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Demitologizzare la psicoanalisi

29 Set 17

A cura di antonello.sciacchi16

Il ritorno del mito
O muthos deloi, così finivano le favole di Esopo che al ginnasio dovevo tradurre. Letteralmente, “il mito dimostra” o “il racconto mostra”. Per esempio, la favola mostra che contro chi ha deciso di fare un torto non c'è giusta difesa che tenga. La morale della favola vale tra lupi e agnelli come tra governanti e governati. Già ai suoi tempi Esopo tentava di generalizzare raccontando. Con il racconto edipico, elevato a scibboleth della propria “giovane scienza”, Sigmund Freud non operò molto diversamente da Esopo. Con miti disparati, probabilmente riesumati dalla propria infanzia – l’Edipo, la castrazione, le pulsioni sessuali e di morte – Freud conferì un assetto mitologico alla sua giovane scienza, salvo poi lamentarsi che i casi clinici da lui narrati “si leggessero come novelle, mancando del marchio dell’autentica scientificità”.[1]

Tutte le favole raccontano una morale molto semplice: per demitologizzare un discorso non basta sostituire un mito a un altro; per esempio, in psicoanalisi non basta sostituire l’Edipo con l’archetipo, l’archedipo (sic) con il significante. Ogni mito è una metafora e ogni metafora è una rappresentazione deformata della realtà. Lévi-Strauss insegnava che il pianeta dei miti è rotondo (una sfera, una ciambella con uno o più buchi?): da un mito si passa all’altro, da una deformazione si transita all’altra e ogni volta si perde qualcosa di reale. Nel circuito mitologico non si progredisce, ma si regredisce inevitabilmente a qualche mito di partenza; cioè, dal mito non si esce raccontando favole, ma si ripetono sempre gli stessi miti. (Per i freudiani, un esempio di ripetizione senza trauma originario).
In questo testo cerco di dimostrare qualcosa di meno: raccontando non si esce dal mito. Punto. Di per sé la narrazione istituisce il mito: se narri, per forza formuli miti, cioè elevi a ideale qualcosa di reale o immaginato tale. La sintassi del racconto attraversa la diacronia, cioè passa da un tempo al successivo, ammesso qualche flashback. Come se ne esce? Solo passando alla sincronia. Cosa voglio dire? Una banalità: si tratta di passare dall’individuale al collettivo, dal singolare all’universale, se è possibile (vedremo che è problematico). All’esame approfondito l’ovvietà si rivela meno ovvia. Perciò provo a raccontarla in modo più disteso, mantenendo le distanze dalla mitologia (se possibile).

Precisazione preliminare: il cronos della “diacronia” o “sincronia” non è il tempo cronologico; non è neppure il tempo vissuto (la nozione di vita è indeterminata), ma è il tempo epistemico, cioè il tempo di sapere.[2] Precisamente si tratta di due varianti di tempo epistemico: una è il tempo del racconto individuale, che si svolge nella diacronia, l’altra è il tempo di sapere collettivo, che si dà nella sincronia. Nella narrazione individuale si sa come vanno le cose nella singola storia; nella generalizzazione si sa come stanno le cose per tutti. Il tempo narrativo è una durata, quello comprensivo un momento. Il primo si dispiega ed espone, il secondo aggrega e impone una visione del mondo.

Di seguito non propongo una fenomenologia del tempo vissuto. Non prendo in considerazione il sincronismo vissuto nel senso di “avanzare armoniosamente con il divenire ambiente, facendosi da lui penetrare e sentendosi uno con esso”,[3] che è ancora un modo di pensare mitologico. Insomma, mi arrischio a dire che anche la fenomenologia, oltre alla psicoanalisi freudiana, è una bella favola. Lasciate da parte le favole, mi dedico al tempo di sapere.

Quale dei due tempi epistemici, la durata o il momento, precede l’altro?

Forse il tempo del racconto individuale, l’epica dei grandi eroi nazionali da Gilgamesh a Ulisse (compreso quello di Joyce), segue di poco il tempo collettivo di sapere (cum-scire, da cui deriva “coscienza”), operante dietro il velo di ignoranza steso sul contratto sociale, secondo Rawls. Tuttavia, appena enunciato, il mito entra a far parte della sincronia come tradizione consolidata nell’enciclopedia collettiva. In realtà i due tempi si intrecciano. Le loro specialità commutano: prima A e poi B è come B e poi A; invertendo l’ordine dei fattori il prodotto non cambia. Restano le differenze tra A e B.
 
