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Dare spazio alla variabilità senza tempo

9 Set 20

A cura di antonello.sciacchi16

Un ossimoro

Potrei anche parlare di variabilità fuori dal tempo; intenderei qualcosa di diverso dallo sviluppo storico di un fenomeno dentro al tempo, che prima si presenta così e poi cosà. Da dove mi verrebbe la bizzarra idea? Niente meno che da Freud e… da qualche altro.

In effetti, è incredibile per chi non abbia pratica di psicanalisi e non sappia riconoscere come di due concetti uno si celi sotto l’altro. Per aggirare la censura, diceva Freud. La spiegazione antropomorfa non mi convince, ma il fatto resta e va messo in luce senza giustificazioni ideologiche. C’è anche una stupefacente sincronia storica tra i due eventi cui mi riferisco, che marcano il passaggio epocale dall’antica variabilità dentro al tempo, diacronica e storica, alla moderna variabilità fuori dal tempo, sincronica o nello spazio, nel senso che spiegherò. È una transizione tra due epoche di pensiero imparagonabili: dalla pre-scientifica alla scientifica.

Smetto di parlare per enigmi. Mi riferisco all’attività di due geni unici, Georg Cantor e Sigmund Freud, due teste tedesche che, allo spirare del XIX secolo, donarono all’umanità due costruzioni di pensiero destinate a rimanere per sempre: Cantor la teoria degli insiemi, Freud dell’inconscio. L’insieme di Cantor e l’inconscio di Freud hanno in comune proprio la variabilità sincronica, fuori dal tempo, contrapposta alla diacronica, dentro al tempo, la sola che l’antichità conosceva; quella fuori dal tempo fu un’innovazione dell’epoca moderna scientifica.

Un altro enigma? La variabilità sincronica sembra un ossimoro come “ghiaccio bollente”. Invece, le due citate intuizioni sono scientifiche, autonome e strutturalmente affini. E ce n’è una terza di poco successiva, che le salda ancora più strettamente insieme: la relatività di Einstein, la quale tratta l’uniformità delle leggi del moto in sistemi di coordinate in moto reciproco e stabilisce la natura spaziale del tempo.

Risaliamo alle origini. Il moderno soggetto della scienza galileiana esordì con un enunciato anticamente inconcepibile senza adeguata concezione della variabilità: “Nel vuoto tutti i corpi cadono allo stesso modo”. Galilei stabilì il teorema; disse cosa avviene nello spazio a prescindere dal tempo; per questa ragione parlo di variabilità spaziale o sincronica. L’enunciato galileiano sovvertì la fisica antropomorfa, ancora ilozoista, di Aristotele, secondo cui i corpi pesanti cadono – i più pesanti più velocemente degli altri – mentre i leggeri salgono.

Per la mentalità classica, ormai decaduta a senso comune, non è facile afferrare il concetto di variabilità all’interno dell’equivalenza (“cadono allo stesso modo”). Siamo ingenuamente abituati a pensare a ciò che varia come a qualcosa che si presenta in modi diversi nel tempo, come nel bollettino meteorologico “sereno variabile”. Invece è proprio l’equivalenza a stabilire la variabilità sincrona nello spazio. I corpi hanno peso variabile, riconoscibile come diverso perché si equivalgono nella caduta, che è sincrona e uguale per tutti. Sembra un paradosso: “Io ho peso diverso dal tuo perché cado come te”. Eppure, a ben vedere, è giusto: la diversità si può stabilire solo su una piattaforma di uguaglianza. La bilancia certifica la diversità dei pesi solo all’equilibrio sin dai tempi di Archimede.

Cosa c’entra la fisica con Cantor e Freud? Cerco di farlo vedere più da vicino.
 
Cantor

I rapporti scientifici tra individuale e collettivo furono definiti dalla famosa “definizione” cantoriana d’insieme. Per la sua pregnanza semantica la riporto prima in tedesco e poi la spiego – non la traduco – in italiano.

