Come è noto Gilles Deleuze, con e senza il “compagno” Félix Guattari, si è occupato molto e con insistenza di psicoanalisi. Non è mia intenzione affrontare qui la complessità della frequentazione di Deleuze delle faccende psicoanalitiche. Andrò molto più semplicemente a estrarre alcuni passaggi tratti da due brevi – e tutto sommato semplici – testi esplicitamente rivolti alla psicoanalisi: Psicoanalisi morta analizzate3 e Quattro proposizioni sulla psicoanalisi 4.
Questi passaggi permettono a mio avviso di affermare con convinzione che Deleuze ha ragione! Ha ragione vuol dire che ognuno di questi passaggi indica con precisione un rischio imminente e incombente – se non realizzato – che accompagna sempre la pratica e la teoria psicoanalitica. Hanno poca importanza qui le distinzioni tra i vari orientamenti della psicoanalisi, i passaggi di Deleuze colpiscono l’osso delle psicoanalisi. Non fa eccezione dunque neanche Lacan, spesso e a ragione collocato, da Deleuze e dai suoi commentatori, proprio in posizione di eccezione. Ma la posizione di eccezione ha le sue scomodità e spesso i colpi che Deleuze sferra a Lacan sono, proprio perché è in posizione di eccezione, molto più duri di quelli rivolti, qui senza timore di indicare il nome proprio – Melanie Klein su tutti – ad altri noti psicoanalisti.
Certo il rapporto che Deleuze intrattiene con Lacan è particolare. Il filosofo francese non manca di ricordare come Lacan abbia cercato, a modo suo, di averlo tra i propri allievi: «Il mio unico grande incontro con lui [Lacan] è stato dopo la pubblicazione de L’Anti-Edipo. Sono sicuro che l’avesse presa male, che se la fosse presa con me e Félix. Ma alcuni mesi dopo mi ha fatto chiamare senza nessuna spiegazione. Voleva vedermi, e io ci sono andato. Mi ha fatto aspettare nella sua anticamera, c’era tantissima gente, non si sa se fossero malati, ammiratori o giornalisti. Mi ha fatto aspettare molto, forse troppo, e alla fine mi ha ricevuto. Mi ha fatto la lista di tutti i suoi discepoli dicendo che non valevano nulla (l’unico di cui non ha parlato male era Jacques-Alain Miller) […]. Comunque Lacan parlava, e ne ha avuta una per tutti, tranne Miller. E alla fine mi ha detto: ho bisogno di qualcuno come te»5.
Non a caso negli ultimi anni il rapporto Deleuze-Lacan, anche e in particolare in Italia, è al centro di un rinnovato interesse6 e non a caso spesso gli psicoanalisti a orientamento lacaniano si sono occupati di Deleuze – quanto meno perché trovano che alcune critiche di Deleuze alla psicoanalisi siano le critiche mosse alla psicoanalisi dallo stesso Lacan. Questo non deve farci però dimenticare come Lacan sia contato da Deleuze tra i problemi della psicoanalisi – quando Deleuze critica il binarismo del significante non si sta certo riferendo a Winnicott. Non tenendo conto di ciò si cadrebbe nell’illusione di ipotizzare che le critiche di Deleuze alla psicoanalisi riguardino tutta la psicoanalisi tranne quella di Lacan. Non è così! Almeno nei nove passaggi che andremo ora a estrarre, i rischi indicati da questi passaggi, riguardano anche – non arriverò a dire soprattutto – la psicoanalisi lacaniana. Allo stesso tempo non si potrà non notare come, almeno nell’articolazione di questi nove passaggi, io tenda spesso a sostenere le affermazioni di Deleuze attraverso delle affermazioni di Lacan. Dirò di più, molti di questi passaggi potrebbero essere di Lacan – non tutti. Ma il punto, ripeto, non è questo. Deleuze ha ragione altro non indica che nove rischi che la pratica psicoanalitica corre sempre – poi certo in alcuni orientamenti questi rischi sono stati da tempo realizzati.
Primo passaggio
«Il fatto è che la psicanalisi parla parecchio dell’inconscio, essa stessa l’ha scoperto. Ma poi, in pratica, è sempre per ridurlo, distruggerlo, scongiurarlo» (PM, p. 75).
