Segue da Parte I. Un esperimento psicologico (vai all'inizio)
Oltre il sistema: un’inappagabile domanda d’amore
Con l’episodio del revolver tra i due ha luogo una trasfusione ematica nelle due direzioni. Lei gli trasferisce salute, energia vitale e ritrovata stima di sé; lui scarica dentro di lei le scorie e i detriti della sua coscienza, l’indicibile viltà, le bassezze calcolate, l’antica vergogna. Lei si svuota di amor proprio perché lui possa riempirsene. L’usuraio-vampiro la dissangua lasciandola esangue, per poter lui rinascere alla vita. C’è, qui, una delle figure centrali del discorso cristiano, l’innocente che si sacrifica per la salvezza del colpevole. Che lei lo guarisca, ammalandosene. Bruno Basile parla giustamente in un saggio che insiste sulla centralità nel racconto di tre oggetti chiave – l’icona che rappresenta il primo tramite del loro commercio, il revolver carico che rappresenta il secondo, e la finestra spalancata attraverso la quale lei è uscita di scena – di “simbiosi terribile”, nella quale l’usuraio contamina a poco a poco con la sua malattia la donna, traendone vitalità[i].
L’usuraio stesso si meraviglia della facilità con la quale ha perdonato l’episodio del revolver; ma, in qualche luogo infondo a sé, forse avverte che quel momento di catarsi gli era indispensabile, che agendo quasi fino infondo l’odio a cui l’aveva costretta, lei lo ha salvato. Ora lui è morto in quanto si è spontaneamente offerto alla morte, che per mano di lei lo ha risparmiato; e può quindi risorgere.
Nessuno dei due parlerà dell’accaduto; silenzio su silenzio. Ma lui ordina un secondo letto, ed è per lei; la separazione pare istituzionalizzata, definitiva. Lei si ammala per sei settimane e forse questa è la sola fuga (temporanea) che le riesce, la fuga nel proprio corpo, nella malattia, una tregua in una relazione sempre più mostruosa. Lui prosegue: «a volte sentivo per lei una tormentosa pietà, sebbene, con tutto ciò, talora mi sorridesse proprio l’idea della sua umiliazione. Mi piaceva l’idea di questa nostra ineguaglianza…» (p. 689). E’ l’ambivalenza, l’essere doppio come tratto tipico di molti personaggi di Dostoëvskij: quell’ombra di crudeltà che spesso sporca anche i sentimenti di pietà più luminosi. Nelle mura domestiche della coppia e della famiglia albergano a volte umiliazioni, rancori, gelosie, ferocia e violenza in misura altrove inimmaginabile. Si è discusso in questi anni in Francia di Jacqueline Sauvage, la donna che nel 2012 ha ucciso il marito dopo quarantasette anni di soprusi accompagnati da abusi sessuali sui figli uno dei quali morto suicida. In una situazione storica nella quale è difficile pensare che per una sedicenne delle classi popolari l’abbandono del tetto coniugale fosse una soluzione percorribile, l’omicidio dell’usuraio da parte della mite per uscire dal sistema sarebbe stato un gesto non molto diverso. Mi viene in mente un film di Roman Polanski, Luna di fiele (1992), simile per la carica di violenza interna alla coppia; segnano il tempo trascorso la centralità che vi assume la dimensione sessuale della relazione, qui appena allusa, e il ruolo paritetico che la donna ora ha rispetto all’uomo.
La nuova situazione creatasi, che oggi definiremmo di separati in casa, sembra dare alla mite una certa serenità. Ora lei canta anche alla presenza del marito; e questo dà a lui un sentimento di distanza e autonomia che lo turba, sente di perderne il controllo. Evidentemente ora lei basta a se stessa; la voce però è flebile… il passaggio attraverso il sistema ha lasciato tracce profonde.
E non si tratta qui, credo, di resistenza; piuttosto di fuga, ricerca di tregua, riparo, rifugio.
Ma ora è l’usuraio a non bastarsi; è lui ad aver avuto bisogno della mite, infondo, fin da quei primi incontri al banco dei pegni, da quei primi due rubli investiti per umiliarla e tormentarla, certo, ma anche il tormento è una modalità della relazione, l’unica che in quel momento gli fosse accessibile. Si è umiliato con se stesso fino a comprarla e poi ha incominciato a sfidarla, torturarla, ma non ha mai potuto farne a meno. Questo era il suo modo tortuoso, contorto di volerla per sé, il solo del quale in quel momento fosse capace. L’ha spremuta, come si spreme una spugna, ma per quanto abbia stretto non ne ha ottenuto amore, solo balbettanti onestissimi tentativi di amore. La distanza che si è stabilita tra loro, ora, gli rivela una verità semplice quanto definitiva: la mite non può onorare l’impegno d’amore che aveva contratto dandoglisi in pegno, nonostante gli sforzi. Il sistema l’ha distrutta sotto molti riguardi, ma non è stato utile a costringerla a odiarlo né ad amarlo fino infondo: i due modi attraverso i quali lei avrebbe potuto appagare il bisogno immenso di amor proprio di lui.
Questa improvvisa illuminazione lo sconvolge e ora è lui, finalmente liberato dall’aver affrontato il rischio della morte dalla sua imperiosa necessità della stima dell’altra, ad avere un improvviso bisogno di dialogo, di presenza, di lei. Come in certi nodi di Ronald Laing[ii], è quando lei si arrende e interrompe i suo tentativi di amore, quando si rassegna a bastare a se stessa, che lui avverte l’esigenza di lei più imperiosa. Improvvisamente le si siede accanto ed è un fiume in piena. Esplode senza più nessun calcolo, senza alcun ritegno – finalmente spontaneo – il suo vero segreto, quello più profondo e antico di tutti: il suo spaventoso bisogno di essere amato confuso con quello di essere stimato, stimato degno d’amore. E adesso è lei a essere sorpresa da questo inaspettato ribaltamento e spaventata, a rispondergli prima sgomenta, poi con un’espressione di “severa meraviglia” (adesso è lei ad essere severa). E «così ancora amore ti occorre? amore?», immagina che lei – comprata, torturata, manipolata nel sistema – gli stia chiedendo col silenzio. Lui è ai piedi di lei, li bacia mentre lei tenta di ritrarli vergognosa, e in quell’atto avverte una smisurata felicità e un’immensa disperazione. Ora prova un sentimento che prima gli era interdetto, l’amore, ma si scontra con la sorpresa di non poter essere corrisposto. La ricerca del potere assoluto sull’altra che l’ha spinto a intrappolarla nel sistema che l’ha distrutta ora si ribalta nel volere dare a lei tutto il potere, nel darle prepotentemente troppo potere, ora non sembra prendere più ambivalentemente piacere nell’umiliarla ma nel voler essere da lei umiliato, essere il cagnolino ai suoi piedi. Ma lei non vuole né essere, costretta dal bisogno, il cagnolino di lui, né averlo come cagnolino perché la necessità di questa modalità della relazione non le appartiene. Lei è sana sul piano psicologico e lo guarda vergognosa, incredula, straordinariamente emozionata, in evidente imbarazzo. Ha un attacco isterico, e quando si riprende piange e gli dice: «Basta, non tormentatevi, calmatevi!». Soffre nel vederlo sbattere con tanta violenza nell’implacabile impossibilità dell’amore, al quale lei si sforza inutilmente. Una vacanza al mare, una vita diversa, l’abbandono di quel mestiere espressione e oggetto di odio, il desiderio di essere di nuovo ai suoi piedi, di annullarsi, adorarla, essere per lei cosa sua, il suo cagnolino sono offerte che forse arrivano tardi, o sarebbero state comunque inutili dall’inizio. Chissà. Forse è stato davvero, da subito, un malinteso: lei che ha pensato di poter imparare col tempo l’amore, lui che ha pensato di poter comprare, o costruire col plasmarla violentemente, un amore confuso con la stima che da sé non sapeva dare a se stesso.
