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Depressione senile: malattia incurabile o “vis sanatrix naturae”?

24 Mag 20

A cura di Sabino Nanni

La vecchiaia, con i vari gradi di depressione che inevitabilmente comporta, non è necessariamente una malattia (“senectus ipsa est morbus”, diceva Terenzio); non è neppure una condizione di cui il medico si possa disinteressare. È assimilabile a quelle fasi, o condizioni particolari della vita che, pur facendo parte della fisiologia, richiedono sorveglianza medica: esse comportano un equilibrio instabile, e un rischio di malattie e complicazioni. Tali sono, ad esempio, l’adolescenza, la gravidanza e il parto. Come in tutti i casi, elementi essenziali di un intervento terapeutico, oltre che una competenza di ordine tecnico, sono la capacità di “mettersi nei panni” del paziente ed uno sforzo di tipo riparativo. Questi elementi sono entrambi presenti nella parte finale della poesia di Saba “L’uomo”. Fu scritta nel 1928 quando il Poeta, allora sulla quarantina, era nel pieno vigore dell’età adulta; ancora lontano, quindi, dal declino senile che descrive nei suoi versi. La poesia, quindi, offre a noi terapeuti un modello di capacità di comprensione empatica da parte di chi vive un’esperienza soggettiva diversa da quella del paziente.

 

Iniziamo con i versi che descrivono la tarda età adulta:
 
Era a quel punto d’una traversata
di mare
quando la sponda lasciata non pare
più da gran tempo; dell’altra, tra cielo
e mare, scopri, se niente fa velo,
un’ombra.
 

Ad una certa età, il tempo diventa misurabile. Accade quando il numero degli anni che si prevede di vivere ancora è pari o inferiore a quello delle stagioni passate, che si ricordano perfettamente, e la valutazione della cui durata non è più affidata alla fantasia: sono soltanto anni, e non più secoli, come sembrava da giovani. In quest’epoca, se viene a mancare il “velo” della negazione, si inizia ad intravvedere l’ombra della morte.

 
Inizio della vecchiaia:
 
Di quella luce fruiva che splende
all’orizzonte sul far della sera,
e dura a lungo, e in un tempo s’annera
col resto.
 

Qui la cruda realtà delle risorse umane residue, sempre più deboli, viene descritta in termini poetici (e raddolcita) come la luce del sole al tramonto. Una luce sempre più tenue, sempre più sopraffatta dall’ ombra della sera, ma ancora, fino all’ultimo, splendente.

Vecchiaia inoltrata:
 
Rimase solo come un tronco in mezzo
d’un prato.
Qualche virgulto ancora, delicato
troppo per esser vitale, n’usciva
che dopo un breve sorriso periva
sul ramo.
 

Quando la condizione di vecchio è divenuta una realtà inequivocabile e definitiva, ogni episodio che sembra risvegliare le antiche risorse non è più vissuto come promessa di ulteriori sviluppi, ma come fatto precario, destinato a concludersi appena nato: non può più essere la tappa di un percorso, la svolta di una storia. C’è, qui, il paradosso dell’Arte: anche quando ha l’esperienza di caducità come suo oggetto, riesce a tradurla in qualcosa di permanente, che resterà vivo nell’animo di chi vi si avvicina e lo comprende.

 
E lasciò andare ogni cosa. Non ebbe,
o non espresse a parole, rimpianti;
non disse quanto di lasciar la vita
gl’increbbe,
ch’era la vita il suo lavoro, il duro
mestiere appreso da fanciullo. Oscuro
un pensiero gli nacque: ogni diletto
essere un male; e come dell’infanzia
già fuori,
la notte si stringevano al suo letto
strani terrori.
 