La psicoanalisi in quanto pratica dell’inconscio è una pratica della soglia, ossia sta sempre per chiudere la larva che apre. La pratica analitica travalica la soglia dal lato sbagliato, cioè chiude l’inconscio, in tre modi. Il primo. Lo riduce cercando di renderlo adatto al principio di realtà. Il secondo. Lo distrugge cercando di conoscerlo, di bonificarlo. Il terzo. Lo scongiura sottomettendolo all’impianto teorico, fondamentalmente metafisico e umanista, di cui non riesce a fare meno. Che l’inconscio sia un taglio, un taglio fatto di larve, è una bella espressione di Lacan che allude a quanto sia problematico frequentarlo sia per l’analista che per l’analizzante: «Non è mai privo di pericolo agitare qualcosa in questa zona di larve e, forse, è proprio della posizione dell’analista – se egli vi è veramente – il fatto di dover essere assediato – voglio dire realmente – da coloro presso i quali ha evocato questo mondo di larve»7. C’è una divisione costitutiva della pratica psicoanalitica e del suo fondatore, cioè Freud – «il suo statuto di essere, così evasivo, così inconsistente, è dato all’inconscio dal modo di procedere del suo scopritore»8 – rispetto alla sua stessa invenzione, che è la divisione dell’inconscio, cioè l’inconscio come divisione, come taglio. Questa divisione può essere tenuta come tale o può essere piegata da un lato o dall’altro. Deleuze ci fa intendere che i tre modi di maneggiarlo – che poi conseguono a dei modi di intenderlo – lo piegano dalla parte sbagliata, cioè quella della sua chiusura.
Deleuze aggiunge subito una sua ulteriore idea. Il modo in cui la psicoanalisi chiude l’inconscio è quello dell’interpretarlo e maneggiarlo sempre attraverso il rimando: «bisogna sempre che ci sia qualcosa che rimandi a qualcos’altro» (PM, p.75), dunque sempre e solo in modo trascendente. La psicoanalisi è incapace di intendere e maneggiare l’inconscio in sé, e scongiura questo immanentismo trattandolo sempre e solo come per sé.
Secondo passaggio
«La psicoanalisi, la quale si fa un vero vanto della logica, non comprende nulla della logica dell’articolo indefinito, del verbo infinito e del nome proprio. La psicoanalisi vuole ad ogni costo che dietro gli indefiniti si celi un definito nascosto, un possessivo, un personale» (PM, p. 77). Insomma, la psicoanalisi là dove c’è un articolo indefinito coglie un articolo definito nascosto, là dove c’è un verbo infinito coglie un possessivo nascosto, e là dove c’è un nome proprio coglie una persona. Così facendo la psicoanalisi riconduce al particolare quel che si dice in seduta, al particolare della storia di un determinato paziente, al suo orizzonte intrapsichico e interpersonale. Così facendo la psicoanalisi perde completamente l’occasione di occuparsi del singolare, cioè della triade delineata da Deleuze, che non è la particolarità della propria storia ma quel che la eccede e ne costituisce il fuori. La psicoanalisi, secondo Deleuze, presa a occuparsi del personale e dell’interpersonale, del mondo interno e del mondo esterno, è incapace di cogliere le linee di fuga e i concatenamenti. La psicoanalisi è incapace – ricordo che in questo articolo “è incapace” significa “rischia sempre di essere incapace” – di intendere che Virginia Woolf non è il nome di una persona ma il nome di «un modo di essere dei regni, delle età e dei sessi» (PM, p. 115).
Terzo passaggio
«La psicoanalisi è fatta da cima a fondo per impedire alla gente di parlare e per sottrarre ad essa tutte le condizioni di enunciazione vera» (PM, p. 78).