E ora lei gli dice nel pianto: «e io pensavo che mi avreste lasciato così». Così, nella fragile e rassegnata tregua di separati in casa. Sono parole che lo trafiggono perché inconsapevolmente svelano l’impossibilità di amarlo della giovane, quella che, infondo, lui aveva forse da sempre inconsapevolmente rabbiosamente avvertita, e il suo desiderio invece di stare con lui a distanza per non farsi male reciprocamente. Ciononostante, la presenza di lei lo rende felice. Imbarazzo, vergogna, spavento di lei, emozioni che pure percepisce, non lo fermano; insiste, e ancora, disperato, non la vede, non riesce a considerarne i sentimenti. Continua a manifestarle adorazione (non amore), fa progetti, manifesta la sua ammirazione (era invidia) per lei – per quello che di lei col sistema ha tentato di distruggere, e in parte ha distrutto – e la bacia come ai primi tempi, “come bacia un marito”, allude castamente Dostoëvskij. Ora è lui a divenire generoso nell’usura; pare rappacificato con il mondo e forse, chissà, ora cerca con questo l’approvazione di lei (altro che gli ostacoli posti come prove per l’amore!).
Il mattino successivo è la mite a confessarsi: i tentativi di reazione cui si è vista costretta hanno lasciato traccia, ora lei si sente una “criminale” e avere sfiorato per un attimo in due occasioni il delitto continua a farla soffrire. Per comprendere il suo stato d’animo occorre qui tenere presente ancora un tema cristiano: per Dostoëvskij (e per lei) l’intenzione è sufficiente per la colpa e l’accettazione del castigo, per essere “criminale d’intenzione” e avere perciò orrore di se stesso, non corrispondere più al proprio ideale. Simile sarà l’atteggiamento di Mitja al processo Karamazov.
Lei gli promette fedeltà, rispetto; di più, evidentemente, non può. E anche in questo l’usuraio avverte involontario disprezzo; si tratta in realtà dell’impossibilità di imporsi l’amore, che lui proprio ha difficoltà a comprendere perché continua a confondere tra loro amore e stima. Se lei non lo ama, allora lo disprezza; ma non è così, amore e stima hanno tra loro una relazione più complessa (o forse meglio non hanno tra loro necessariamente relazione).
Lei credeva di farcela, sforzandosi. Non ci riesce. E non perché non lo stimi; perché, semplicemente, non prova amore per lui. Né può fingere; l’onestà è una delle concause della rovina della mite: «non ha voluto ingannarmi con un mezzo amore in veste d’amore» (p. 699). Quel mezzo amore avrebbe dovuto invece essere accettato per com’era, forse, all’inizio, uno “sforzo d’amore” piccolo, semplice, leggero, come ancora i passi delicati e regolari della mite sul palcoscenico di Lunaria suggeriscono; e poi, chissà. Ma, allora, era a tutt’altro che lui era interessato, un amore così incredibilmente grande da riempire il suo immenso vuoto d’autostima.
Dopo questa scena, la mite è di nuovo in trappola. Non può stare, non può andare, se non attraverso la finestra. Il suicidio della mite non è superbia prometeica né noia, come per altri personaggi in Dostoëvski o come lui aveva avvertito, contrapponendolo al suicidio della Borisova, in quello della figlia di Herzen. Al contrario: è il santo suicidio di chi non ce la fa a vivere. Lei ha pregato prima di fare quel salto; porta con sé, come ad accompagnarla e a proteggerla, l’icona della Vergine (la portava anche, nella cronaca, la Borisova). E’ cedimento di fronte alla durezza della vita, della società e la complessità delle relazioni emotive che a volte rendono vittima d’infinite crudeltà e a volte rendono crudeli proprio malgrado. E’ lo shock di Matrëska, la bambina stuprata da Stavroghin, nei Demoni; presa d’atto, dopo infiniti tentativi di vivere, dell’impossibilità di trovare un luogo in cui farlo. Non la casa delle zie, non quella che potrebbe pagarsi col lavoro che non trova, non quella del bottegaio, non quella dell’usuraio. Il suo assomiglia allora, credo, al suicidio di chi non regge la tortura, di chi è ineluttabilmente prigioniero del lager o della trincea, di chi soffre per una malattia che sa terminale, di chi è prigioniero del dolore psichico insopportabile di certi quadri depressivi. Sollevare se stessi dal peso di se stessi; rompere la relazione tra Sé e mondo che costituisce l’esistenza, perché quel mondo che è il proprio si è fatto insopportabile.
Attraversa la finestra stringendo a sé l’oggetto-sé inseparabile, carico di tutto il suo passato e della sua speranza, l’icona della Vergine che aveva dato in pegno appena prima di dare in pegno se stessa. Nella finzione teatrale l’importanza di questo oggetto arriva al punto che sia esso a cadere al posto suo. E’, sul palcoscenico come nel racconto insomma, tutt’uno con lei.
