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Dalla Consensus Conference sul Counseling ad una piattaforma di politica professionale comune a tutte le professioni di aiuto

28 Feb 16

A cura di ciofi

Nel prossimo mese di marzo (2016) sono invitato come relatore a due importanti convegni sul Counseling, il primo a Roma organizzato da ANCoRe ed il secondo a Milano organizzato da Assocounseling.

Queste note vogliono rappresentare una pubblica riflessione in preparazione di quanto, nelle due circostanze, sarà il fulcro del mio intervento.

Procediamo con ordine: Il 18 dicembre 2015 il Consiglio Nazionale dell'Ordine degli Psicologi ha avviato le procedure per arrivare, nel corso del 2016, ad unaConsensus Conference sul Counseling.

Chi segue il mio blog sa che ho accolto positivamente l'iniziativa e l'invito a parteciparvi e che ho valutato positivamente, sia pure con prudenza, l'esito della prima e per ora unica, riunione effettuata.

Passaggio encomiabile dunque, visto anche il momento storico nel quale le tensioni tra la psicologia professionale e le professioni a questa limitrofe, principale delle quali il Counseling, sono molto evidenti, sia sul piano politico professionale che su quello giudiziario.

Relativamente ai lavori della prima giornata di preparazione alla Consensus Conference trovo nodale il fatto, ancorché discutibile come in effetti è stato discusso, che il counseling venga identificato come "funzione" collegata ad altre professionalità e non come possibile "professione in sé"… Continuo a non essere molto convinto di tale assunto ma si tratta, dal mio punto di vista, di questione ermeneutica.

Ricordo che molti anni addietro una mia cliente mi definiva, e la definizione non era scorretta, "il mio amico a pagamento". Chiaro che ove si intendesse che possa esistere, come di fatto esiste a prescindere dall'iscrizione ad un qualche albo professionale, la professione di "amico a pagamento", nulla mi impedirebbe di concordare sul fatto che tale "amico a pagamento" possa e probabilmente debba, maturare competenze di counseling. Ciò che voglio sottolineare è che quando non parliamo di sanità ci muoviamo in un mercato libero, ove non ci sono competenze specificamente protette. Esse dunque dovranno affermarsi attraverso il sano gioco della concorrenza.

Perfettamente in linea invece sul fatto che qualunque tipo di counseling sia collegato a più o meno ampie competenze di natura psicologica. Competenze certo da acquisirsi attraverso una formazione che sicuramente avrà a che fare con teorie e pratiche psicologiche ma che mai e poi mai potrà essere riservata a soli psicologi pena il costituirsi di "caste" che la società non è disposta né a comprendere né a tollerare.

Capisco che alcuni colleghi psicologi alzeranno il sopracciglio in segno di disapprovazione leggendo quanto sopra ma ciò che voglio dire, e non mi pare più di tanto contestabile, è che in una società in pieno cambiamento le professioni di "ambito" psicologico nascono continuamente (in ordine cronologico l'ultima arrivata in Italia è quella di "Insegnante di Felicità" che già può vantare qualche contratto con pubbliche istituzioni). In questo quadro non sembrerebbe dunque molto utile focalizzare il dibattito attorno alla distinzione funzione/professione, più importante, mi pare, è centrarsi sui percorsi formativi e sui processi professionalizzanti dei quali parlerò più oltre.

Si è parlato, nella Consensus Conference, anche dell'art. 21 del codice Deontologico degli Psicologi Italiani ed apprezzo ciò che è stato detto poiché, su un tema sensibile, si comincia ad aprire un dibattito. La mia posizione, certamente semplice e certamente intelligibile è, e non ero il solo a sostenere la tesi, che l'art 21 debba essere semplicemente abolito.

Comunque nessuno può dire ad oggi se l'iniziativa della Consensus Conferece riuscirà a produrre la svolta consistente nel dare vita ad una, più volte dal MoPI auspicata, "famiglia delle professioni di ambito psicologico". Nè questo è il suo obiettivo volendo la stessa limitarsi a definire i rapporti tra counseling e psicologia.

Se centriamo l'analisi sugli attuali dati di realtà (le polemiche politico professionalila giurisprudenza controversal'aggressività in tema di articolo 21 del codice deontologico degli psicologi etc..) non si può che essere pessimisti sull'evoluzione del percorso avviato. La situazione è talmente "rovente" che il mio piccolo manuale di sopravvivenza per counselor e psicologi formatori ha avuto un numero record di visualizzazioni.