Il mito della causa
Tra il XVI e il XVII secolo si realizza la frattura irreversibile tra pratica del romanzo e pratica della scienza, che arriva fino a noi. Il tempo narrativo si specializza nella ricerca delle cause, che agiscono nel tempo producendo effetti; il suo motto è l’aristotelico scire per causas, padre di tutte le ermeneutiche, nel mazzo anche le interpretazioni psicoanalitiche.[4] I miti spiegano tutti gli effetti attribuendo loro delle cause (poche), regolarmente antropomorfe, cioè immaginarie: la causa precede l’effetto, come l’artigiano precede l’opera che produce; l’effetto testimonia l’esistenza della causa: l’opera dice che c’è stato l’artigiano, dice Aristotele. Spesso nel mito la causa è anticipata dall’oracolo: è il caso di Edipo, un caso anticipato dall’altro.

Il tempo del sapere tenta di generalizzare i diversi tempi narrativi, istituendo tra loro delle simmetrie. La simmetria più semplice è l’invarianza. Cos’è un tavolo? – si chiede Heidegger, nella prima lezione del suo corso sull’Essenza della verità.[5] Qual è l’essenza del tavolo? È ciò che non varia passando da un tavolo all’altro nelle sue diverse presentazioni (narrazioni). Dove si trova? Nel tavolo o nella mente? Se te lo chiedi, devi già sapere cos’è un tavolo. L’essenza è, allora, l’idea che anticipa sulla cosa e “fa luce” su di essa. Da qui la teoria idealistica della verità come “svelatezza” dell’essere. Ancora un caso di anticipazione, ma del soggetto, nel senso della precomprensione, che non è dimostrata; è solo supposta miticamente, nel caso idealisticamente.

Sul tempo raccontato si veda l’opera di Paul Ricoeur, condotta in stile ermeneutico, in particolare nella sua rilevante connessione con la Cura.[6] È un tema di filosofia della psicoterapia; le sue componenti sono “essere un tutto”, “essere integrale” e “poter essere dell’esserci”, che interessano solo tangenzialmente la psicoanalisi e quindi non affronterò.

Qui mi interessa stabilire come il discorso scientifico indebolisca i tempi del divenire e dell’essere.
Oggi a livello diacronico la scienza dà meno rilevanza alle cause e più alle interazioni (o relazioni) multiple tra componenti elementari, ad esempio le particelle della fisica. È lo stesso tempo cronologico a perdere rilevanza esplicativa; non esiste più il tempo newtoniano universale ma tanti orologi locali diversi, uno per ogni punto dello spaziotempo.[7] Ne consegue l’esistenza di fenomeni senza causa, o spontanei, come il moto inerziale senza motore, le mutazioni genetiche, la nascita e l’estinzione di nuove specie o di nuove lingue, le misurazioni quantistiche, ecc.
Warning! “senza causa” non significa casuale, nel senso comune del termine (per altro difficile da precisare[8]). Un fenomeno caotico come l’uragano è spontaneo nel senso che è condizionato da un’infinità di fattori che sfuggono alla catalogazione completa.[9] I fenomeni caotici, in questo senso spontanei, si trattano con il calcolo delle probabilità, per esempio applicato alle malattie mentali. Ricordo che in quel calcolo si definiscono le probabilità condizionate, cioè le probabilità dell’effetto, dato una molteplicità di eventi condizionanti (che per abuso di linguaggio si continua a chiamare “causa”).

Se questa premessa è ragionevole, l’approccio sovradeterministico freudiano alla vita psichica (Seelenleben), che per ogni fenomeno psichico presuppone una causa ben determinata, detta pulsione, del tutto o in parte rimossa nell’inconscio, risulta automaticamente una regressione narrativa prescientifica.
 
Il mito universale
In ambito scientifico, in parallelo all’indebolimento eziologico nella diacronia, nella sincronia si registra – e forse non è un caso – l’indebolimento della nozione di universale. Il modello scientifico di universale è l’insieme secondo Cantor. Si tratta di una doppia astrazione che non considera né la natura né l’ordine degli elementi che lo formano.[10] L’insieme è pura res extensa. Non avendo essenza, non ha anima.