Solo, col corpo di lei
E adesso l’usuraio è solo, di fronte al corpo inanimato di lei. Il giocattolo è rotto, irreparabilmente: «Oh è assurdo, assurdo! Un malinteso! Una cosa inverosimile! una cosa impossibile!» (p. 699) prorompe. Ora, di fronte alla morte, qualunque cosa impallidisce e perde importanza: non contano più i giochi di potere con i quali l’ha tormentata, le necessità di risarcimento e vendetta, quelle d’amore, la stima di lei, l’onestà, la fedeltà coniugale della giovane. Tutto sarebbe tollerabile pur di non rimanere solo, a sentire il pendolo battere spietatamente le ore di un tempo ormai vuoto. Di là, sul tavolo, solo l’involucro di lei: «E ora di nuovo le stanze vuote, ora di nuovo solo. Là il pendolo batte, a lui non importa, a lui non rincresce il nulla (….). Di nuovo nessuno in casa, di nuovo due stanze, e di nuovo io solo coi pegni!! (…). L’avevo stremata, ecco com’è» (pp. 700-701). L’ha distrutta, consumata come si consuma un oggetto; l’ha torturata prima con l’invidia, la rabbia, poi con l’adorazione, senza mai accorgersi, tenere conto di lei, oggetto investito in modo narcisistico e sconquassato da sentimenti in ogni caso violenti. E’ lo stesso clima relazionale che sta alla base, il più delle volte, dei femminicidi che funestano la nostra cronaca[iii]; l’incapacità di fare posto all’altra, nella coppia. Che ciò avvenga sotto la spinta della pulsione erotica o della gelosia o di esigenze più complesse, non cambia; del resto, raramente la pulsione erotica viaggia sola. Nella coppia si è in due, ciascuno con la propria possibilità di darsi e non darsi, i propri bisogni emotivi, la complessità dei propri sentimenti e del loro variare nel tempo; e la possibilità stessa della coppia non può essere un diritto o una pretesa, ma dipende da un delicatissimo equilibrio cui entrambi si partecipa.
Nella mente di lui così si affastellano le ipotesi: è stata solo la scelta di un attimo, presa così senza ragionarci, forse in quella stessa sospensione della coscienza che avrebbe potuto coglierla mentre premeva il revolver sulla fronte di lui, un momento di vertigine, dieci minuti al più per decidere della vita, il frutto di un malinteso al quale si sarebbe potuto rimediare, una conseguenza dell’anemia o di un esaurimento organico dell’energia vitale, la conseguenza di quei fatali cinque minuti di ritardo di lui… Le rimprovera di non aver lasciato un messaggio, una spiegazione (ultimo atto di servizio per chi resta, la necessità di giustificarsi e magari assolvere e giustificare)… Ma tutto ciò non importa, e lui lo sa! Perché la mite si uccide? Perché era l’unico modo per rompere una trappola in cui si era infilata per bisogno? O perché l’essere stata ingaggiata in un duello feroce e per lei senza ragione fino a sfiorare l’adulterio e l’omicidio la rende odiosa a se stessa e la spaventa? O ancora perché si rende conto di non poter corrispondere all’improvvisa domanda d’amore di lui?
La risposta, come spesso in Dostoëvskij, resta aperta. Il punto del quale l’usuraio è alla ricerca si svela inafferrabile, come inafferrabile è la mente umana, ma la ricerca di quel punto gli ha permesso di procedere, e molto, in consapevolezza. E di aiutarci a nostra volta a procedere.
La letteratura scientifica individua nel suicidio essenzialmente tre desideri, legati ad altrettanti profili sotto i quali può essere considerato[iv]; e tutti e tre mi paiono calzanti al nostro caso. Desiderio di morire (giacché incontestabilmente si muore) che può essere ricondotto a un’esigenza di riposo e annullamento delle tensioni che nella giovane passata per una così burrascosa vicenda coniugale non è difficile comprendere. Non può più stare nella trappola, non può uscirne, se non per la finestra. Desiderio di uccidere (perché si uccide se stessi, ma pur sempre si uccide); e se in questo caso è proprio vero che “non ci si uccide senza essersi proposti prima di uccidere l’altro”, il tentato omicidio può aver avuto anche il significato di svelare il fatto che la trappola di questa coppia era tanto intricata da rendere impossibile scioglierla senza un colpo di forbici che sottraesse, con la morte, uno dei due alla relazione (e meglio disporre commettendo peccato della propria vita, per la mite, che non commettendo un peccato più grave di quella dell’altro). Desiderio di uccidersi (perché in definitiva ci si uccide) per punirsi, spinti dal sentimento di colpa, qui la colpa di un duplice fallimento. Come moglie, incapace di dare quell’amore al quale pure si era impegnata, e del quale l’usuraio nel finale mostra finalmente più lineare l’esigenza; e come mite, perché l’avere sfiorato l’intenzione dell’adulterio e dell’omicidio la fa ora sentire la “criminale” che ha percorso comunque abbastanza la strada dell’odio da aver tradito il suo ideale e la sua indole.
Un atto di per sé complesso nei suoi significati, perciò. Che si arricchisce di nuovi nella suggestiva proposta di lettura “ribaltata” del racconto che dobbiamo a Marina Mizzau, ripresa con qualche distinguo da Ado Carotenuto[v], per la quale la mite sarebbe uno di quei personaggi femminili del romanzo ottocentesco nei quali sorge una nuova coscienza della situazione della donna, che la porta ad esprimere le proprie ragioni di fronte, ed anzi contro, quelle dell’uomo. Rinunciando alle armi del suo potere subalterno e residuo – simulazione, seduzione e manipolazione occulta – armi rispetto all’uso delle quali, però, più che rinunciare, la mite mi pare incapace.
Tra la mite e l’usuraio ha inizio infatti da subito, per Mizzau, uno scontro di potere e di reciproco orgoglio: dalla prima frase apparentemente ingenua ma insolente sull’usura come vendetta, al momento in cui accoglie la proposta di matrimonio con inattesa titubanza, al contrapporre via via silenzio a silenzio, poi le uscite di casa, l’avvio di una relazione extraconiugale, la minaccia col revolver, il canticchiare in sua presenza che suona insolenza fino al rifiuto del (tardivo) esplodere dell’amore di lui. E’ vero, ma non dobbiamo dimenticare che questo scontro è quello che ha luogo tra i ragazzi prepuberi, a monte quindi della differenziazione dei ruoli di genere; e insieme che è lei a trovarsi sempre nella posizione di dover rintuzzare l’aggressione per lei incomprensibile di lui, in una simmetria inseguita ma mai raggiunta. Tentativi di ribellione, certo; senza che tuttavia la via dell’odio riesca ad essere mai percorsa oltre un tratto iniziale, e questo già spaventa e fa sentire colpevoli. Se non, forse, nel culmine in cui: «Nel suo silenzio definitivo, è la donna che fa di se stessa, per sempre, un enigma»[vi]. In cui cioè l’enigma di lei, del quale sarebbe così raccolta un’istanza aggressiva eterodiretta, si contrappone a quello iniziale di lui; un enigma, questo del suicidio, che l’usuraio si sforza inutilmente di banalizzare o depotenziare, ma è per lui sfida insolentemente aperta e per lei vittoria postuma.