Qui il colpo è abbastanza duro, dato che la psicoanalisi si considera la cura della parola e dà abbastanza per scontato che la sua pratica comporti automaticamente offrire l’occasione di parlare. Ma in effetti, al di là del fatto che Deleuze ha un’idea di enunciazione che cancella il soggetto dell’enunciazione, vedendo in questo soggetto un errore – qui si potrebbe obbiettare molto a Deleuze – quel che risulta evidente nella sua critica è che la pratica psicoanalitica nell’offrire la parola all’analizzante non fa altro che togliergliela. Occorre provare a essere un po’ più chiari. La pratica psicoanalitica toglie la parola finché non capisce che non si tratta di interpretare la parola dell’analizzante ma di far sì che la parola dell’analizzante interpreti. E ancora, la psicoanalisi toglie la parola finché non capisce che non si tratta di occuparsi di quel che l’analizzante dice ma dell’atto del dire che si manifesta e si nasconde in quel che l’analizzante dice, che si tratta di occuparsi in quel che dice l'analizzante non del che cosa vuole dire? e non del che cosa vuole dire con quello che sta dicendo ma del che cosa vuole per il fatto di dire?9
Quarto passaggio
«Gli psicoanalisti ci insegnano la rassegnazione senza limiti, sono gli ultimi preti (no, ne spunteranno ancora di altri preti). Non si può dire che essi siano molto allegri, guardate lo sguardo spento che hanno, la loro nuca irrigidita (soltanto Lacan ha conservato un certo senso del riso, però confessa di essere costretto a ridere completamente da solo) […]. Abbiamo per caso un articolo qualunque di uno psicoanalista autorevole, un articolo di due pagine: “La lunga dipendenza dell’uomo, la sua impotenza a cavarsela da solo… l’inferiorità congenita dell’essere umano… la ferita narcisistica inerente alla sua esistenza… la realtà dolorosa della condizione umana… che implica l’incompletezza, il conflitto… la sua intrinseca miseria, che lo porta tuttavia fino alle più alte realizzazioni”. Molto tempo fa un parroco sarebbe stato espulso dalla propria chiesa se avesse tenuto un discorso così impudente, così oscurantista» (PM, p. 79). Questo passaggio non credo necessiti di essere commentato. Un’unica cosa. Questo passaggio è diventato nel corso degli anni, oggi più che mai, di stringente attualità.
Quinto passaggio
Deleuze sta parlando del nuovo nevrotico, colui che «non riesce a sopportare che esista una salute» (PM, p. 80), che ha bisogno di contagiare gli altri – «avvelenare» (PM, p. 80) – con la propria nevrosi, e che va così in analisi per far sì che anche gli altri ci vadano, inviando amici, conoscenti e colleghi in analisi: «il guarire simile tipo di gente significherebbe innanzitutto distruggere in loro questa volontà di avvelenare. Ma come potrebbe farlo proprio lo psicoanalista, lui che in questo modo ha a sua disposizione un formidabile autoreclutamento della propria clientela?» (PM, p. 80).
Qui Deleuze è un po’ rancoroso, cede un po’ troppo alla polemica però, se pure lateralmente, tocca un problema, problema che riassumo bruscamente: “essere il fallo dei propri analizzanti è forse garanzia che l’analizzante si trovi bene e dunque continui e dunque invii altri analizzanti e dunque non si curi?”.
Sesto passaggio
Deleuze in queste pagine si occupa, come in altri momenti, dell’anoressia. Così facendo parla anche della moglie Fanny, lei alle prese direttamente con l’anoressia. In un suo celebre testo10 Derrida “se la prende” con Lacan che gli avrebbe detto – in risposta ad alcune obbiezioni dello stesso Derrida rivolte a Lacan –: “tu non vedi persone che soffrono”, cioè, aggiungiamo noi, “tu non vedi persone che soffrono e per questo dici quel che dici, fai queste obbiezioni”. Derrida, a ragione, sottolinea che lui, più o meno come tutti, vede persone che soffrono. Allora si potrebbe dire più correttamente a Derrida, e qui lo diciamo a Deleuze: “tu non ascolti persone che soffrono”. Qui non si può obiettare che Deleuze come Derrida e come tutti “ascolti persone che soffrono”. Non si può obiettare ciò perché ascoltare non è vedere. Non basta avere una moglie che soffre per ascoltarla, anzi non si ascolta mai una moglie che soffre – e forse non si ascolta mai una moglie. Ascoltare psicoanaliticamente – è chiaro che va fatta questa aggiunta – significa sentire quel che l’altro dice a prescindere dal proprio fantasma. Questo non solo non è semplice farlo, ma direi che