Unter eine “Menge” verstehen wir jede Zusammenfassung M von bestimmten wohlunterschiedenen Objekten m unserer Anschauung oder unseres Denkens (welche die “Elemente” von M genannt werden) zu einem Ganzen.

Con “insieme” intendiamo nel complesso ogni riunione M di m oggetti determinati e ben distinti della nostra intuizione o del nostro pensiero, detti “elementi” di M.

La mia versione sembra tautologica: con “insieme” intendiamo nel complesso. La tautologia è voluta.Mi spiego. Di solito Zusammenfassungsitraduce “collezione”, che si retro-tradurrebbe Sammlung; “collezione” perde la connotazione di “riassunto”. Infatti, gli elementi di un insieme sono “assunti di nuovo” da elementi isolati a parti dell’insieme, che è la loro riunione. La “riunione” è l’operazione cantoriana che genera un nuovo insieme da elementi “ben distinti”, eventualmente zero nella riunione vuota (Cantor non precisa che m ≥ 0). Dopo l’assemblaggio, gli elementi non sono più per sé ma per altro, direbbe il filosofo. Formano l’unità dell’intero:[1] questo è il punto cruciale della definizione, che la sintassi tedesca pone alla fine dell’enunciato perché si memorizzi meglio: zu einem Ganzen, “nel complesso. Ricordiamolo, perché rappresenta il punto cruciale della mia argomentazione: nell’operazione insiemistica si raggiunge, sì o no, l’unità del complesso?

Il linguista, invece, fa un discorso meno ontologico. Nota l’incrocio tra due dimensioni, che sarà alla base del famoso procedimento “diagonale” (o autoreferenziale) di Cantor. Nella sua definizione, infatti, interferiscono due dimensioni: la sintattica e la semantica. La sintassi è attiva a livello della riunione degli elementi, che può essere concepita in termini ricorsivi: dato un insieme di elementi si ottiene un nuovo insieme aggiungendo un nuovo elemento. La semantica interviene alla fine del processo di unificazione degli elementi, attribuendo all’insieme il significato di un tutto (zu einem Ganzen).

Il matematico semplifica. La definizione cantoriana è ancora troppo complessa, perché parla di oggetti, di elementi e di insiemi. In pratica come si fa un insieme? mettendo insieme degli insiemi. Oggi decade la distinzione cantoriana tra elementi e insiemi, che ha un grosso difetto: impedisce di definire l’insieme vuoto, cioè l’insieme senza elementi. Invece la definizione moderna, apparentemente tautologica, di insieme come insieme di insiemi, non soffre di questo difetto. Ha inoltre il vantaggio di far decadere la nozione di appartenenza del greco uparchein (“essere presente”). La teoria delle categorie (1945), che tratta le strutture algebriche insieme ai loro omomorfismi, opera sugli insiemi tramite le loro applicazioni (mappe); lascia a Peano il simbolo di appartenenza, con riferimento ontologico al greco estì, non necessario nel contesto epistemico della teoria degli insiemi.

Per quanto attiene al discorso della variabilità, bisogna ricordare che il matematico astrae e generalizza. Il concetto d’insieme realizza una doppia astrazione; distilla la nozione di variabilità nella sua purezza, astraendo dalla natura ontica degli elementi e dal loro ordinamento. Per indicare la potenza dell’insieme – intuitivamente il “numero” dei suoi elementi – Cantor usava sovrapporre due lineette al simbolo dell’insieme, per il doppio “a prescindere” dall’ontologia e dall’ordinamento temporale. Con Cantor siamo fuori dalla fenomenologia di essere e tempo; entriamo nell’epistemologia che prescinde dalle essenze. Gli elementi di un insieme non hanno in comune alcuna essenza – o modo di essere “vero”; gli elementi stanno insieme solo perché giacciono (liegen) nello stesso insieme. Il naso di Cleopatra e il naso di Napoleone formano un insieme, anche se essenzialmente diversi. Sembra una tautologia, ma esprime solo la precedenza dell’insieme rispetto ai suoi elementi, come dimostra l’insieme vuoto (m = 0), contenuto in ogni insieme; non sono gli elementi a formare l’insieme ma è l’insieme a formare gli elementi. Ritorna sotto altre spoglie l’enunciato galileiano: “Nel vuoto tutti i corpi cadono allo stesso modo”. Nel vuoto dell’insieme si formano gli insiemi. L’insieme apre uno spazio generico di pensiero – un vuoto – non necessariamente concettuale.