E’ un’ipotesi che evoca la classica teoria psicoanalitica del suicidio, che Franco Fornari, rifacendosi a Freud di Lutto e melanconia, sintetizza nel fatto che talvolta il suicidio è un omicidio mancato qui nel senso di essere volto alla colpevolizzazione del sopravvissuto, col “buttargli addosso" il proprio cadavere[vii]. Il che non vuol essere, già nelle intenzioni della Mizzau, un’ipotesi rispetto ad altre alternativa ed escludente, ma solo possibile tra le diverse alle quali un racconto così ricco lascia spazio, l’altro significato eventuale che, parafrasando Bachtin, in Dostoëvskij accompagna come un’ombra ogni parola e ogni atto. Non solo un suicidio volto a rispondere al bisogno proprio di sottrarsi alla situazione, ma forse anche – in qualche recondito angolo del cuore del quale non si ha consapevolezza e prima di Freud nessuno aveva parlato ad alta voce – a regolare inconsciamente (perché ciò suona così dissonante rispetto alla personalità, l’indole, i valori, le stesse parole della mite…), certo a caro prezzo per sé, i conti con l’altro.
E’ certo un’ipotesi ricca di fascino; e lo spettatore, o il lettore, potrà tenerla presente per lasciarsi a sua volta interrogare. Ma è un’ipotesi della quale, personalmente, ravviso un elemento di debolezza perché non mi pare di cogliere nel testo elementi utili ad avvalorarla.
Si rischierebbe così di attribuire al modello psicoanalitico delle motivazioni inconsce al suicidio, o al carattere doppio degli atti e delle parole in Dostoëvskij carattere di legge universale, da applicarsi comunque a prescindere. Il che, in entrambi i casi, non è. E il carattere enigmatico del suicidio della mite, se si considera che qualsiasi spiegazione sarebbe suonata ad accusa verso lui, ha semmai il significato di proteggerlo, facendo del gesto col silenzio un atto privato, più che di accusarlo oltre quanto lui, inevitabilmente, si accusi.
Né più convincente mi pare l’applicazione alla vicenda del modello freudiano del masochismo, su cui insiste Carotenuto, perché ci troviamo certo di fronte a una relazione d’oppressione, ma non a una relazione sadomasochistica. Non lo è perché la mite, la vittima, non ha la possibilità di scegliere se starci, vi è costretta. Ma infondo neppure il comportamento dell’usuraio può essere ridotto al sadismo, pure in qualche forma presente, perché non ricerca nella sofferenza della vittima ptanto iacere, quanto invece risposta a più complesse esigenze di economia psichica che ci siamo sforzati di indicare. Il riferimento al sadomasochismo perciò mi pare fuori luogo, e avrebbe come unico risultato la confusione tra vittima e carnefice.
Credo poi che interpretare in riferimento ai modelli della psicoanalisi richieda prudenza, tanto nella critica letteraria come nella clinica. Perché quando è sufficientemente supportato dal testo, il guardare dietro le cose con gli strumenti dell’interpretazione può svelare aspetti inattesi della verità; ma quando non lo è, può esporre al rischio di allontanarcene, e anche di molto.
Meglio perciò, credo, in assenza di elementi nel testo che sostengano ipotesi diverse, rimanere fermi a quanto Dostoëvskij scriveva a proposito del suicidio della Borisova, e può verosimilmente essere considerato appropriato anche per quello della mite: «un suicidio mite, umile (…) [perché] semplicemente era diventato impossibile vivere». Spero quindi che il tragico volo della mite sia stato soprattutto un volo di liberazione fatto solo per se stessa, rottura del pegno che la teneva incatenata in una situazione impossibile, e non conseguenza dell’essersi lasciata ingaggiare, ancora una volta e in modo definitivamente distruttivo, nel conflitto. Una scelta che abbia a che fare solo con sé, un’istanza di pace dopo tanta incomprensibile guerra, unica uscita possibile dalla trappola di una situazione economica disperata, le complesse e contraddittorie istanze e il funzionamento psicologico contorto di lui, il sistema, i propri interdetti morali, mille laccioli nei quali è impastoiata. Un desiderio di togliersi la vita per il fatto di sentirsi impossibilitata alla vita. Un sollievo per sé, del quale non interessa più la valenza che può avere per l’altro.
Per l’usuraio – un termine che in questo caso più che un mestiere designa uno stile relazionale che rimane fino all’ultima riga del monologo coerente – come accade nell’agghiacciante scena finale dell’Idiota, il corpo senza più volontà né parola ma per qualche ora ancora bello della donna morta è l’oggetto del quale la vista può continuare ad appagarsi. Finalmente un oggetto, ma proprio perché tale, effimero. E l’ultimo pensiero di commiserazione è per se stesso: «Batte il pendolo inesorabile, odioso[viii] (…). No, sul serio, quando domani la porteranno via, che mai farò?» (p. 702).
La mite è morta, uscita vittima fino in fondo, io credo, non vittoriosa dall’impari braccio di ferro nel quale l’usuraio l’ha ingaggiata. Lui invece è vivo. Qui termina il racconto, perché termina l’interesse di Dostoëvskij che è tutto per la mite, la protagonista assente.
Ma se noi volessimo, potremmo giocare ad andare oltre e immaginare, ciascuno, un proprio epilogo. Nel mio, credo che l’usuraio, rassegnatosi alla sepoltura della mite, trovi un lavoro più rispettato e riprenda moglie più tranquillo, questa volta, di meritarne la stima. Una moglie che gli sia più vicina negli anni e nel censo, conquistata senza ricatto, e capace di tener testa – usando anche la scaltrezza, le malizie, la seduzione, armi femminili delle quali la mite era incapace – all’egoismo di lui, dal quale neppure il tragico volo della mite mi pare che sia bastato a liberarlo.
Oltre il sistema: un’inappagabile domanda d’amore
Con l’episodio del revolver tra i due ha luogo una trasfusione ematica nelle due direzioni. Lei gli trasferisce salute, energia vitale e ritrovata stima di sé; lui scarica dentro di lei le scorie e i detriti della sua coscienza, l’indicibile viltà, le bassezze calcolate, l’antica vergogna. Lei si svuota di amor proprio perché lui possa riempirsene. L’usuraio-vampiro la dissangua lasciandola esangue, per poter lui rinascere alla vita. C’è, qui, una delle figure centrali del discorso cristiano, l’innocente che si sacrifica per la salvezza del colpevole. Che lei lo guarisca, ammalandosene. Bruno Basile parla giustamente in un saggio che insiste sulla centralità nel racconto di tre oggetti chiave – l’icona che rappresenta il primo tramite del loro commercio, il revolver carico che rappresenta il secondo, e la finestra spalancata attraverso la quale lei è uscita di scena – di “simbiosi terribile”, nella quale l’usuraio contamina a poco a poco con la sua malattia la donna, traendone vitalità[i].
