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Deistituzionalizzazione: prefazione di Egle Becchi

17 Apr 23

A cura di dinange

Il testo "Deistituzionalizzazione: l’esperienza del  De Sanctis di Reggio Emilia" (di: Leonardo Angelini, Deliana Bertani, Giovanni Bilancia, Jvonne Bonner, Valeria Confetti, Eleonora Eleuteri, Jorgo Mishto, Giovanni Polletta, Carla Tromellini), Nuova Italia Ed., 1977,) descrive il percorso – che va dal 1970 al 1977 – che portò alla chiusura del De Sanctis, cioè del reparto infantile del manicomio di Reggio Emilia. E al ritorno dei bambini e dei ragazzi disabili e psicotici, che erano lì ricoverati, in famiglia; e al loro inserimento in scuola.
Inserimento che lì per lì non sollevò molti entusiasmi fra gli insegnanti; ma anche in buona parte delle forze politiche cittadine, attraversate al loro interno da una spaccatura che era il prodotto della nascita di questo nuovo modo di prendersi cura dell’
altro da me che era lungi dal sostituirsi alla vecchia logica, tipica delle istituzioni totali, allora vigente, e basata – a Reggio Emilia, come nel resto d'Italia, – sull’esclusione e sulla reclusione.
Le pagine che seguono – intitolate "
Una testimonianza di lettura" – sono di Egle Becchi, e costituiscono la prefazione a Deistituzionalizzazione. Le riproponiamo a un anno dalla scomparsa di questa grande studiosa per onorarla, ma anche per ricordare alle colleghe ed ai colleghi della psichiatria odierna da dove veniamo.
(Leonardo Angelini e Deliana Bertani)

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Una testimonianza di lettura
di Egle Becchi
 
(prefazione a: AA.VV. “Deistituzionalizzazione. L’esperienza del De Sanctis di Reggio Emilia, La Nuova Italia, Firenze, 1977, pp.IX-XIII)
 
 
Nel 1970 viene costruito ex novo a Reggio Emilia un istituto per l’infanzia handicappata; lo si è progettato e lo si edifica secondo quei raffinati criteri di gestione del deviante che Foucault ha definito dello spazio disciplinare: « Ad ogni individuo il suo posto; ed in ogni posto il suo individuo. Evitare le distribuzioni a gruppi; scomporre le strutture collettive; analizzare le pluralità confuse, massive o sfuggenti. Lo spazio disciplinare tende a dividersi in altrettante particelle quanti sono i corpi o gli elementi da ripartire. Bisogna annullare gli effetti delle ripartizioni indecise, la scomparsa incontrollata degli individui, la loro diffusa circolazione inutilizzabile e pericolosa […]. Si tratta di stabilire le presenze e le assenze, di sapere dove e come ritrovare gli individui, di instaurare le comunicazioni utili, d’interrompere le altre, di potere in ogni istante sorvegliare la condotta di ciascuno, apprezzarla, sanzionarla, misurare le qualità o i meriti » (M. Foucault, Sorvegliare e punire, trad. it. Torino, Einaudi, 1976, pp. 155 s.) e dello spazio dell'esclusione: «… proiettare i tagli precisi della disciplina sullo spazio confuso dell’internamento, lavorarlo coi metodi di ripartizione analitica del potere, individualizzare gli esclusi, ma servirsi di procedimenti di individualizzazione per determinare le esclusioni — è quello che è stato fatto regolarmente dal potere (ibid. p. 217) disciplinare dall'inizio del secolo XIX; l’asilo psichiatrico, il penitenziario, la casa di correzione, lo stabilimento di educazione sorvegliata, in parte gli ospedali — in generale tutte le istanze di controllo —, funzionano su un doppio schema; quello della divisione binaria (pazzo / non pazzo, pericoloso / inoffensivo, normale / anormale); e quello dell'assegnazione coercitiva, della ripartizione differenziale (chi è o deve essere; come caratterizzarlo, come riconoscerlo; come esercitare su di lui, in maniera individuale, una sorveglianza costante ecc.)…» (ibid. p. 217).
 