Rientra nello spirito della scienza moderna, nata dal dubbio cartesiano, che quella di insieme – oltre che primitiva, cioè non deducibile da altre – sia una nozione sostanzialmente incompleta. L’incompletezza insiemistica si traduce nell’inesistenza dell’insieme “totale” di tutti gli insiemi. Non esiste, infatti, l’insieme definito dalla proprietà caratteristica X = X, l’identità dei suoi elementi con sé stessi, come l’insieme vuoto, cioè senza elementi, è definito dalla proprietà duale, X ≠ X. L’identità universale è, infatti, contraddittoria: se l’insieme di tutti gli insiemi esistesse, l’insieme delle sue parti sarebbe un insieme ancora più grande dell’insieme totale (antinomia di Cantor).
Da Cartesio in poi, la scienza moderna si presenta incompleta. Nel 1931 Gödel stabilì l’incompletezza dell’aritmetica; dimostrerà l’esistenza di proposizioni indimostrabili e inconfutabili nell’aritmetica assiomatizzata alla Peano, fatta salva la sua coerenza. Universali ed essenze restano di competenza della filosofia idealistica; non hanno molto spazio nella scienza moderna, che non tratta più le essenze delle cose né le loro cause, ma solo congetture provvisorie sulle molteplici relazioni tra componenti elementari, che durano finché non si confutano.
 
Il mito del tempo breve
Con la (giustificabile) bizzarria delle sedute brevi, Jacques Lacan provò a passare dalla diacronia alla sincronia, a prescindere dal discorso scientifico. Al tempo stesso ridusse ai minimi termini l’interazione analista/analizzante in una direzione già aperta da Freud (v. avanti).

– Analizzante: “Ho fatto un sogno”.
– Analista: “Au revoir, mon cher! À la prochaine”.

La situazione apparentemente insensata delle cosiddette sedute brevi conseguì al sostanziale mutamento della regola fondamentale del processo psicoanalitico, che cancellava il tempo del racconto. Lacan cambiò le regole del gioco analitico, meritando per l’eresia la scomunica dall’IPA. Passò dalla versione universale della regola analitica freudiana al formato particolare; convertì il “comunicare tutto”, alles mitzuteilen di Freud, nel dire n’importe quoi, all’insegna del principio che une analyse ne progresse que du particulier au particulier.[11] Salvando il particolare qui e ora, Lacan perse l’universale narrativo, (dopo quello di Aimée nella tesi di psichiatria non scrisse più casi clinici); in compenso guadagnò il “non tutto”, con cui riuscì a pensare il femminile.

“Non esiste La donna”, cioè il femminile non ha un’essenza ideale che lo definisca, neppure la castrazione freudiana. All’interno della logica lacaniana vige l’assioma che “non tutte le donne sono castrate”, ma non se ne deduce il teorema che “esiste una donna che non sia castrata”. Come nella logica intuizionista di Brouwer, stabilire che una particolare donna non sia castrata non è una verità ex ante; vale solo come effettiva costruzione ex post al termine della singola analisi, che attraversi il tempo di sapere. Un attestato caso storico di donna non castrata fu Lou Andreas Salomé, dimostratasi certamente non invidiosa del pene.

Nella propria pratica, Lacan si affaccendava meno di Freud con i miti, ma forse perdeva qualcosa di Freud. Cosa? Certo perse la mitologia delle pulsioni sessuali, da lui unificate nell’unica pulsione di ripetizione (non amo dire pulsione di morte, che non esiste in biologia). Lacan non parlò mai di sessualità infantile, sorgente primaria dei miti freudiani di Edipo e di castrazione. Il guadagno fu uno sguardo più penetrante sul collettivo.
 
Il collettivo non è un mito
Il lavoro di decantare il freudismo dai miti freudiani si può prolungare, come qui tento di fare. In quest’ottica c’è da costatare il guadagno netto di Lacan rispetto a Freud: la dimensione collettiva del soggetto del desiderio, che a Freud sfuggì. È proprio questa l’acquisizione che conferma l’uscita dalla mitologia e l’ingresso nella sincronia. A Freud sfuggì il soggetto collettivo perché rimase aderente a certi suoi miti diacronici. I miti, come tutte le narrazioni, narrano vicende individuali, anche quando sono a nome collettivo, per esempio le vicende della Chiesa o di un esercito. I miti fondanti delle nazioni, non sono fondanti; non sono cause del collettivo ma uno dei suoi effetti. Dopo che è diventata una, la nazione celebra la conquista della propria unità con un mito fondante, per esempio con il mito del fondatore: Romolo, o più precisamente la lupa (la puttana), fondò Roma. Ma il mito non fonda il collettivo, rispetto al quale è sempre una costruzione ex post, a giochi fatti. Il mito celebra l’unità del collettivo, non la produce.