L’usuraio stesso si meraviglia della facilità con la quale ha perdonato l’episodio del revolver; ma, in qualche luogo infondo a sé, forse avverte che quel momento di catarsi gli era indispensabile, che agendo quasi fino infondo l’odio a cui l’aveva costretta, lei lo ha salvato. Ora lui è morto in quanto si è spontaneamente offerto alla morte, che per mano di lei lo ha risparmiato; e può quindi risorgere.
Nessuno dei due parlerà dell’accaduto; silenzio su silenzio. Ma lui ordina un secondo letto, ed è per lei; la separazione pare istituzionalizzata, definitiva. Lei si ammala per sei settimane e forse questa è la sola fuga (temporanea) che le riesce, la fuga nel proprio corpo, nella malattia, una tregua in una relazione sempre più mostruosa. Lui prosegue: «a volte sentivo per lei una tormentosa pietà, sebbene, con tutto ciò, talora mi sorridesse proprio l’idea della sua umiliazione. Mi piaceva l’idea di questa nostra ineguaglianza…» (p. 689). E’ l’ambivalenza, l’essere doppio come tratto tipico di molti personaggi di Dostoëvskij: quell’ombra di crudeltà che spesso sporca anche i sentimenti di pietà più luminosi. Nelle mura domestiche della coppia e della famiglia albergano a volte umiliazioni, rancori, gelosie, ferocia e violenza in misura altrove inimmaginabile. Si è discusso in questi anni in Francia di Jacqueline Sauvage, la donna che nel 2012 ha ucciso il marito dopo quarantasette anni di soprusi accompagnati da abusi sessuali sui figli uno dei quali morto suicida. In una situazione storica nella quale è difficile pensare che per una sedicenne delle classi popolari l’abbandono del tetto coniugale fosse una soluzione percorribile, l’omicidio dell’usuraio da parte della mite per uscire dal sistema sarebbe stato un gesto non molto diverso. Mi viene in mente un film di Roman Polanski, Luna di fiele (1992), simile per la carica di violenza interna alla coppia; segnano il tempo trascorso la centralità che vi assume la dimensione sessuale della relazione, qui appena allusa, e il ruolo paritetico che la donna ora ha rispetto all’uomo.
La nuova situazione creatasi, che oggi definiremmo di separati in casa, sembra dare alla mite una certa serenità. Ora lei canta anche alla presenza del marito; e questo dà a lui un sentimento di distanza e autonomia che lo turba, sente di perderne il controllo. Evidentemente ora lei basta a se stessa; la voce però è flebile… il passaggio attraverso il sistema ha lasciato tracce profonde.
E non si tratta qui, credo, di resistenza; piuttosto di fuga, ricerca di tregua, riparo, rifugio.
Ma ora è l’usuraio a non bastarsi; è lui ad aver avuto bisogno della mite, infondo, fin da quei primi incontri al banco dei pegni, da quei primi due rubli investiti per umiliarla e tormentarla, certo, ma anche il tormento è una modalità della relazione, l’unica che in quel momento gli fosse accessibile. Si è umiliato con se stesso fino a comprarla e poi ha incominciato a sfidarla, torturarla, ma non ha mai potuto farne a meno. Questo era il suo modo tortuoso, contorto di volerla per sé, il solo del quale in quel momento fosse capace. L’ha spremuta, come si spreme una spugna, ma per quanto abbia stretto non ne ha ottenuto amore, solo balbettanti onestissimi tentativi di amore. La distanza che si è stabilita tra loro, ora, gli rivela una verità semplice quanto definitiva: la mite non può onorare l’impegno d’amore che aveva contratto dandoglisi in pegno, nonostante gli sforzi. Il sistema l’ha distrutta sotto molti riguardi, ma non è stato utile a costringerla a odiarlo né ad amarlo fino infondo: i due modi attraverso i quali lei avrebbe potuto appagare il bisogno immenso di amor proprio di lui.
Questa improvvisa illuminazione lo sconvolge e ora è lui, finalmente liberato dall’aver affrontato il rischio della morte dalla sua imperiosa necessità della stima dell’altra, ad avere un improvviso bisogno di dialogo, di presenza, di lei. Come in certi nodi di Ronald Laing[ii], è quando lei si arrende e interrompe i suo tentativi di amore, quando si rassegna a bastare a se stessa, che lui avverte l’esigenza di lei più imperiosa. Improvvisamente le si siede accanto ed è un fiume in piena. Esplode senza più nessun calcolo, senza alcun ritegno – finalmente spontaneo – il suo vero segreto, quello più profondo e antico di tutti: il suo spaventoso bisogno di essere amato confuso con quello di essere stimato, stimato degno d’amore. E adesso è lei a essere sorpresa da questo inaspettato ribaltamento e spaventata, a rispondergli prima sgomenta, poi con un’espressione di “severa meraviglia” (adesso è lei ad essere severa). E «così ancora amore ti occorre? amore?», immagina che lei – comprata, torturata, manipolata nel sistema – gli stia chiedendo col silenzio. Lui è ai piedi di lei, li bacia mentre lei tenta di ritrarli vergognosa, e in quell’atto avverte una smisurata felicità e un’immensa disperazione. Ora prova un sentimento che prima gli era interdetto, l’amore, ma si scontra con la sorpresa di non poter essere corrisposto. La ricerca del potere assoluto sull’altra che l’ha spinto a intrappolarla nel sistema che l’ha distrutta ora si ribalta nel volere dare a lei tutto il potere, nel darle prepotentemente troppo potere, ora non sembra prendere più ambivalentemente piacere nell’umiliarla ma nel voler essere da lei umiliato, essere il cagnolino ai suoi piedi. Ma lei non vuole né essere, costretta dal bisogno, il cagnolino di lui, né averlo come cagnolino perché la necessità di questa modalità della relazione non le appartiene. Lei è sana sul piano psicologico e lo guarda vergognosa, incredula, straordinariamente emozionata, in evidente imbarazzo. Ha un attacco isterico, e quando si riprende piange e gli dice: «Basta, non tormentatevi, calmatevi!». Soffre nel vederlo sbattere con tanta violenza nell’implacabile impossibilità dell’amore, al quale lei si sforza inutilmente. Una vacanza al mare, una vita diversa, l’abbandono di quel mestiere espressione e oggetto di odio, il desiderio di essere di nuovo ai suoi piedi, di annullarsi, adorarla, essere per lei cosa sua, il suo cagnolino sono offerte che forse arrivano tardi, o sarebbero state comunque inutili dall’inizio. Chissà. Forse è stato davvero, da subito, un malinteso: lei che ha pensato di poter imparare col tempo l’amore, lui che ha pensato di poter comprare, o costruire col plasmarla violentemente, un amore confuso con la stima che da sé non sapeva dare a se stesso.