Una città — e non è l’unica — viene così costruita nella città più ampia che la circonda, secondo i criteri del controllo e dell’emarginazione; il nuovo De Sanctis di Reggio è infatti una città per «bambini matti» che come tali vanno amministrati e controllati con spreco ridotto di forze, ma in maniera esaustiva: «la struttura dell’edificio risponde perfettamente a questa logica; un grande edificio che può raccogliere circa 300 bambini…, costituito dal ripetersi continuo di strutture identiche una all’altra convergenti, attraverso una rete di lunghissimi canali comunicanti, verso un blocco centrale che costituisce il cervello dell’istituto. Il gruppo centrale, circondato su due lati dalle strutture suddette, è destinato agli ‘alloggi; tre blocchi principali uguali, ognuno dei quali è suddiviso ancora in tre moduli identici, deve servire per le camere al primo piano e per il soggiorno al piano terreno. Le prime sono dominate da una specie di gabbia centrale per l'assistente che può così controllare contemporaneamente 24 bambini e i gabinetti, che sono aperti mediante vetrate… I 24 posti letto sono disposti a gruppi di 2 o 4, divisi uno dall'altro da un muretto alto più o meno quanto i divisori di una stalla modello. AI piano terreno ci sono appunto le sale di ricreazione, anche queste costruite con criteri della più stretta sorveglianza; infatti è possibile, attraverso un susseguirsi di vetri spia, controllare tutte le stanze e i gabinetti. Tutte queste strutture sono collegate da corridoi chiusi e bassi. Il blocco centrale è previsto per l’unico refettorio che deve servire a tutti î bambini (300!); per i servizi medici e tecnici; per i servizi igienici (12 docce e 3 vasche da bagno), gli unici per tutto l'istituto; per la cucina e per la cappella. A questi edifici si aggiungono 3 scuole, pure collegate al complesso centrale con lunghi corridoi… Il tutto è stato progettato non per il bambino con handicap, ma per ‘vedere’, per sorvegliare il bambino » (p. 9).
Sì instaura così un’omologia fra la geometria del controllo, propria del nuovo De Sanctis, e tante altre strutture della città (la scuola, alcune istanze amministrative centrali che con la scuola sono legate, buona parte della stessa assistenza gestita da privati non laici) e tale analogia non si ferma qui; di queste altre strutture, proprio per la sua finalità custodialistica, emarginante e parcellizzante, il De Sanctis condivide un più complessivo destino. Sono infatti le scuole e le classi speciali, gli ospedali psichiatrici nel loro assetto di luoghi separati della comunità, gli interventi dell'assistenza religiosa, un'intera scienza -psichiatrica e pedagogica – che proprio in quegli anni, in molte regioni, ma soprattutto in Emilia e a Reggio, vengono posti in discussione, da forze di base, sulla scorta di esperienze — prossime e meno vicine — di deistituzionalizzazione di reparti e asili psichiatrici, di contestazioni più ampie, che investono la scuola, î modi di gestione politica del «diverso », il senso stesso della «norma» che distingue il sano dal malato e discrimina, segregandolo e emarginandolo, il secondo, definendo in modo falsamente assoluto e astorico i modi della convivenza civile.
Anche il De Sanctis di Reggio Emilia è oggetto, già prima del suo rinnovo architettonico, di un processo di deistituzionalizzazione, ma a differenza di Gorizia, Trieste, Arezzo, Perugia — i «luoghi» della deistituzionalizzazione — non si tratta di un fenomeno di riformulazione dell'organismo terapeutico, che nasce nell'ospedale psichiatrico e da questo, per vie culturali, ideologiche, e politiche si muove al proprio esterno, attingendo dal fuori, ma successivamente, conferma e sostegno. L’esperienza deistituzionalizzante del reparto minorile dell'Ospedale psichiatrico di Reggio Emilia, nasce dentro, ma soprattutto fuori l'istituzione e mostra — ancora una volta con Foucault — quanto stretta sia l’implicazione fra potere. e sapere, e come ogni forma di scienza nuova — e la riduzione dell’intervento farmacologico, della regolamentazione comportamentale disciplinaristica, della segregazione in istituti per buona parte sottratti al controllo pubblico, della scolarizzazione «speciale » e dell’itinerario manicomiale coatto dall'infanzia all’età adulta, che vengono tentati nei confronti del «nuovo » De Sanctis sono appunto aspetti di un sapere riformulato — regga in quanto si connette a un potere trasformato.
 