Ma occorre anche riconoscere che mai, da quando oltre venti anni fa il Counseling è nato nel nostro paese, si era arrivati ad un confronto così importante, istituzionale e giudiziario, tra la comunità degli psicologi e quella confinante e per alcuni segmenti sovrapponibile rappresentata dal mondo delle libere associazioni dedite ai più vari tipi di relazioni di aiuto.

E' lecito dunque contrapporre al pessimismo della ragione l'ottimismo della volontà.

E personalmente voglio andare oltre il semplice ottimismo. Ritengo sia maturo il momento per poter proporre, a tutte le professioni che si collocano nell'area della relazione di aiuto, una piattaforma comune alla quale insieme poter lavorare.

Partiamo da una riflessione generale. Nessuna realtà può essere costruita se prima non è sognata, sperata, progettata. Le leggi nelle nostre società "democratiche" non hanno alcunché di divino. Possono essere modificate ed aggiustate più e più volte… Dunque facciamo questo tentativo, proviamo a "pensare" sentendoci liberi da vincoli che troppo spesso diamo per scontati anche se scontati non sono affatto.

Il futuro delle nostre professioni non è la più o meno diligente "manutenzione" di ciò che esiste. Il futuro è ricerca di prospettive nuove. E tali prospettive emergono quando si abbia il coraggio di "aprire le frontiere", di confrontarsi con "il resto del mondo". Ragionamento che non vale solo per la nostra piccola comunità, mutatis mutandis si tratta di tema centrale nel dibattito politico dell'intero occidente.

Abbattere frontiere comporta il rischio inevitabile di regredire, è sostanzialmente azione di destrutturazione. Ma al contempo consente la costruzione di nuovi scenari, di nuove opportunità. Destrutturare può essere ansiogeno ma anche liberatorio e attivatore di speranza… conservare può apparire protettivo, ma può rivelarsi soffocante.

Capisco che queste riflessioni di carattere generale, applicate al contesto che ci riguarda, siano più condivisibili dai Counselor che non dagli Psicologi. E' naturale… tende a voler destrutturare chi si sente stretto… Tende a conservare chi in qualche modo si sente protetto… A volte chi si sente protetto fatica a comprendere che quella che vede come protezione è in realtà una gabbia.

Ma proviamo a prendere un poco di distanza:

Il mio punto di vista è che la politica professionale che gli psicologi stanno portando avanti sia completamente sbagliata (più volte ho avuto modo di definirla suicidaria)

a. Sbagliata nella cornice: trovo che l'Ordine sia strumento obsoleto e limitante.

b. Sbagliata nelle strategie: trovo che sanitarizzare la professione di psicologo sia una sciagura.

c. Sbagliata nella comunicazione: trovo che dare voce alle paure e gridare aiuto aiuto gli altri cattivi ci vogliono espropriare, sia meno efficace del valorizzare le proprie competenze.

d. Sbagliata nelle tattiche: Sottrarsi all'aggiornamento permanente cui ogni professionista è tenuto accampando sofismi non nobilita certo la professione.

e. Sbagliata nelle politiche: Il nostro lavoro ha contribuito a costruire un mondo di professioni e la nostra ferma intenzione pare essere quella di rompere tutti quei rapporti che a tali professioni ci legano.

Ne consegue che riterrei necessario lavorare da subito ad una serie di obiettivi che di seguito elencherò. Inizialmente avevo pensato a questo come ad un programma politico professionale della comunità degli psicologi. Ma presto mi sono reso conto che questo può essere un programma unificante per tutte le professioni di aiuto.

Credo infatti, e questo è il contributo che voglio portare in questo contesto, che sia maturo il momento storico per poter aprire un grande "tavolo" interprofessionale al quale chiamare tutte le realtà organizzate che nel nostro paese si occupano di relazioni di aiuto. E che a tale "tavolo" gli psicologi non possano mancare. E non mancheranno. Auspicherei che fossero presenti a livello istituzionale ma se così non fosse saranno certo presenti attraverso la sigla "storica", il MoPI, che mi onoro di rappresentare.

Ciò detto vado a illustrare i punti che ritengo essenziali:

1. Abolizione dell'Ordine degli Psicologi (e magari anche di quello degli Assistenti Sociali e dei Giornalisti… e magari di tutti gli Ordini ad eccezione di quello dei Medici e a quello degli Avvocati poiché per eliminarli occorrerebbero riforme costituzionali)

Perché è così fondamentale la riforma del sistema ordinistico?