L’insieme può essere caratterizzato formalmente da una proprietà caratteristica, che prescinde dall’ontologia ed è dell’insieme prima che degli elementi. Il risultato è che nell’insieme cantoriano gli elementi sono presenti in sincronia e tutti diversi. In pratica, non esistono elementi ripetuti né distribuiti nel tempo. A ciò si riferisce il mio titolo: variabilità senza tempo o sincronica, senza durata alla Bergson. Con l’espressione ossimorica intendo l’estensione cartesiana allo stato puro, che considero l’altro nome della variabilità nello spazio. La quale è definita dalla proprietà caratteristica dell’insieme, che unifica gli elementi dell’insieme nella loro varietà senza specificarne l’essenza. Essenza è un termine filosofico (ontologico) estraneo al discorso scientifico.

Alla fine si capisce come mai gli antichi, che né in greco né in latino ebbero il termine per indicare la variabilità, non accedettero alla scienza moderna. Non avendo strumenti per trattare la pluralità nella sincronia, la loro scienza rimase la conoscenza storica delle singolarità, regolata dal principio ontologico di ragion sufficiente, per cui ogni effetto era univocamente determinato da una causa specifica e la verità si dava unicamente in modo narrativo nel singolo caso. Così la scienza antica perdette la verità dei molti, pur avendo adottato la verità e non il sapere, come faro guida del pensiero filosofico, che oggi continua a illuminare la fenomenologia come suo telos. In epoca moderna la verità non preesiste al sapere a livello trascendentale; è l’invenzione provvisoria e contingente del sapere.[2]

Esempi tipici di insiemi cantoriani sono gli insiemi numerabili dei numeri interi e razionali (le frazioni) e l’insieme più che numerabile dei numeri reali. Da lì Cantor partì per individuare la successione crescente dei numeri transfiniti.
 
Freud

Freud è a metà strada tra scienza antica e moderna. La sua metapsicologia è antica; è la tipica forma di conoscenza tramite cause, l’aristotelico scire per causas. Per Freud ogni effetto psichico ha una causa psichica che lo determina in modo univoco: la pulsione. In termini aristotelici, le pulsioni sono cause efficienti o finali. Sono cause efficienti le pulsioni sessuali che mirano alla soddisfazione sessuale tramite lo scarico all’esterno dell’energia libidica, sul modello dell’orgasmo maschile. La causa finale è la pulsione di morte che mantiene l’eccitazione psichica al più basso livello possibile con ripetute scariche parziali dell’energia psichica, introdotta nella psiche dal trauma originario. La variabilità di Freud, che Freud non chiama così, è dentro al tempo: è la variabilità dello sviluppo psichico o del progresso “asintotico” e diacronico della cura.[3] Tuttavia Freud non si chiese mai se la correlazione tra causa ed effetto dentro al tempofosse casuale o sistematica. In ciò non fu uomo di scienza ma di dottrina; non prevedeva di falsificare i propri enunciati.

Ma in Freud c’è anche la modernità; c’è la variabilità fuori dal tempo, tipica della scientificità moderna. È la variabilità della sua intuizione scientifica fondamentale: quella dell’inconscio. Una citazione tra le tante: “Das Unbewusste ist überhaupt zeitlos”.[4] Sul punto Freud è risoluto: l’inconscio non ha né tempo né principio di non contraddizione. È il regno dell’illogica (Unlogik), dirà nel V capitolo del Compendio di psicanalisi, postumo.Raccoglie rappresentazioni psichiche anche contraddittorie di tempi diversi. Jung li chiamò “complessi”. In altre parole, l’inconscio “prescinde” dalla natura e dall’ordinamento temporale delle rappresentazioni psichiche. Insomma, l’inconscio non è aristotelico; è un insieme cantoriano, indifferente alla logica e al tempo. “Tutti i contenuti dell’inconscio cadono allo stesso modo”, si potrebbe dire; sono come gli elementi di un insieme che “cadono” nello stesso insieme o come i corpi di Galilei che cadono nel vuoto.