Freud non sapeva di Cantor. Non sapeva, come invece Hegel sapeva bene (ma non esisteva Hegel nella biblioteca di Freud!), che il principio di identità, applicato sistematicamente a tutto, porta in certi casi a contraddizione. La teoria freudiana del collettivo si basa sull’applicazione indiscriminata del principio di identità. Per Freud il collettivo si forma quando tutti gli individui si identificano al Führer (o a una figura mitologica equivalente), cioè pongono l’immagine del leader (o una sua ideologia) al posto dell’ideale dell’Io. Da quel momento in poi la psicologia del collettivo evapora, rientrando (con certe semplificazioni) nella psicologia individuale. Insoddisfacente, direi, soprattutto perché Freud non considera interazioni né positive (cooperazioni) né negative (aggressioni) tra singoli individui. Il collettivo freudiano è omogeneo: tutti gli individui sono equivalenti perché identificati allo stesso leader, ma non si può dire che il loro collettivo sia democratico, perché ogni individuo ignora la dimensione dell’altro. A perderci è anche la psicologia individuale.[12] A perderci è soprattutto il discorso scientifico che è impossibile che evolva senza la cooperazione dei singoli elementi del collettivo di pensiero scientifico.

Più articolata e complessa la posizione di Lacan. Nel saggio sul Tempo logico, che preferisco chiamare tempo epistemico, Lacan analizza un rompicapo matematico. Guarda caso si parte da un insieme. Come ho detto sopra, l’insieme è una struttura matematica formata da elementi dei quali non si considera né la natura né la posizione reciproca, ma solo il loro stare insieme, eventualmente il loro interagire, attraverso operazioni di somma o di prodotto come in algebra. L’insieme matematico è un ente scientifico agli antipodi dell’essenza filosofica.

Nel caso specifico si tratta di un insieme di tre prigionieri,[13] cui il direttore della prigione propone un quiz. Mostra loro tre dischi bianchi e due dischi neri. Poi, senza che loro vedano, appunta sulle loro spalle tre dischi bianchi, promettendo la liberazione a chi saprà dedurre logicamente il colore del proprio disco. Questa è la situazione della sincronia.

Diacronicamente sembrerebbe che non debba succedere nulla, dato che tra i prigionieri non esistono differenze. Invece nella sincronia succede qualcosa per effetto del pensiero. Ciascuno di loro vede due bianchi e ragiona per assurdo così: “Se io fossi nero, ciascuno dei due bianchi che vedo ragionerebbe come me, pensando che se fosse nero, il terzo vedrebbe due neri; allora saprebbe di essere bianco. Ma nessuno dei due bianchi sa decidere il proprio colore, quindi la mia supposizione è falsa e io non sono nero”.

La conclusione per assurdo di essere bianco è raggiunta sincronicamente da tutti e tre i prigionieri e tutti guadagnano insieme la libertà, dopo che ciascuno di loro ha attraversato contemporaneamente due momenti di incertezza: la prima è la propria, quando il soggetto vede due bianchi (tempo di vedere secondo Lacan); la seconda è quella dell’altro, quando il soggetto vede che gli altri non decidono il proprio colore (tempo per comprendere secondo Lacan). Così, metaforicamente parlando, la traversata della diacronia sbarca nella sincronia, la quale esisteva già prima della diacronia. Pertanto non ha tutti i torti Lacan a parlare di certezza anticipata.[14] In realtà all’inizio c’è solo l’incertezza individuale che diacronicamente diventa certezza collettiva, cioè sincronica. Allora anche Lacan arriva concludere (tempo di decidere) la propria argomentazione (un po’ più involuta della mia, essendo più fenomenologica) con il bel teorema, l’unico della sua cinquantennale elucubrazione: “Il collettivo non è altro che il soggetto dell’individuale”.[15] All’uscita di prigione i tre potranno raccontarla come meglio pare a loro; a noi basta come l’ha raccontata Lacan.
 
Meno mito, più interazione: transfert vs controtransfert
Il modello lacaniano è semplice ma ricco di spunti. Due sono qui pertinenti: primo, esiste un collettivo senza identificazione comune dei suoi componenti; secondo, esiste il collettivo se i soggetti individuali interagiscono epistemicamente tra di loro attraverso le reciproche incertezze.