A mio modo di vedere il nodo più rilevante è costituito dalla contraddizione tra l'idea di professionista-imprenditore ed esistenza di un Ordine Professionale. Contraddizione insanabile fatalmente destinata a risolversi con l'abolizione degli Ordini o almeno con una loro molto radicale trasformazione. Infatti l'esistenza stessa dell'Ordine Professionale rappresenta un "cartello" un limite al principio cardine della libera concorrenza tra imprese. Nel nostro specifico settore poi gli Ordini sono contenitori "rigidi" a fronte di professioni sempre più "liquide", dunque contenitori sempre più inadeguati a rendere adattabili le professioni al mutare vorticoso delle realtà sociali.

Abolire gli Ordini è la condicio sine qua non per poter procedere nel progetto di dare una piattaforma comune alle professioni di aiuto?

Una decina di anni fa (all'epoca delle "lenzuolate" di Bersani) ero più che convinto che l'abolizione degli Ordini sarebbe stata imminente. Amaramente ho dovuto ricredermi. Oggi non penso più, anche se lo auspico, che l'abolizione dell'Ordine sia imminente. Realisticamente ritengo dunque che la prospettiva della profonda modifica del sistema ordinistico debba rimanere obiettivo essenziale ma che nel frattempo debbano essere messe in atto strategie sviluppabili anche a prescindere da come si evolverà il dibattito sulla riforma delle professioni intellettuali nel nostro paese.

Perchè tutti i professionisti non iscritti ad alcun Ordine professionale, come i counselor, dovrebbero condividere questo obiettivo? Semplicemente perché si tratta di puro e semplice obiettivo di civiltà. A qualunque privilegio di cui alcuni godono corrisponde una tassa che altri pagano. Gli Ordini sono centri di privilegio, matematico dunque che a qualcuno arrivi "il conto". Ma c'è anche un motivo più specifico, avere come interlocutori libere associazioni di psicologi anzichè l'Ordine, consentirebbe di avere fluidità di relazioni politico professionali molto più ampie.

2. Costituzione di Associazioni professionali di categoria degli psicologi ai sensi della legge 4/2013

Occorre iniziare a pensare, seriamente, che l'organizzazione delle professioni sta cambiando. Sempre più il modello diventerà quello accreditatorio. Perchè non procedere da subito, anche all'interno delle professioni regolamentate a forme che vadano in questa direzione? (ad esempio ho visto ed apprezzato un tentativo di un collega di dar vita ad una associazione professionale di counselor psicologici ma il tentativo è stato così maldestro….che non merita alcun commento positivo). Gli Ordini potrebbero pensare ad aggregare, sia pure su base volontaria, i propri iscritti, dividendoli per competenze, per esperienza professionale, riconoscendo "crediti" etc… Molti anni fa con l'amico Robert Bergonzi avevamo cercato di avviare un simile percorso in Lombardia.

Anche in presenza dell'Ordine la costituzione di tali associazioni articolerebbe da subito, e sarebbe capace di diversificare, l'offerta professionale in ambito psicologico.

Tanto per fare un esempio collegato a eventi attuali, una ipotetica associazione di psicologi scolastici potrebbe essere in concorrenza con counselor che insistano nello stesso segmento, ma anche potrebbe, in un diverso contesto, operare sinergicamente. Ciò che alla società interessa è avere servizi qualificati e ciò che agli operatori interessa è avere valide opportunità professionali… E oggi viviamo nell'epoca delle "reti" ove più che mai è vero che "l'unione fa la forza"

3. Adesione di tali Associazioni al COLAP

Obiettivo del COLAP è di implementare e sostenere il sistema duale delle professioni in Italia, rappresentato dagli Ordini professionali – in qualità di enti pubblici di controllo sulle attività connesse ad interessi costituzionalmente garantiti – e dalle associazioni professionali, soggetti in grado di valorizzare le competenze degli associati e garantire il rispetto delle regole deontologiche, agevolando la scelta e la tutela degli utenti nel rispetto delle regole sulla concorrenza, anche alla luce della legge 4/2013.

A livello di grandi raggruppamenti interprofessionali dialoganti con il Governo e più in generale con la politica partitica pare essere il giusto luogo associativo per svolgere le funzioni di coordinamento e collegamento all'interno di una trasformazione così complessa quale quella che vado delineando. Tenuto conto anche della storia dello stesso COLAP che da sempre si è intersecata con l'articolazione delle professioni di aiuto in Italia.