Il vecchio reprime, o si astiene dall’esprimere, il suo rimpianto per ciò che ha perduto nella vita: lo vive come non più del tutto recuperabile perché esso implica un “duro lavoro” per praticare il quale non ha più il necessario vigore. L’intransigenza narcisistica (tutto o nulla: o il recupero completo del vigore giovanile, oppure niente) lo porta a “lasciare andare ogni cosa”, a disinvestire affettivamente tutto quel che amava, e ancora adesso amerebbe. Ogni “diletto” diviene, per lui, paradossalmente “un male” perché gli testimonia la sua insufficienza e la sua caducità. Questo narcisismo, nella sua forma primitiva, è il peggiore nemico di chi è vecchio: non volendo rinunciare a nulla, finisce per rinunciare a tutto, per rifiutare quel che gli rimane della vita, per rifiutare la vita stessa. Ecco che qui, il ritorno degli “strani terrori” (indefiniti, senza nome) dell’infanzia finisce per essere, per lui, una forma di protezione: come per Amleto nel suo celebre monologo, essi (oscuramente legati ad una sorta di punizione, in particolare la punizione paterna per i desideri incestuosi mortiferi) si oppongono al suo desiderio di morte.

 Recupero di un sentimento di nostalgia non più tormentoso:  
 
… a lenti passi lì tornava d’onde
con tanta pena era uscito…
 

[Al di sotto della nostalgia per il luogo di lavoro c’è quella, estrema, per il ventre materno]

 
… I garzoni
dall’opera sostavano, le facce
gioconde
verso di lui rivolgendo nell’atto
di chi mira uno strano oggetto. Affatto
egli non era necessario. Uguale
si volgeva la ruota delle cose.
Quel poco
che v’era di mutato, in bene o in male,
gli parve un gioco.
 

C’è qui il sorriso bonario, indulgente e un poco canzonatorio con cui l’anziano osserva i giovani: riconosce, in loro, gli stessi sentimenti, ingenui e presuntuosi, che quando aveva la loro età egli stesso aveva avvertito per i vecchi. I giovani non si rendono conto d’essere soltanto l’ultimo anello di una lunga catena. Ignorano che chi li ha preceduti ha posto le basi di quel che loro fanno attualmente e di quel che sono; pensano d’essere la prima generazione comparsa sulla terra. Il vecchio, perciò, appare loro come “strano”: curioso ed estraneo. Il poter vedere dall’alto della propria consapevolezza la situazione, nuova eppure mutata così poco, gliela fa apparire come “un gioco”, una sorta di rappresentazione teatrale di cui lui è il regista ignoto agli attori. L’intera sua vita gli appare, ora, come un “gioco” dello stesso genere: una vicenda di cui lui è il protagonista, eppure se ne stupisce:

 
Ripensava stupito a quel suo umano
destino.
Si riviveva, a tratti, da bambino
fino a quel nulla ch’era ormai. Le larve
dei terrori, ogni sua inquietezza sparve,
per sempre.
 

Il poter vedere, ora, la sua vita nel suo insieme, cogliendo il senso delle sue progressive trasformazioni (il passaggio dall’infanzia e dalla giovinezza piene di promesse, alle realizzazioni dell’età adulta, al tragico declino della vecchiaia) gli offre la possibilità di comprendere pienamente il significato di ciascuna tappa del suo evolversi. La nuova consapevolezza, la possibilità di attribuire un senso al suo passato (un modo per ritornarvi, rivivendolo ora nella sua pienezza) gli restituisce la serenità. Tuttavia, questo lavoro di revisione della vita trascorsa ad un certo punto s’esaurisce; ne segue una pausa di completa stagnazione, in cui il tempo (il divenire) sembra fermarsi:

 
Il tempo fu come sospeso. L’ore
rispondevano ai giorni, i giorni ai mesi,
i mesi agli anni d’una volta. Lotta,
furore,
non recava il presente, e non la gioia
breve rompeva la serena noia,
ed il silenzio in cui sedeva immerso.
Disutile sedeva, e come a mezzo
restato
tra i morti e i vivi; assai da quel diverso
ch’egli era stato.
 

Come sospeso tra la vita e la morte, avverte una “serena noia” priva di motivi per lottare e di occasioni di gioia. Un ultimo stimolo alla sua vitalità gli viene offerto da un nipotino:

 
Un nato da un suo nato, un bel monello
v’era…
… A lui parlava
di quello
non che al suo cuore era ancor triste, d’altro
gli parlava, di feste, di nient’altro
che di spassi e di feste. Sì che quando
più non ne chiese, dissero le donne:
“Finita,
è finita col vecchio. A lui mancando
viene la vita”
 

Esauritosi l’ultimo sprazzo di vitalità, la sua esistenza volge al termine. Il “buio eterno” della morte ora è atteso con sofferenza, non più con un desiderio frenato da “strani terrori”:

 
A lui la lunga giornata finiva,
di cose
piena ora liete ed ora paurose;
ritornava soffrendo al buio eterno,
ei che dal buio dell’alvo materno
veniva.
 