E ora lei gli dice nel pianto: «e io pensavo che mi avreste lasciato così». Così, nella fragile e rassegnata tregua di separati in casa. Sono parole che lo trafiggono perché inconsapevolmente svelano l’impossibilità di amarlo della giovane, quella che, infondo, lui aveva forse da sempre inconsapevolmente rabbiosamente avvertita, e il suo desiderio invece di stare con lui a distanza per non farsi male reciprocamente. Ciononostante, la presenza di lei lo rende felice. Imbarazzo, vergogna, spavento di lei, emozioni che pure percepisce, non lo fermano; insiste, e ancora, disperato, non la vede, non riesce a considerarne i sentimenti. Continua a manifestarle adorazione (non amore), fa progetti, manifesta la sua ammirazione (era invidia) per lei – per quello che di lei col sistema ha tentato di distruggere, e in parte ha distrutto – e la bacia come ai primi tempi, “come bacia un marito”, allude castamente Dostoëvskij. Ora è lui a divenire generoso nell’usura; pare rappacificato con il mondo e forse, chissà, ora cerca con questo l’approvazione di lei (altro che gli ostacoli posti come prove per l’amore!).
Il mattino successivo è la mite a confessarsi: i tentativi di reazione cui si è vista costretta hanno lasciato traccia, ora lei si sente una “criminale” e avere sfiorato per un attimo in due occasioni il delitto continua a farla soffrire. Per comprendere il suo stato d’animo occorre qui tenere presente ancora un tema cristiano: per Dostoëvskij (e per lei) l’intenzione è sufficiente per la colpa e l’accettazione del castigo, per essere “criminale d’intenzione” e avere perciò orrore di se stesso, non corrispondere più al proprio ideale. Simile sarà l’atteggiamento di Mitja al processo Karamazov.
Lei gli promette fedeltà, rispetto; di più, evidentemente, non può. E anche in questo l’usuraio avverte involontario disprezzo; si tratta in realtà dell’impossibilità di imporsi l’amore, che lui proprio ha difficoltà a comprendere perché continua a confondere tra loro amore e stima. Se lei non lo ama, allora lo disprezza; ma non è così, amore e stima hanno tra loro una relazione più complessa (o forse meglio non hanno tra loro necessariamente relazione).
Lei credeva di farcela, sforzandosi. Non ci riesce. E non perché non lo stimi; perché, semplicemente, non prova amore per lui. Né può fingere; l’onestà è una delle concause della rovina della mite: «non ha voluto ingannarmi con un mezzo amore in veste d’amore» (p. 699). Quel mezzo amore avrebbe dovuto invece essere accettato per com’era, forse, all’inizio, uno “sforzo d’amore” piccolo, semplice, leggero, come ancora i passi delicati e regolari della mite sul palcoscenico di Lunaria suggeriscono; e poi, chissà. Ma, allora, era a tutt’altro che lui era interessato, un amore così incredibilmente grande da riempire il suo immenso vuoto d’autostima.
Dopo questa scena, la mite è di nuovo in trappola. Non può stare, non può andare, se non attraverso la finestra. Il suicidio della mite non è superbia prometeica né noia, come per altri personaggi in Dostoëvski o come lui aveva avvertito, contrapponendolo al suicidio della Borisova, in quello della figlia di Herzen. Al contrario: è il santo suicidio di chi non ce la fa a vivere. Lei ha pregato prima di fare quel salto; porta con sé, come ad accompagnarla e a proteggerla, l’icona della Vergine (la portava anche, nella cronaca, la Borisova). E’ cedimento di fronte alla durezza della vita, della società e la complessità delle relazioni emotive che a volte rendono vittima d’infinite crudeltà e a volte rendono crudeli proprio malgrado. E’ lo shock di Matrëska, la bambina stuprata da Stavroghin, nei Demoni; presa d’atto, dopo infiniti tentativi di vivere, dell’impossibilità di trovare un luogo in cui farlo. Non la casa delle zie, non quella che potrebbe pagarsi col lavoro che non trova, non quella del bottegaio, non quella dell’usuraio. Il suo assomiglia allora, credo, al suicidio di chi non regge la tortura, di chi è ineluttabilmente prigioniero del lager o della trincea, di chi soffre per una malattia che sa terminale, di chi è prigioniero del dolore psichico insopportabile di certi quadri depressivi. Sollevare se stessi dal peso di se stessi; rompere la relazione tra Sé e mondo che costituisce l’esistenza, perché quel mondo che è il proprio si è fatto insopportabile.
Attraversa la finestra stringendo a sé l’oggetto-sé inseparabile, carico di tutto il suo passato e della sua speranza, l’icona della Vergine che aveva dato in pegno appena prima di dare in pegno se stessa. Nella finzione teatrale l’importanza di questo oggetto arriva al punto che sia esso a cadere al posto suo. E’, sul palcoscenico come nel racconto insomma, tutt’uno con lei.
Solo, col corpo di lei
E adesso l’usuraio è solo, di fronte al corpo inanimato di lei. Il giocattolo è rotto, irreparabilmente: «Oh è assurdo, assurdo! Un malinteso! Una cosa inverosimile! una cosa impossibile!» (p. 699) prorompe. Ora, di fronte alla morte, qualunque cosa impallidisce e perde importanza: non contano più i giochi di potere con i quali l’ha tormentata, le necessità di risarcimento e vendetta, quelle d’amore, la stima di lei, l’onestà, la fedeltà coniugale della giovane. Tutto sarebbe tollerabile pur di non rimanere solo, a sentire il pendolo battere spietatamente le ore di un tempo ormai vuoto. Di là, sul tavolo, solo l’involucro di lei: «E ora di nuovo le stanze vuote, ora di nuovo solo. Là il pendolo batte, a lui non importa, a lui non rincresce il nulla (….). Di nuovo nessuno in casa, di nuovo due stanze, e di nuovo io solo coi pegni!! (…). L’avevo stremata, ecco com’è» (pp. 700-701). L’ha distrutta, consumata come si consuma un oggetto; l’ha torturata prima con l’invidia, la rabbia, poi con l’adorazione, senza mai accorgersi, tenere conto di lei, oggetto investito in modo narcisistico e sconquassato da sentimenti in ogni caso violenti. E’ lo stesso clima relazionale che sta alla base, il più delle volte, dei femminicidi che funestano la nostra cronaca[iii]; l’incapacità di fare posto all’altra, nella coppia. Che ciò avvenga sotto la spinta della pulsione erotica o della gelosia o di esigenze più complesse, non cambia; del resto, raramente la pulsione erotica viaggia sola. Nella coppia si è in due, ciascuno con la propria possibilità di darsi e non darsi, i propri bisogni emotivi, la complessità dei propri sentimenti e del loro variare nel tempo; e la possibilità stessa della coppia non può essere un diritto o una pretesa, ma dipende da un delicatissimo equilibrio cui entrambi si partecipa.