Quali conseguenze per il problema di demitologizzare la psicoanalisi?

Non mi addentro nelle inevitabili ambiguità narrative della patografia; ne segnalo solo una legata misteriosamente a una debolezza specifica del soggetto Freud, su cui il discorso precedente può far luce. Nella seduta del 9 marzo 1910 della Società psicoanalitica di Vienna, Freud propose il termine di controtransfert (Gegenübertragung), nel senso di posizione simmetrica dell’analista rispetto al transfert dell’analizzante (per Freud sempre e solo “analizzato”, in posizione passiva).[16] Ne discusse con gli allievi a proposito di un testo collettivo sull’argomento, inizialmente a esclusiva circolazione interna, che si sarebbe dovuto in seguito pubblicare (ma non fu mai pubblicato), e dopo il 1915 non tornò più sull’argomento. Da dove proveniva l’inibizione? Il fatto fu grave, se è vero quel che la clinica psicoanalitica insegna, che il controtransfert precede il transfert.

La mia congettura è semplice e forse contestabile. Per Freud ammettere il controtransfert significava accettare un’interazione a doppio senso tra analista (preso nel controtransfert) e analizzante (preso nel transfert). Freud aveva esordito interagendo con il paziente attraverso l’ipnosi. Poi abbandonò l’ipnosi per la psicoanalisi; questo significò in pratica l’abbandono di ogni forma di interazione affettiva con il paziente, secondo le buone norme della medicina ippocratica; in particolare significava abbandonare l’analisi del controtransfert, a favore di una pratica dell’analista come oggetto “freddo”, cioè non interattivo. Per quanto ho argomentato fin qui, abbandonare l’interazione porta di necessità a conservare la mitologia e a osservare la sua morale fondamentalmente passiva. Viceversa, abbandonare la mitologia significa dare spazio alle interazioni tra gli individui, cioè ammettere sia transfert sia controtransfert.

Le conseguenze della mitologizzazione della psicoanalisi si vedono in teoria e in pratica, in clinica e in politica. In teoria Freud arrivò a concepire solo collettivi senza interazioni tra componenti (compreso il collettivo della cura), meramente identificati al leader. Il risultato di tale operazione fu duplice, teorico e pratico. In pratica, nella cura individuale, l’analista freudiano si presentava in posizione di maestro, cui l’analizzante doveva identificarsi; a livello collettivo si realizzava la conservazione dell’assetto mitologico di pensiero, che non richiede interazioni tra le parti ma solo l’identificazione al mito, imposto dall’alto e condiviso dal basso. Entrambi i risultati portarono alla riduzione della pratica analitica a pratica medica.[17] La storia del movimento psicoanalitico testimonia l’assenza di interferenze tra componenti, perché censurate sul nascere da un capo in posizione rabbinica (mi sia concessa la piccola malevolenza), che imponeva la propria ortodossia. Fu una scelta strategica infelice, che sin dall’origine condannò la psicoanalisi all’attuale irrilevanza culturale (dopo un passeggero e poco sereno flirt iniziale tra cultura e psicoanalisi).
 
Il compito infinito
Tocca a noi reintegrare l’analisi nella sua interezza, lavorando in teoria e in pratica sulle interazioni che si producono in analisi, deponendo le difese mitologiche contro di esse. Dimenticare lo schematismo freudiano dell’Edipo e della castrazione, con tutta la connessa metapsicologia (mitopsicologia) pulsionale, significa semplicemente aprire le orecchie alle novità dell’inconscio, cioè psicoanalizzare. Apportiamo una piccola ma sostanziale correzione a Freud, presentandoci a chi fa domanda d’analisi sì come oggetti freddi, ma ponendo l’accento su “oggetto” prima che su “freddo”, magari declinandolo come oggetto infinito.

Ripensare l’oggetto del desiderio e oggettivare la psicoanalisi sono operazioni possibili riducendo le sue valenze mitologiche. Dall’oggetto parte il primo passo verso la cooperazione intellettuale tra psicoanalisti, quindi verso una psicoanalisi non dogmatica ma potenzialmente scientifica. È questo il mio augurio per la costituzione di un Centre de recherche en psychanalyse dans une travail collectif, une construction ensemble, che si avvierà a Torino i prossimi 2 e 3 dicembre.
Insieme, senza miti.



