principio ideologico, a scapito di un principio che ha la precedenza su tutti: la salvaguardia delle vite umane. Invece di attivare la guardia costiera, è stata attivata la guardia di finanza che ha dovuto rinunciare alla sua missione per le pessime condizioni meteorologiche (di per sé motivo di allarme rosso a protezione di un’imbarcazione di fortuna carica di esseri umani). La negligenza di fronte a un imminente pericolo, a cui porre rimedio con un’azione immediata ed efficace, è stata poi giustificata con la richiesta di soccorso che non è arrivata e con una virata sbagliata degli scafisti. Come se vedendo, davanti a noi, qualcuno che rischia di annegare, spiegassimo il non essere intervenuti in tempo per soccorrerlo con il fatto che non avesse chiesto  aiuto o che non sapesse nuotare bene. 

Lo spettacolo del ministro che, in parlamento, si arrampicava sugli specchi è stato penoso. Più penosa la standing ovation della sua maggioranza. Una profanazione della memoria dei morti -non solo dei morti di Cutro, ma di tutti i morti- che chiede rispettoso silenzio. Il giusto assetto psichico per non distrarci dalla loro perdita, per sedimentare e elaborare i sentimenti e i pensieri che ci legano a loro. Senza di essi ci impoveriamo e non possiamo significare bene il nostro presente e immaginare il nostro futuro. Le vane acclamazioni, l’esaltazione che nega il lutto, aprono la strada all’oblio della compassione dentro di noi che ci rende indifferenti. 

Salvare la vita di chi potrebbe, sta per morire non è il rispetto di un diritto. È un dovere nei confronti di noi stessi e della comunità umana. Se permettiamo che un essere umano muoia, mentre possiamo salvarlo, mettiamo in discussione il senso del vivere, perché non è in gioco la sopravvivenza fisica, ma la persistenza e lo sviluppo dei sentimenti umani. Ogni persona è un oggetto potenziale del nostro desiderio. Poiché è questa potenzialità che rende il desiderio libero, non calcolato né predefinito, con ogni persona che si perde, a causa della nostra indolenza o indifferenza, si perde un pezzo del nostro sentirci vivi. 

Il governo non può risolvere la questione della responsabilità di questo disastro, che è una sconfitta dell’umano, con un’autoassoluzione. Chi semina vento raccoglie tempesta. Perfino se Piantedosi avesse la ragione dalla sua parte, e manifestamente non ce l’ha, chi lo sostiene non dovrebbe esultare. La mancanza di decoro mostra l’effetto ubriacante di un approccio ideologico alla realtà e non promette nulla di buono.  

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