Il nuovo sapere che vuole farsi carico di chi è segregato nel reparto minorile — sapere deistituzionalizzante, ricostitutivo di relazioni comunitarie sospese ma non abolite, volto dinamicamente al futuro — si appoggia a un potere incoativo, non assodato, non garantito da autorità, tradizione, prestigio. Di qui la dialettica — descritta in tante pagine del libro — fra detentori di saperi e di poteri diversi: i responsabili di molte scuole, da un lato, e gli operatori sociosanitari dall’altro; da una parte i depositari dell'assistenza e dall'altra i comitati di quartiere; a confronto, gli insegnanti e gli animatori del tempo libero. E di qui la dimostrazione che ogni nuovo sapere vive in registro diverso la rete comunitaria e per questo inizia in spazi — situazioni, luoghi, momenti, modi di incontro e di contatto — se non ex lege, purtuttavia anomali o comunque antitradizionali. Tali spazi sono, nel caso reggiano, le assemblee, le mostre, le inchieste attivanti, i convegni di larga partecipazione di base; le energie che li banno animati sono i sindacati e le forze politiche diversamente organizzate, i quali si sono avvalsi di modi e di mezzi propri del loro operare, usandoli nell’area, fino allora riservata ai « tecnici » psichiatrici e medici, dell’intervento sull’handicap.
Ed ecco il paradosso; il portatore di handicap viene « gestito» in spazi liberi — i campi gioco —, viene istruito con i «non diversi» nella classe «normale », viene infine restituito, perché vi lavori e vi esista pienamente, alla comunità.
 
È qui l’idea nuova di cui il testo racconta la messa in atto, l’idea che ha costituito guida, provocazione, difficoltà, parziale successo nel corso dell’intera esperienza; la consapevolezza fattiva che il destino del portatore di handicap ha un esito negativo se non si svolge nella comunità interagendo con le sue energie, costituendo per esse provocazione talora assurda. Nella realizzazione di questa idea le competenze — i saperi specifici — vengono riformulati; non si negano — il che sarebbe ingenuo e temerario — ma si rivisitano da ruoli diversi; lo psichiatra e lo psicologo devono fare i conti con un «territorio » che non è più lo spazio concluso dell’istituto medico-pedagogico, entro il quale il soggetto, etimologicamente, sottostava alla loro diagnosi, ma è la fitta trama di nessi societari, economici, culturali, di un'intera comunità, che si estende nel tempo e nello spazio, in una cronologia e una geografia in cui non sempre è agevole operare; l’educatore deve riabilitare il suo sapere del corpo e del tempo libero, aggiungendolo a quello che è tradizionale nella sua professione egli sappia della mente e del tempo di scuola; l’infermiere e chi lavora nel reparto psichiatrico devono farsi saltuari annunciatori o compagni del rientro del «diverso» nella sua comunità, preparando questo ritorno, e con esso un riformularsi dei rapporti intersoggettivi e produttivi. Questa ridefinizione delle competenze tecniche avviene non per acquisirne tout court altre diverse, ma perché si sta tentando una revisione dei ruoli di potere specie là dove questi appaiono, in modo più eclatante, intrusione del « privato » nel « pubblico » e come tali (si pensi all'assistenza, privata per tradizione nella nostra società, e alternativa da secoli all’autorità civile) inibiscono energie, depauperano iniziative. Avviene, in altre parole, perché il ruolo di ognuno di coloro che sono impegnati nella vicenda deistituzionalizzante assume una valenza politica, della quale prima era ignaro, carente o privo.
 
Queste alcune riflessioni sulla lettura del testo. Non sono, va da sé, le uniche né intendono essere esclusive. Altre, da ottiche diverse, più prossime ai fatti che il libro racconta o a eventi analoghi, è plausibile siano fatte e in gran numero; e di queste si spera sia data testimonianza.

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