[1] S. Freud, “Studien über Hysterie” (Studi sull’isteria, 1892-1895), Sigmund Freud gesammelte Werke, vol. I, p. 227.
[2] È il tema del mio saggio Il tempo di sapere. Saggio sull’inconscio freudiano, Mimesis, Milano-Udine 2013.
[3] E. Minkowski, Il tempo vissuto. Fenomenologia e psicopatologia (1933), trad. G. Terzian, Einaudi, Torino 1971, p. 66.
[4] “Interpretare (Deuten)!? Che parolaccia! (garstiges Wort, nel senso di “parolaccia spregevole e ripugnante”). Non l’ascolto più volentieri; così perdo tutte le mie certezze. Se tutto dipende dalla mia interpretazione, chi mi dice che interpreto correttamente? Tutto allora dipende dal mio arbitrio.” Queste sono le parole che Freud mise in bocca al suo interlocutore nel V cap. della Questione dell’analisi laica. Conversazioni con un imparziale (1926-27, trad. A. Sciacchitano e D. Radice, Mimesis, Milano-Udine 2012, p. 69).
[5] M. Heidegger, L’essenza della verità. Sul mito della caverna e sul “Teeteto” di Platone (1931), a c. H. Mörchen, trad. F. Volpi, Adelphi, Milano 1997, p. 23.
[6] P. Ricoeur, Tempo e racconto, vol. III, “Il tempo raccontato” cap. 3, § 2, (1985), trad. G. Grampa, Jaca Book, Milano 2007, p. 99.
[7] V. l’ultimo libro di Carlo Rovelli, L’ordine del tempo, Adelphi, Milano 2017. È chiaro che nella logica della fisica ha poca esistenza il tempo fenomenologico di Husserl, formato dal confluire nella praesentatio della retensio del passato e della protensio verso il futuro. Conserva una certa consistenza, invece, la durata secondo Bergson, intesa come tempo locale, lì dove il soggetto esiste.  
[8] Quando un po’ paranoicamente diciamo “non è un caso che…”, diciamo qualcosa che riguarda un imprecisato processo stocastico (di Bernoulli, di Markov, di Wiener ecc.). In un discorso rigoroso è meglio non parlare di “casuale”.
[9] Tra i fattori condizionanti di un evento caotico alcuni (pochi) risultano necessari, altri (molti) contingenti. Ad esempio, per formare un uragano la rotazione della Terra è necessaria in quanto la forza di Coriolis genera il vortice.
[10] Per il pensiero idealistico la doppia astrazione significa disordine totale.
[11] J. Lacan, “Réponse au commentaire de Jean Hyppolite sur la ‘Verneinung’ de Freud”, in Ecrits, Seuil, Paris 1966, p. 386.
[12] In un collettivo freudiano ogni individuo è confrontabile solo con sé stesso. Anche nell’amore uno ama l’altro perché identificato allo stesso ideale. In algebra si dice che il collettivo freudiano è totalmente disordinato. Il confronto con il Führer non esiste perché il Führer non appartiene all’insieme, non essendo identificato a se stesso, ma lo trascende.
[13] In senso metaforico l’insieme è la prigione dei propri elementi.
[14] Ricordo della protensio husserliana come anticipazione del momento a venire?
[15] J. Lacan, “Le temps logique et l’assertion de certitude anticipée”, in Ecrits, Seuil, Paris 1966, p. 213.
[16] Herman Nunberg ed Ernst Federn (a cura di), Protokolle der Wiener Psychoanalytischen Vereinigung, 4 voll., vol. II, Fischer, Francoforte 1976, pp. 406-407. Freud afferma che il controtransfert è riconosciuto e superato quando l’analista è divenuto “un oggetto perfettamente freddo, per dover fare amorevolmente posto a quello degli altri.”
[17] Nelle Lezione XXVII sul transfert Freud pone un interessante parallelo tra medicina e psicoanalisi in termini di “terapia causale”; afferma che la psicoanalisi si avvicina alla terapia causale, ma non lo è del tutto. La vera terapia causale, cioè “il procedimento che non punta alle manifestazioni della malattia, ma si propone di eliminarne le cause”, non è psichica ma biologica. (S. Freud, XXVII Vorlesung. Die Übertragung (1917), in Sigmund Freud gesammelte Werke, vol. XI, p. 452) L’argomento è ippocratico. Oggi in medicina si trattano malattie senza causa, cosiddette “essenziali”, come l’ipertensione arteriosa. 

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