Freud non ha mai enunciato un simile teorema perché non possedeva la nozione di variabilità. In questo senso Freud non fu né galileiano né cartesiano. Infatti, non aveva né Galilei né Cartesio in biblioteca. La sua formazione era umanistica. Il concetto di variabilità non rientrava nella sua cassetta degli attrezzi. Come i classici, che non avevano né il concetto di variabilità né il termine per dirla, ma solo quello di diversità e di polimorfismo,[5] Freud non scrisse “Variabel” nelle 7000 pagine dei suoi scritti. Ciononostante intuì l’inconscio come insieme cantoriano.

Segnalo in proposito una curiosità. Nella scienza di Galilei ricorre una particolare variabilità: quella delle oscillazioni. Il pendolo oscilla. Le sue (piccole) oscillazioni sono isocrone, cioè sono variazioni che non variano nel tempo; lo stabilì Galilei, come corollario del teorema soprariportato. Le oscillazioni del pendolo sono fuori dal tempo, anche se possono servire a misurare il tempo – localmente preciserebbe Einstein. Fu un cambiamento di paradigma, direbbe Kuhn, nel modo di trattare il tempo. Addirittura Aristotele non trattò il moto pendolare nella sua Fisica. Sua figlia non andava in altalena. Ebbene, Freud parla di “Schwingungen” (oscillazioni) solo nelle prime pagine dei suoi scritti, in riferimento all’isteria, in particolare negli Studi sull’isteria del 1895, coevi ai saggi di Cantor sugli insiemi, poi il termine scompare. Non gli garbava?

Non parliamo delle oscillazioni aleatorie! Per Freud il caso non esisteva. Ciò che sembra casuale ha nella psiche sempre una causalità alle spalle, tipicamente edipica. All’inizio del XII capitolo della Psicopatologia quotidiana, dal titolo Determinismo, caso e superstizione, Freud stabilì l’assioma:
Certe incongruenze delle nostre prestazioni psichiche […] e certe azioni all’apparenza non intenzionali risultano, applicando il metodo d’indagine psicoanalitica, perfettamente motivate e determinate da motivi ignoti alla coscienza”.[6]

Freud non pensò mai a un setdi possibili alternative – i valori esaustivi ed esclusivi di una variabile aleatoria – che si realizzano con una certa probabilità, dati certi fattori condizionanti. Freud usò Wahrscheinlichkeit solo nel senso di “verosimiglianza”, l’inglese likelihood, ben diverso da chance oprobability, sempre senza sfumature d’incertezza. L’assetto della metapsicologia freudiana fu rigidamente deterministico, più aristotelico che galileiano; perciò, come ai pensatori antichi, gli mancò il moderno riferimento alla probabilità e prima ancora alla variabilità, introdotto da Cartesio via res extensa, necessario per pensare le probabilità.[7]

Detto in breve, il calcolo delle probabilità, come la teoria degli insiemi di Cantor, è un modo di trattare la variabilità sincronica. Per esempio tratta gli eventi come sottoinsiemi di uno spazio campionario. Distribuisce l’incertezza previsionale del soggetto tra varie alternative, che formano i “valori” di una certa variabile aleatoria, nel caso più semplice 1 e 0 al verificarsi di un certo evento oppure al verificarsi dell’evento contrario, per esempio Testa o Croce lanciando una moneta. Si richiede solo che la distribuzione delle incertezze sia coerente, cioè non consenta scommesse uniformemente perdenti.[8]