non è possibile farlo – salvo contingenze che sono evidentemente la conferma dell’impossibilità strutturale – al di fuori della procedura psicoanalitica – e del suo motore, il transfert. Che Deleuze non “ascolti persone che soffrono” è spesso evidente in quel che afferma – sia chiaro non considero questo né un limite né un problema, ma una caratteristica della sua postura. I passaggi sull’anoressia indicano con chiarezza che “non ha mai ascoltato un’anoressica”, il che non gli impedisce – e forse gli permette – di cogliere come la psicoanalisi abbia la tendenza teologica a fare del vuoto un abisso, del buco qualcosa che risucchia, di fare del vuoto qualcosa di privativo e – ancora peggio – di creativo (qui c’è tutta la dimensione religiosa della psicoanalisi, fuor di religione dovremmo dire che il vuoto non è creativo, eventualmente “fare il vuoto” è creativo). Questo il passaggio di Deleuze in questione – passaggio che ripeto indica che non ha mai ascoltato un’anoressica ma che al contempo segnala il rischio che la psicoanalisi corre, quello di trattare il vuoto in modo teologico: «L’anoressia è forse ciò di cui si è parlato peggio, specialmente sotto l’influenza della psicoanalisi: il vuoto, che è proprio del corpo senza organi anoressico, non ha niente a che vedere con una mancanza e fa parte della costituzione del campo di desiderio percorso da particelle e da flussi […]. Il deserto è un corpo senza organi che non è mai stato contrario alle tribù che lo percorrono, il vuoto non è mai stato contrario alle particelle che vi si agitano» (PM, p. 87).
Settimo passaggio
«La psicanalisi non ha mai smesso di percorrere delle strade genitoriali e familiari, non è che si debba rimproverare ad essa il fatto di aver scelto una ramificazione piuttosto che un’altra, ma di essersi bloccata su quella ramificazione». (PM, p. 99)
Siamo alle prese con il solito problema dell’Edipo, dell’Edipo come crocevia strutturale decisivo nella costituzione della soggettività e dell’economia pulsionale. Certo la psicoanalisi dice di essere andata molto oltre l’Edipo, di essere andata al di là dell’Edipo e di essere andata al di qua dell’Edipo. Questo doppio movimento ha per Deleuze ben poco valore in quanto ha sempre l’Edipo come unità di misura. Si tratta di fare dell’Edipo uno dei molteplici concatenamenti in cui il desiderio si sperimenta, niente di più. Se così non si fa si sottomette preventivamente il desiderio a un concatenamento privilegiato, quello dell’Edipo, così da far convergere qualsiasi produzione del desiderio nella direzione di un riferimento all’Edipo. Il rischio è proprio questo, ossia che la pratica analitica si trovi a riferire il desiderio sempre all’Edipo e mai a maneggiarlo nel punto in cui si sta attuando.
Per altri versi abbiamo qui il radicale antiumanismo di Deleuze. Se la psicoanalisi si ripiega verso l’umanismo non può intendere il desiderio, in quanto è costretta a intenderlo sempre a partire dall’essere umano come unità di misura e dunque a non incontrare mai «il Fuori da cui proviene ogni desiderio» (PM, p. 93). Se la psicoanalisi si ripiega su una postura umanista non può che sottomettere il desiderio «al piacere come norma» (PM, p. 95).
Ottavo passaggio
«La psicoanalisi procede così: parte da enunciati collettivi già fatti, come l’Edipo, e pretende di scoprire la causa di questi enunciati in un soggetto personale dell’enunciazione che deve tutto alla psicoanalisi. Siamo presi in trappola fin dal principio. Bisognerebbe fare l’opposto, è questo il compito della schizoanalisi: partire dagli enunciati personali di qualcuno e scoprire la loro vera produzione» (QP, p. 62).
Si tratta di un passaggio decisivo. Per certi versi si potrebbe dire che la psicoanalisi fa proprio ciò, ossia parte dagli enunciati personali di qualcuno per produrre la loro propria concatenazione. Per un altro verso si può dire che fare ciò non è una cosa semplice. Si potrebbe dire a Deleuze che “la fa un po’ facile”. Ma non è l’argomento di questo testo. Il punto è che la pratica psicoanalitica non può che fare una grande fatica a far ciò fin quando non saprà separarsi, nel proprio modo di operare e funzionare, dalla persona che si reca in analisi – separasi dalla persona significa non farne il punto di partenza di quel che si dice e accade in analisi. Si tratta di uno degli impossibili con cui la pratica psicoanalitica non può non avere a che fare.