4. Retromarcia rispetto al progetto di sanitarizzazione della psicologia

Occorrerebbe cominciare a lavorare sul "sanitario sì, sanitario no". Non vi è dubbio sul fatto che parte della professione di psicologo è sanitaria. Si tratta però di una piccola parte. Come veniamo incontro alle specifiche esigenze di tutti gli altri segmenti della psicologia? E' possibile, allo stato dei fatti scorporare qualcosa dal sanitario?

Il fatto che la psicologia professionale persegua la "sanitarizzazione" comporta conseguenze
a. Gli psicologi che lavorano nelle ASL rafforzano la loro presenza, in termini di diritti, di ruoli, di carriera, nelle strutture nelle quali operano.

b. In generale la professione di psicologo diventa "più forte" nell'ambito del settore pubblico ("sanitario" è parola magica che accresce il prestigio)

c. Le regole sanitarie (vedi ECM, ma vedi anche protezione del sistema Ordinistico) si estendono a tutta la comunità degli psicologi. Siano essi pubblici dipendenti oppure no.

d. Le professioni di aiuto "non sanitarie" (vedi counseling, mediazione etc…) per contrasto si definiscono con maggiore nitidezza (la differenza? Voi psicologi siete sanitari, noi aiutiamo chi non è malato…)

Perché è un male che la psicologia professionale diventi "tout court" professione sanitaria?

Per rispondere dobbiamo ampliare la riflessione. Il counseling rappresenta oggi lo sviluppo che la psicologia professionale avrebbe potuto avere ma non ha voluto avere, una professione improntata alle scienze umane centrata su saperi trasversali con forti capacità di penetrazione nel sociale. Dal mio punto di vista la psicologia professionale ha perso dunque un appuntamento storico abdicando al suo ruolo e contentandosi del "piatto di lenticchie" del ruolo di "aiuto" rispetto alla medicina.

Ma se la psicologia professionale cambia rotta tuttora possiede gli strumenti per diventare collante e riferimento per tutta una serie di professioni "liquide" (counseling in primis ma non solo, il campo delle professioni di aiuto in qualche modo collegate alla psicologia è innumerevole)

5. Scorporo della psicoterapia rispetto alla psicologia ed alla medicina

La questione è di portata enorme. La decisione del legislatore di affidare in esclusiva la psicoterapia a medici e psicologi (Legge 56/89) e di non riconoscere alla psicoterapia uno statuto autonomo ha prodotto una infinità di conseguenze.

Vediamo solo le più rilevanti:

a. Sanitarizzazione della psicologia professionale

b. Sparizione dalla scena politico professionale della psicoanalisi (sostituita dalla psicoterapia psicoanalitica che, come ben sa chi ha una formazione psicodinamica, è ben altra cosa)

c. Nascita di tutta una serie di professioni di ambito psicologico, prima fra tutte il counseling, e loro sviluppo conflittuale, anzichè sinergico, rispetto alla psicologia professionale.

In termini scientifico culturali il nodo è ben descritto dal mio collega ed amico Tullio Carere Comes del quale riporto un significativo passaggio:

La lingua italiana utilizza una sola parola per denotare due aree ben distinte, per le quali la lingua inglese utilizza due parole diverse: cure e care. La cure è un trattamento di tipo medico, che consiste nel diagnosticare un disturbo e trattarlo con procedure di cui la ricerca empirica ha mostrato l’efficacia per il trattamento di quel disturbo. La care è una cura del sé, della persona, del soggetto o dell'anima, una pratica che è inseparabile dall'esistenza stessa dell'uomo, dalla nascita in avanti. L'essere umano non potrebbe sopravvivere senza cure materne e paterne, né potrebbe crescere culturalmente senza le cure di insegnanti, filosofi, sciamani, sacerdoti che provvedono al suo sviluppo sociale ed esistenziale. Tutto questo è care.

Un numero crescente di persone che in altri tempi si sarebbero rivolte alla guida di sciamani e sacerdoti oggi si rivolgono a psicoanalisti, psicoterapeuti, counselor, coach, mediatori familiari e altre figure, con una richiesta di aiuto inquadrabile come care, e non come cure. Certamente anche qui la richiesta di cura è di regola motivata da un disagio, ma la risposta, se è care, non ha nulla a che vedere con l'approccio medico di diagnosi e trattamento a base di procedure empiricamente supportate. Si tratta invece di un tipo di cura in cui il significato del disagio (inclusi eventuali sintomi fisici o mentali) è cercato nel contesto esistenziale e nella storia del soggetto, e il trattamento è una risposta ai bisogni basilari di accoglimento, ascolto, confronto, dialogo, consapevolezza, maturazione per come si manifestano nel processo che si sviluppa nella relazione di cura, sempre unica e imprevedibile.