Nella mente di lui così si affastellano le ipotesi: è stata solo la scelta di un attimo, presa così senza ragionarci, forse in quella stessa sospensione della coscienza che avrebbe potuto coglierla mentre premeva il revolver sulla fronte di lui, un momento di vertigine, dieci minuti al più per decidere della vita, il frutto di un malinteso al quale si sarebbe potuto rimediare, una conseguenza dell’anemia o di un esaurimento organico dell’energia vitale, la conseguenza di quei fatali cinque minuti di ritardo di lui… Le rimprovera di non aver lasciato un messaggio, una spiegazione (ultimo atto di servizio per chi resta, la necessità di giustificarsi e magari assolvere e giustificare)… Ma tutto ciò non importa, e lui lo sa! Perché la mite si uccide? Perché era l’unico modo per rompere una trappola in cui si era infilata per bisogno? O perché l’essere stata ingaggiata in un duello feroce e per lei senza ragione fino a sfiorare l’adulterio e l’omicidio la rende odiosa a se stessa e la spaventa? O ancora perché si rende conto di non poter corrispondere all’improvvisa domanda d’amore di lui?
La risposta, come spesso in Dostoëvskij, resta aperta. Il punto del quale l’usuraio è alla ricerca si svela inafferrabile, come inafferrabile è la mente umana, ma la ricerca di quel punto gli ha permesso di procedere, e molto, in consapevolezza. E di aiutarci a nostra volta a procedere.
La letteratura scientifica individua nel suicidio essenzialmente tre desideri, legati ad altrettanti profili sotto i quali può essere considerato[iv]; e tutti e tre mi paiono calzanti al nostro caso. Desiderio di morire (giacché incontestabilmente si muore) che può essere ricondotto a un’esigenza di riposo e annullamento delle tensioni che nella giovane passata per una così burrascosa vicenda coniugale non è difficile comprendere. Non può più stare nella trappola, non può uscirne, se non per la finestra. Desiderio di uccidere (perché si uccide se stessi, ma pur sempre si uccide); e se in questo caso è proprio vero che “non ci si uccide senza essersi proposti prima di uccidere l’altro”, il tentato omicidio può aver avuto anche il significato di svelare il fatto che la trappola di questa coppia era tanto intricata da rendere impossibile scioglierla senza un colpo di forbici che sottraesse, con la morte, uno dei due alla relazione (e meglio disporre commettendo peccato della propria vita, per la mite, che non commettendo un peccato più grave di quella dell’altro). Desiderio di uccidersi (perché in definitiva ci si uccide) per punirsi, spinti dal sentimento di colpa, qui la colpa di un duplice fallimento. Come moglie, incapace di dare quell’amore al quale pure si era impegnata, e del quale l’usuraio nel finale mostra finalmente più lineare l’esigenza; e come mite, perché l’avere sfiorato l’intenzione dell’adulterio e dell’omicidio la fa ora sentire la “criminale” che ha percorso comunque abbastanza la strada dell’odio da aver tradito il suo ideale e la sua indole.
Un atto di per sé complesso nei suoi significati, perciò. Che si arricchisce di nuovi nella suggestiva proposta di lettura “ribaltata” del racconto che dobbiamo a Marina Mizzau, ripresa con qualche distinguo da Ado Carotenuto[v], per la quale la mite sarebbe uno di quei personaggi femminili del romanzo ottocentesco nei quali sorge una nuova coscienza della situazione della donna, che la porta ad esprimere le proprie ragioni di fronte, ed anzi contro, quelle dell’uomo. Rinunciando alle armi del suo potere subalterno e residuo – simulazione, seduzione e manipolazione occulta – armi rispetto all’uso delle quali, però, più che rinunciare, la mite mi pare incapace.
Tra la mite e l’usuraio ha inizio infatti da subito, per Mizzau, uno scontro di potere e di reciproco orgoglio: dalla prima frase apparentemente ingenua ma insolente sull’usura come vendetta, al momento in cui accoglie la proposta di matrimonio con inattesa titubanza, al contrapporre via via silenzio a silenzio, poi le uscite di casa, l’avvio di una relazione extraconiugale, la minaccia col revolver, il canticchiare in sua presenza che suona insolenza fino al rifiuto del (tardivo) esplodere dell’amore di lui. E’ vero, ma non dobbiamo dimenticare che questo scontro è quello che ha luogo tra i ragazzi prepuberi, a monte quindi della differenziazione dei ruoli di genere; e insieme che è lei a trovarsi sempre nella posizione di dover rintuzzare l’aggressione per lei incomprensibile di lui, in una simmetria inseguita ma mai raggiunta. Tentativi di ribellione, certo; senza che tuttavia la via dell’odio riesca ad essere mai percorsa oltre un tratto iniziale, e questo già spaventa e fa sentire colpevoli. Se non, forse, nel culmine in cui: «Nel suo silenzio definitivo, è la donna che fa di se stessa, per sempre, un enigma»[vi]. In cui cioè l’enigma di lei, del quale sarebbe così raccolta un’istanza aggressiva eterodiretta, si contrappone a quello iniziale di lui; un enigma, questo del suicidio, che l’usuraio si sforza inutilmente di banalizzare o depotenziare, ma è per lui sfida insolentemente aperta e per lei vittoria postuma.
E’ un’ipotesi che evoca la classica teoria psicoanalitica del suicidio, che Franco Fornari, rifacendosi a Freud di Lutto e melanconia, sintetizza nel fatto che talvolta il suicidio è un omicidio mancato qui nel senso di essere volto alla colpevolizzazione del sopravvissuto, col “buttargli addosso" il proprio cadavere[vii]. Il che non vuol essere, già nelle intenzioni della Mizzau, un’ipotesi rispetto ad altre alternativa ed escludente, ma solo possibile tra le diverse alle quali un racconto così ricco lascia spazio, l’altro significato eventuale che, parafrasando Bachtin, in Dostoëvskij accompagna come un’ombra ogni parola e ogni atto. Non solo un suicidio volto a rispondere al bisogno proprio di sottrarsi alla situazione, ma forse anche – in qualche recondito angolo del cuore del quale non si ha consapevolezza e prima di Freud nessuno aveva parlato ad alta voce – a regolare inconsciamente (perché ciò suona così dissonante rispetto alla personalità, l’indole, i valori, le stesse parole della mite…), certo a caro prezzo per sé, i conti con l’altro.
E’ certo un’ipotesi ricca di fascino; e lo spettatore, o il lettore, potrà tenerla presente per lasciarsi a sua volta interrogare. Ma è un’ipotesi della quale, personalmente, ravviso un elemento di debolezza perché non mi pare di cogliere nel testo elementi utili ad avvalorarla.