Di questo modo di ragionare “post-antico” in Freud non c’è traccia. Di probabilità Freud, non diversamente da Marx, non parla neppure in riferimento alla concezione economica della sua metapsicologia. Non esistono economie deterministiche. Lo stretto legame tra utilità e probabilità è nella possibilità concreta di definire la probabilità di un evento come prezzo da pagare per ottenere un guadagno unitario al realizzarsi dell’evento aleatorio. La teoria delle probabilità ha una naturale estensione nella teoria delle decisioni, inaugurata da Pascal con la famosa scommessa sull’esistenza di Dio, che connette il probabile all’utile. Per quanto ne sappia, è esistita solo un’economia deterministica, la sovietica, che ha fallito. L’utile non va senza il probabile.

Ed è ben strano l’oscuramento delle probabilità in Freud, perché tra inconscio e probabilità esiste una precisa simmetria, forse addirittura un’affinità. Non sbaglio di molto se presuppongo che l’inconscio sia una forma di sapere che non sa ciò che sa (nonS(S)). Non è una contraddizione, anche se Freud si premura di dire che nell’inconscio non vale il principio di non contraddizione. In logica intuizionista, dove non vale il principio del terzo escluso, non sapere implica sapere.[9] Una ragione per convocare la probabilità nelle vicende inconsce è che la probabilità è epistemicamente simmetrica all’inconscio; essa è, infatti, sapere ciò che non si sa (S(nonS)). Insomma, il sapere inconscio si potrebbe tradurre in termini probabilistici. Usciremmo dal freudismo, cioè dalla scolastica freudiana pullulante di manuali e dizionari,[10] pur rimanendo freudiani.
 
Dopo Cantor

La variabilità sincronica di Cantor scatenò una marea di antinomie, che per la verità scosse più i logici dei matematici, i quali avevano acquisito una solida pratica di variabilità spaziale sin dai primi passi del calcolo infinitesimale. Dal XVII secolo fino a tutto il XVIII, i matematici si erano abituati a operare con concetti non ben definiti in teoria, perché inusitati, che davano buoni risultati in pratica. È merito loro se oggi abbiamo una solida analisi matematica, buona anche per gli ingegneri. Dieudonné paragonava le antinomie all’assalto degli indiani (i logici) alla diligenza (dei matematici) in Ombre rosse. Le antinomie furono il frutto del programma, iniziato da Frege e Russell, di fondare la matematica sulla logica, considerata filosoficamente più “vera”. Paradossalmente segnarono anche la fine delle pretese logiciste.

L’antinomia più famosa fu quella di Russell: L’insieme di tutti gli insiemi che non appartengono a sé stessi appartiene a sé stesso se e solo se non appartiene a sé stesso (1901-2). Il matematico non opera con insiemi così bizzarri e non diede importanza al problema. Tuttavia, un grande matematico come von Neumann trovò il modo di aggirare l’antinomia generalizzando la teoria degli insiemi nella teoria delle classi. A differenza dell’antico il matematico moderno non idealizza ma generalizza. Esistono due tipi di classi: le classi proprie e gli insiemi. Le classi proprie sono classi che non sono elementi di altre classi, quindi neppure di sé stesse. Gli insiemi sono classi che sono elementi di qualche classe. Quella di Russell è una classe propria e l’antinomia svanisce.

Il succo di questa teoria è che la nozione di appartenenza è problematica e potenzialmente contraddittoria, come tutta l’ontologia dell’essere in rapporto al nulla. Oggi disponiamo di una teoria algebrica – la teoria delle categorie – che sviluppa la teoria degli insiemi come oggetti a sé senza utilizzare la nozione ontologica di appartenenza di un elemento a un insieme; a tal fine sfrutta solo una nozione puramente epistemica: quella di corrispondenza tra insiemi nelle cosiddette applicazioni di un insieme in o su un altro insieme: le iniezioni e le suriezioni che conservano le operazioni algebriche (omomorfismi). La variabilità spaziale senza tempo, quindi l’inconscio, sono salvi. La vaccinazione matematica li protegge dal virus ontologico.
 