La divisione tra i due tipi di cura si riflette esattamente nella spaccatura che negli ultimi decenni si è fatta sempre più profonda in campo psicoterapeutico, tra i professionisti della cure, spesso detti empirici, e quelli della care, spesso detti ermeneutici. Tra i due schieramenti l'ostilità e l'incomprensione sono profonde, con una delegittimazione reciproca diffusa. Questo stato di cose può essere ricondotto all'errore di usare una sola parola, "psicoterapia", per due pratiche essenzialmente diverse. 

Dovrebbe essere chiaro che la "psicoterapia" cui si riferisce la legge 56/89 è solo una delle due pratiche, precisamente quella che in inglese si chiama cure. Infatti, per l'esercizio della care una laurea in medicina o psicologia non è logicamente richiesta, come preparazione di base potendo essere non meno indicati, e forse anche più utili, altri percorsi formativi ed esistenziali, ferma restando la necessità di una formazione specifica alla care (scuole di psicoterapia, psicoanalisi, counseling, ecc). 

Ovvio che qualora si concordi, come io concordo, con questa visione delle cose ben si comprenderà che andare ad individuare la psicoterapia come professione autonoma, scollegata dalla psicologia ed alla medicina, consentirebbe:

a. di recuperare la storia della psicoterapia in tutte le sue sfaccettature

b. di dare una risposta culturalmente e scientificamente sostenibile alla questione della "psicoanalisi laica"

c. di organizzare percorsi formativi che vedano counseling e psicoterapia come un continuum lungo uno stesso asse

d. di dare al sanitario ciò che è sanitario e contemporaneamente armonizzare il sanitario con la cultura del benessere, da vedersi non come conflittuale ma anzi complementare.

6. Inserimento di alcune specializzazioni (con le loro associazioni) tra le professioni sanitarie (alcuni modelli di psicoterapia, neuropsicologia, psicologia ospedaliera, psicooncologia etc….)

E' la naturale conseguenza di quanto sin qui affermato. E' indubbio che alcune specializzazioni di ambito psicologico siano prettamente sanitarie. Ma una volta "spacchettato" il quadro complessivo nuove aggregazioni di tipo professionale potrebbero essere ricomposte. E dunque una serie di specializzazioni, organizzate in associazioni professionali potrebbero, senza conflitto alcuno accreditarsi presso il Ministero della salute ottenendo lo status di professioni sanitarie.

7. Adeguamento di tutte le Associazioni di categoria afferenti alla psicologia agli standard europei per quanto attiene aggiornamento permanente, certificazione delle competenze, effettività dello svolgimento della professione.

Una comunità autorevole si fa carico delle proprie resposabilità. Tutti i professionisti hanno l'obbligo dell'aggiornamento permanente (che oggi per gli psicologi significa ECM).  Le professioni nel terzo millennio devono essere vive. I percorsi formativi devono essere costantemente aggiornati e sempre ostensibili. E' professionista chi ha i titoli che servono per esserlo più altre cose. Avere i titoli (che ogni libera associazione richiederà) è prerequisito necessario ma non sufficiente. L'altro è l'aggiornamento, è la dimostrazione periodica di esercitare la professione. Ed in base a ciò che effettivamente si fa si sviluppa la carriera, si acquisiscono titoli. Cominciamo a disegnare delle strade congruenti con questi principi. E' questo che intendo quando parlo di processi professionalizzanti.

8. Immediata apertura di un tavolo di confronto con le professioni limitrofe. Non ci sono armistizi da fare. C'è da lavorare tutti insieme per costruire la famiglia delle professioni di aiuto.

Le professioni di ambito psicologico (dal counseling alla psicoterapia, alla psicoanalisi laica etc..) sono sinergiche e non tra loro "nemiche". Cominciamo ad aprire dei tavoli di confronto. Ci accorgeremmo del grande potenziale che tutti insieme possediamo. Ad esempio, una istituzione degli Psicologi, l'ENPAP, non potrebbe aprire un tavolo sulla previdenza con le professioni ex legge 4/2013 afferenti all'ambito della psicologia? A mio avviso (presentai senza successo una proposta quando ero nel cda nel lontano 2003) saremmo ancora in tempo per elaborare progetti interessanti.