Nono passaggio
«Il marxismo e la psicoanalisi, in due maniere diverse, ma poco importa, parlano in nome di una specie di memoria, di una cultura della memoria, e si esprimono inoltre in due maniere diverse, ma anche questo poco importa, in nome di un’esigenza di sviluppo. Noi crediamo al contrario che bisogna parlare in nome di una forza positiva dell’oblio, in nome di ciò che è, per ciascuno di noi, il proprio sottosviluppo» (QP, p. 65). Il rischio è che la pratica analitica diventi un’esperienza della memoria e dello sviluppo – una pedagogia. Con Deleuze dobbiamo dire che la psicoanalisi, se vuole essere una pratica dell'inconscio e non della sua chiusura, deve riuscire a sostituire alla triade ricordare-capire-maturare la triade dimenticare-produrre-inventare.
Con Deleuze dobbiamo dire che la psicoanalisi non deve essere una pratica di conoscenza di se stessi ma di frequentazione del fuori, e non deve essere un'esperienza nella quale si acquisisce un nuovo linguaggio ma un'esperienza nella quale ci si ritrova, da ultimo, disposti a «balbettare il linguaggio stesso»11!
1 G. Deleuze, Cosa può un corpo?, Ombre Corte, Verona, 2010, p. 128.
2 G. Deleuze, “Prefazione all’edizione americana di Nietzsche e la filosofia”, in: Due regime di folli e altri scritti, Einaudi, Torino, 2010, p. 146.
3 G. Deleuze e C. Parnet, “Psicanalisi morta analizzate”, in: G. Deleuze e C. Parnet, Conversazioni, Ombre Corte, Verona, 2011, pp. 75-118, (di seguito indicherò le pagine delle citazioni di questo testo tra parentesi accompagnata dalla sigla PM).
4 G. Deleuze, “Quattro proposizioni sulla psicoanalisi”, in: G. Deleuze, Due regimi di folli e altri scritti, cit., pp. 58-65 (di seguito indicherò le pagine delle citazioni di questo testo tra parentesi accompagnata dalla sigla QP).
5 G. Deleuze, “Mi ricordo”, in: A. Badiou, Oltre l’uno e il molteplice, Ombre Corte, Verona, 2007, pp.114-115.
6 Cfr. F. Vandoni, E. Redaelli, P. Pitasi (a cura di), Legge, desiderio, capitalismo, Bruno Mondadori, Milano, 2014.
7 J. Lacan, Il Seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964), Einaudi, Torino, 2003, p. 24.
8 Ivi, p. 34.
9 J. Lacan, Le Séminaire. Livre XVI. D'un Autre à l'autre (1968-1969), Seuil, Paris, 2006 (in particolare cap. X).
10 J. Derrida, “Per l’amore di Lacan”, in: aut aut n. 260-261, Il saggiatore, Milano, 1994, pp. 150-172.
11 G. Deleuze e C. Parnet, “Che cos’è, a che cosa serve una conversazione”, in: G. Deleuze e C. Parnet, Conversazioni, cit., p. 10.
«La psicoanalisi è fatta da
«La psicoanalisi è fatta da cima a fondo per impedire alla gente di parlare e per sottrarre ad essa tutte le condizioni di enunciazione vera»
Io ho incontraro questo.
Il dramma non sta tanto nella mia piccola storia, anche se, la mia piccola storia è simile a tante altre .
Quanto nel fatto che, cercai di porre la questione ad altri analisti, facenti parte di una ‘familgia analitica’, alla ricerca di un luogo nel quale dare un posto, ed un significato, a quello che incontrai.
Purtoppo, trovai conferma del fatto che ‘ di queste cose, non se ne poteva parlare’.
Tra mille difficoltà, ho dato voce a tanti che questo limite lo hanno incontrato.
Ne ho scritto un libro, in via di conclusione.