Si rischierebbe così di attribuire al modello psicoanalitico delle motivazioni inconsce al suicidio, o al carattere doppio degli atti e delle parole in Dostoëvskij carattere di legge universale, da applicarsi comunque a prescindere. Il che, in entrambi i casi, non è. E il carattere enigmatico del suicidio della mite, se si considera che qualsiasi spiegazione sarebbe suonata ad accusa verso lui, ha semmai il significato di proteggerlo, facendo del gesto col silenzio un atto privato, più che di accusarlo oltre quanto lui, inevitabilmente, si accusi.
Né più convincente mi pare l’applicazione alla vicenda del modello freudiano del masochismo, su cui insiste Carotenuto, perché ci troviamo certo di fronte a una relazione d’oppressione, ma non a una relazione sadomasochistica. Non lo è perché la mite, la vittima, non ha la possibilità di scegliere se starci, vi è costretta. Ma infondo neppure il comportamento dell’usuraio può essere ridotto al sadismo, pure in qualche forma presente, perché non ricerca nella sofferenza della vittima ptanto iacere, quanto invece risposta a più complesse esigenze di economia psichica che ci siamo sforzati di indicare. Il riferimento al sadomasochismo perciò mi pare fuori luogo, e avrebbe come unico risultato la confusione tra vittima e carnefice.
Credo poi che interpretare in riferimento ai modelli della psicoanalisi richieda prudenza, tanto nella critica letteraria come nella clinica. Perché quando è sufficientemente supportato dal testo, il guardare dietro le cose con gli strumenti dell’interpretazione può svelare aspetti inattesi della verità; ma quando non lo è, può esporre al rischio di allontanarcene, e anche di molto.
Meglio perciò, credo, in assenza di elementi nel testo che sostengano ipotesi diverse, rimanere fermi a quanto Dostoëvskij scriveva a proposito del suicidio della Borisova, e può verosimilmente essere considerato appropriato anche per quello della mite: «un suicidio mite, umile (…) [perché] semplicemente era diventato impossibile vivere». Spero quindi che il tragico volo della mite sia stato soprattutto un volo di liberazione fatto solo per se stessa, rottura del pegno che la teneva incatenata in una situazione impossibile, e non conseguenza dell’essersi lasciata ingaggiare, ancora una volta e in modo definitivamente distruttivo, nel conflitto. Una scelta che abbia a che fare solo con sé, un’istanza di pace dopo tanta incomprensibile guerra, unica uscita possibile dalla trappola di una situazione economica disperata, le complesse e contraddittorie istanze e il funzionamento psicologico contorto di lui, il sistema, i propri interdetti morali, mille laccioli nei quali è impastoiata. Un desiderio di togliersi la vita per il fatto di sentirsi impossibilitata alla vita. Un sollievo per sé, del quale non interessa più la valenza che può avere per l’altro.
Per l’usuraio – un termine che in questo caso più che un mestiere designa uno stile relazionale che rimane fino all’ultima riga del monologo coerente – come accade nell’agghiacciante scena finale dell’Idiota, il corpo senza più volontà né parola ma per qualche ora ancora bello della donna morta è l’oggetto del quale la vista può continuare ad appagarsi. Finalmente un oggetto, ma proprio perché tale, effimero. E l’ultimo pensiero di commiserazione è per se stesso: «Batte il pendolo inesorabile, odioso[viii] (…). No, sul serio, quando domani la porteranno via, che mai farò?» (p. 702).
La mite è morta, uscita vittima fino in fondo, io credo, non vittoriosa dall’impari braccio di ferro nel quale l’usuraio l’ha ingaggiata. Lui invece è vivo. Qui termina il racconto, perché termina l’interesse di Dostoëvskij che è tutto per la mite, la protagonista assente.
Ma se noi volessimo, potremmo giocare ad andare oltre e immaginare, ciascuno, un proprio epilogo. Nel mio, credo che l’usuraio, rassegnatosi alla sepoltura della mite, trovi un lavoro più rispettato e riprenda moglie più tranquillo, questa volta, di meritarne la stima. Una moglie che gli sia più vicina negli anni e nel censo, conquistata senza ricatto, e capace di tener testa – usando anche la scaltrezza, le malizie, la seduzione, armi femminili delle quali la mite era incapace – all’egoismo di lui, dal quale neppure il tragico volo della mite mi pare che sia bastato a liberarlo.
[i] B. Basile, La finestra e l’icona… cit., p. 46.
[ii] R. Laing, Nodi. Paradigmi di rapporti intrapsichici e interpersonali (1970), Torino, Einaudi, 1974.
[iii] Certo il nodo del rapporto amore dell’altro / possesso dell’altro e del femminicidio ha radici antiche nella storia del rapporto uomo/donna, ma forse – e me lo chiedo perché non saprei rispondere, né so sinceramente se sia in atto un reale aumento dei femminicidi nella società italiana o solo sia aumentata l’attenzione al problema – si presenta con aspetti particolari in questo momento. Perché? Si potrebbe osservare che all’ormai stabile acquisizione del modo in cui l’identità della donna nella società italiana è evoluta negli scorsi decenni, corrisponde invece l’arretramento dei valori solidaristici e delle aspirazioni di giustizia nel cui contesto ha potuto aver luogo quell’evoluzione.
[iv] P. Moron, Il suicidio. Le scienze umane di fronte all’uomo che sceglie la morte (1975), Milano, Garzanti, 1976, pp. 67-68.
[v] A. Carotenuto, L’ambiguità del silenzio nel discorso amoroso, Giornale storico di psicologia dinamica, 22, 43, 1998, pp. 5-15.
[vi] M. Mizzau, Silence à deux voix… cit. p. 48.
[vii] F. Fornari, Nota sulla psicoanalisi del suicidio, in: Suicidio e tentato suicidio in Italia, Milano, Giuffrè, 1967. Ricordo in proposito osservazioni personali a partire da analisi dei messaggi suicidari in: C. Baconcini, D. Mussi, P.F. Peloso, Il messaggio del suicida. Un approccio psicodinamico, Rivista Sperimentale di Freniatria, CXV, 1991, pp. 428-440; P.F. Peloso ,V. Puppo, Osservazioni sulla prevenzione del suicidio in carcere e sul rapporto tra cura e detenzione, Giornale Italiano di Suicidologia, 3 (Suppl.1), 1993, pp. 181-186; C. Baconcini, D. Mussi, P.F. Peloso, Morir d'amore: per amore di chi? Un'analisi sul messaggio suicidario, GNOSIS- Esperienze Neuropsichiatriche, 1, 1993, pp. 77-81; P.F.Peloso, Amore, morte, morte dell'Io. Il mal d'amore da categoria diagnostica a esperienza psicotraumatica, in: La cura delle malattie: itinerari storici (a cura di A. Guerci), Genova, Erga, 1998, pp. 297-311.
[viii] E’ il tempo ora destinato a deturpare inesorabilmente il corpo, non più tenuto in vita dalla vita, di lei.
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