La morte arriva gradualmente, coinvolgendo corpo e anima, fino a ridurlo a “poco più di un oggetto:

 
Diventato era il corpo che si sface,
già poco più d’un oggetto. Se un volto
sopra il suo si chinava, e, come l’uso,
di pace
mormorava parole, egli talvolta
poteva ancor sembrare uno che ascolta,
ma non degna rispondere. Fu lento
il suo morire; come il lume a estinguersi
vicino
mandava ancora qualche lampo; spento
giacque al mattino.
 
Dopo la fine:
 
Era, morto sul letto, anche più bello
d’allora
che sullo stesso egli adagiava, ancora
di voluttà desiderose, o affrante
di fatica, le membra di gigante
sommesso.
 

L’immagine orribile di una vita finita, di un corpo disfatto, appare al Poeta “ancora più bella” di quella della gioventù. Tale riscatto finale non può che derivare dalla Poesia stessa, come frutto di un atto di comprensione empatica ed a carattere riparativo. Qui lo scopo dell’Arte coincide con quello della cura: l’anziano, pur nella sua tragica esperienza di chi sta cessando d’esistere e si sente divenire “poco più di un oggetto”, può trovare il massimo di sollievo possibile nel non sentirsi solo, nella promessa di non essere dimenticato. Il Poeta ed il terapeuta, sia pure in due modi diversi, offrono all’anziano quel che Amleto, negli ultimi istanti della sua vita, chiede all’amico Orazio: continuare, finché vivrà, a “raccontare la sua storia”.
Il terapeuta, nel suo rapporto con l’anziano sofferente, non può risparmiargli ciò che è inevitabile: l’esperienza di una vita che sta per finire. Può, tuttavia modificarla in modo da renderla più tollerabile. Se il paziente nutre la fede religiosa in un’esistenza ultraterrena, è bene confermarla e valorizzarla (anche se siamo atei, come possiamo sapere come saremo in punto di morte?); non può, tuttavia, imporla se il soggetto proprio non riesce a credere, o se per lui credere non è una consolazione sufficiente. Sicuramente la sua esperienza soggettiva si modificherà se condivisa empaticamente dal curante: l’anziano non si sentirà più solo in una condizione incomunicabile, o che gli altri non vogliono comprendere. Il recupero di una sana nostalgia (il rivivere il passato “col senno di poi”), la possibilità di fraternizzare col giovane, o col bambino, condividendone la gioia di vivere: entrambi sono modi, che è bene incoraggiare, per alleviare la sofferenza esistenziale dell’anziano. Tuttavia Saba c’illustra come essi non possano costituire soluzioni durevoli: prima o poi si esauriscono. Resta, quindi, fondamentale la comprensione empatica della disperazione che persiste anche al di sotto di un’apparente allegria. È opportuno che la comprensione empatica ispiri ogni forma d’intervento, anche quello psicofarmacologico: se è bene intervenire coi farmaci per evitare all’anziano una sofferenza intollerabile (e per preservarlo dai danni psicologici e biologici che una grave depressione comporta), non è terapeutico spingere tali interventi al punto d’incoraggiare gli stati ipomaniacali: prima o poi, essi si esauriscono, gettando l’anziano in uno stato di disperazione più intensa di come sarebbe stata se l’avesse affrontata ed elaborata. Accompagnare empaticamente l’anziano fino alla fine, rassicurarlo sul fatto che continuerà a vivere in quel che ci ha lasciato e nella mente di chi se ne gioverà: la cura della depressione senile consiste essenzialmente in questo. Certamente questo tipo di cura comporta seri problemi controtransferali: si risvegliano, nel terapeuta, angosce difficilmente tollerabili. Qui è bene che la Psichiatria e la Psicoanalisi dichiarino la loro impotenza, e cedano il posto alla consolazione che solo la Religione e/o l’Arte possono offrire: è bene che il terapeuta, se non riesce ad essere anche Credente, diventi almeno un po’ Poeta.  

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