9. Riconoscimento delle specificità di ciascuna professione attraverso protocolli interprofessionali (no a riserve professionali se non per specifici e ben definiti segmenti inclusi nel novero delle professioni sanitarie di cui al punto 6)

Dal mio punto di vista il problema è quello di costruire una psicologia professionale che abbia in sè tutte le sue sfaccettature, il counseling, la mediazione, il coaching, la psicopedagogia etc, e che non pretenda che tali sfaccettature siano tutte prerogativa di chi è laureato in psicologia ed iscritto all'Ordine degli psicologi, ma che sappia assumere un ruolo di orientamento di questa immensa famiglia. Occorre da una parte dare un adeguato ed unico contenitore a tutti gli “psi” possibili (in questo senso la presenza degli ordini è sostanzialmente un intralcio…  in ogni caso la differenza può essere fatta anche da chi tali ordini governa), d’altra parte, nel mentre creiamo un unico contenitore ideale per tutto ciò che è psicologia occorre anche essere noi per primi ad illustrare, evidenziare e favorire la differenziazione interna che significa poi crescita del contenitore complessivo.

10. Apertura ed incoraggiamento nei confronti di professioni emergenti che attengano al campo della psicologia.

A me fa piacere che tanti studenti si avvicinino al mondo della psicologia e che tante professioni si accostino ad essa. Tanto più la società sarà da noi messa in grado di appropriarsi di nostre competenze tanto più il nostro lavoro sarà ben fatto. Dunque l'atteggiamento, nei confronti delle nuove professioni che continuamente sia affacciano sulla nostra scena dovrà essere di incoraggiamento e dialogo.

11. Valorizzazione delle lauree triennali in psicologia, pedagogia, sociologia, filosofia e funzione di orientamento per l'avviamento professionale dei triennalisti laureati.

Voglio dire con franchezza di non essere favorevole al numero programmato degli accessi alle facoltà di psicologia (e neppure alle scuole di specializzazione) così come non sono favorevole a nessun ostacolo che limiti eccessivamente l'accesso alla professione. Il mio punto di vista è che l'Università debba offrire formazione a tutti coloro che la chiedono (e sono favorevole al 3+2 che amplia questa possibilità) e che analogamente così dovrebbe essere per le scuole di specializzazione. Trovo che compito delle istituzioni che governano la professione debba essere quello di offrire opportunità professionali in una logica accreditatoria (che detto in parole povere significa: va avanti e fa carriera chi costantemente, attraverso meccanismi ostensibili, dimostra di valere, gli altri restano formati, a qualcosa servirà loro, ma rimangono indietro nelle possibilità di carriera).

12. Valorizzazione del tessuto privato di formazione (in psicoterapia, in counseling, in mediazione etc…) e coordinamento dello stesso con l'accademia e con le professioni.

Dagli anni 70' in poi la comunità professionale che ha come riferimento la psicologia ha accumulato un patrimonio di conoscenze ed una struttura formativa di tutto rispetto (si pensi alle Università, alle scuole private di formazione in psicoterapia, alle scuole di counseling o di mediazione familiare etc…). Spesso tale patrimonio non è adeguatamente utilizzato nè correttamente collegato alle nostre professioni.  All'interno del complessivo quadro che ho delineato sarà dunque indispensabile prevedere il coinvolgimento, politico professionale, di "vision" delle nostre strutture formative.



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Sono così arrivato al termine di questa lunga riflessione e ringrazio chi sin qui ha avuto la pazienza di seguirmi.



Naturalmente per motivi di tempo non dirò ai convegni ai quali sono invitato, tutte le cose che qui ho scritto.



Ma avrò piacere di raccogliere, da parte dei miei lettori, ulteriori spunti sui quali riflettere.



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Sinossi: È un libro di testo per allievi delle Scuole di Counseling per offrire loro le prime basi teoriche a partire dagli aspetti filosofici e metodologici. è un libro per il counseling, per arricchirlo di scientificità attraverso la ricerca: raccolta di dati e analisi statistica. Un libro per i professionisti che si interrogano sul counseling e faticano a definirlo. E sul lavoro dei counselor, raccontato attraverso interviste che forniscono immagini del counseling come professione. è un libro scritto col cuore quando i counselor si raccontano nel loro percorso personale e formativo. è soprattutto un libro per conoscere il counseling, per comprenderlo da vicino, per utilizzarlo quando serve.

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