Con il fallo

Chi, grazie alla concezione fenomenologica della funzione fallica, capì la portata del problema fu Lacan, il quale sospese il significato dal significante; ne fece l’epoché. Il significante fallico non significa un significato, anatomico per esempio, ma la possibilità stessa – trascendentale – di significare il desiderio inconscio.[11]

Come tradurre questo discorso nello schematismo insiemistico di Cantor? Al di fuori del riferimento mitologico alla legge del Padre, si può dire che in certi casi il fallo stabilisce l’uno del concetto ma in certi altri ’gna fa a stabilire il concetto nella sua interezza (zu einem Ganzen). Il maschile può essere ridotto all’uno, il femminile no. In ciò il maschile si candida come la sede del paterno, fonte di tutte le politiche di stampo dittatoriale e violento; il femminile, invece, è il motore di ogni forma di negazione dell’uno. Tra parentesi, questa matematica supera la concezione freudiana della negazione come espulsione di rappresentazioni dall’Io o nell’inconscio (nevrosi) o nella realtà (psicosi). La follia e il femminile hanno una loro propria irriducibile autonomia rispetto a tutti gli schematismi psicologici o psichiatrici.

In estrema sintesi, la funzione fallica forma concetti. I concetti sono formazioni tipicamente maschili e filosofiche; al femminile si apre il campo delle congetture, che è il campo proprio della scienza moderna.A ben vedere siamo nell’alternativa prevista da von Neumann. Nel primo caso siamo di fronte a un insieme unificato dalla sua proprietà caratteristica che, quindi, può entrare a far parte di un’altra classe come elemento. Nel secondo caso ci troviamo in una classe propria cioè in un’estensione troppo estesa da unificare in un concetto.

Lacan trasferì questa dicotomia alla sessuazione, cioè alla formazione dei due sessi: come si diventa maschio o come si diventa femmina? Il maschile è ciò che si unifica grazie al fallo; il femminile è ciò che, nonostante il fallo, nonsi unifica: è un tutto che resta non tutto, per usare la terminologia lacaniana. Detto altrimenti, non esiste La donna. I due casi sono talmente diversi che “non esiste rapporto sessuale” tra i due; non esiste, cioè, un rapporto che possa essere scritto nelle formule di un codice concettuale. Detto in termini freudiani, la castrazione vale in generalesolo negli uomini; nelle donne vale solo caso per caso o “una per una”, come ben sapeva don Giovanni. Non si può dire che “tutte le donne cadano allo stesso modo”, per esempio di schiena (backward), come a Giulietta raccomandava la sua bambinaia:[12] alcune cadono, altre no o non sempre e mai per sempre. Alcune si sottomettono al fallo, altre no, come Lilith in tempi pre-scritturali o le anoressiche-bulimiche ai nostri tempi. Il femminicidio è la conseguenza patologica del non tutto, che il maschio mal sopporta, perché vissuto come minaccia di castrazione.

Con il non tutto, cioè con il femminile, la variabilità spaziale sincrona svanisce. L’ultimo Lacan si lamentava farfugliando la giaculatoria Y a d’l’Un, “c’è dell’Uno”. Sì, c’è dell’Uno, spesso ma non sempre. C’è l’uno minuscolo e corrente del significante ma non c’è l’Uno maiuscolo e statico dell’universo femminile. Il risultato sembra un regresso. Con le classi proprie si torna all’antica variabilità diacronica che si può narrare solo caso per caso ma non inserire in un discorso scientifico generale, perché le classi proprie non tollerano generalizzazioni. Esse rappresentano il limite del lavoro di generalizzazione del matematico. Si possono solo raccontare dei loro casi particolari. Se ne accorse Freud già nel 1895 ai tempi degli Studi sull’isteria: “In particolare mi colpisce ancora che le storie cliniche che scrivo si leggano come novelle, mancando per così dire del marchio autentico della scientificità”.[13] Tale mancanza non è un caso; è strutturale e insanabile, là dove non si riesce ad astrarre dal tempo.

Ciò vuol forse dire che la psicanalisi è destinata a rimanere per metà scientifica, maschile, e per metà narrativa, femminile? Non sarebbe una cattiva conclusione, se la metà scientifica potesse illuminare la metà narrativa. Dopo tutto non bisogna dimenticare che la psicanalisi ha trovato (contrastata) diffusione per la sua valenza terapeutica, basata sull’anamnesi. Certo è che, se la terapia prevale, la scienza ne soffre. Lo sapeva bene anche Freudche nel 1927 scrisse: “Ich will nur verhütet wissen, dass die Therapie die Wissenschaft erschlägt”.[14]

Con il ritorno della variabilità diacronica nel tempo ci saranno sempre storie d’amore da raccontare, leggere, commentare e riraccontare nel loro infausto destino. Forse da curare.

9 settembre 2020, in memoria di Jacques Lacan



[1] Ricordo l’enunciato hegeliano nella Fenomenologia dello Spirito: “Das Wahre ist das Ganze”, Il vero è il tutto. Il vero idealistico è “maschile”, fallico, nel senso che vedremo.
[2] B. De Finetti, L’invenzione della verità(1934), Cortina, Milano 2006.
[3] Freud parlò di asymptotische Heilungsvorgang (“processo asintotico di cura”) in S. Freud, “Wege der psychoanalytische Therapie” (1919, Vie della terapia psicanalitica) in Sigmund Freud gesammelte Werke, vol. XII, p. 192.
[4] L’inconscio è in generale senza tempo. S. Freud,“Zur Psychopathologie des Alltagslebens” (1901, Psicopatologia della vita quotidiana) in Sigmund Freud gesammelte Werke, vol. IV, p. 305.
[5] Nella variabilità i valori di una variabile formano un insieme. Nella diversità si parla di generi e specie. L’autore che fece interagire le due nozioni di variabilità e diversità fu un altro genio della modernità: Charles Darwin nell’Origine delle specie (1859).
[6] Ivi, vol. IV, p. 267.
[7] Nel 1925, quando Freud scriveva il saggio sulla Negazione, Sir R.A. Fisher, nel suo Statistical Methods for Research Workers (Oxford University Press, Oxford 2003), basò l’inferenza statistica sul criterio di massima verosimiglianza. Fisher sosteneva la concezione frequentista (realista) della probabilità. Sarebbe piaciuto a Freud, se Freud si fosse aggiornato sulla scienza del suo tempo; ma non registrò neppure la ricomparsa degli scritti genetici di Mendel.
[8] Le concezioni della probabilità sono due: l’oggettivista, che concepisce la probabilità come frequenza empirica di un evento in una lunga serie di prove, e la soggettivista, che concepisce la probabilità come grado di credibilità. Sono coerenti le ipotesi probabilistiche che non consentono scommesse uniformemente perdenti.
[9] A. Sciacchitano, Il tempo di sapereSaggio sull’inconscio freudiano, Mimesis, Milano-Udine 2013.
[10] Ricordo un motto di Lacan risalente al novembre 1973 (La Grande-Motte): Un dictionnaire est toujours contradictionnaire.
[11 ] Il tema del soggetto trascendentale è ricorrente negli Écrits di Lacan. Sarebbe ora che qualche filosofo ne facesse l’analisi fenomenologica.
[12] W. Shakespeare, Romeo e Giulietta, Atto II, Scena III.
[13] S. Freud, “Studien über Hysterie” (1895, Studi sull’isteria) in Sigmund Freud gesammelte Werke, vol. I, p. 227.
[14] Voglio solo assicurarmi che la terapia non uccida la scienza, ma è lost in translation nelle OSF. S. Freud, “Die Frage der Laienanalyse” (1926-27, La questione dell’analisi laica) in Sigmund Freud gesammelte Werke, vol. XIV, p. 291.

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