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Dicembre 2013 III – Scuola, teatro e… altrove (utopie e Altri Scritti)

4 Gen 14

A cura di Luca Ribolini

IL MANUALE PER INSEGNARE AI RAGAZZI COME SI AMA
di Carlotta De Leo, scuoladivita.corriere.it, 15 dicembre 2013
 

Ripartire dalla scuola per ricostruire la parità di genere. Si può, si deve. Da anni, psicologi, esperti, associazioni e singoli insegnanti entrano nelle classi per educare al rispetto e rompere quegli stereotipi che ingabbiano i «maschi» e le «femmine» in un ruolo sociale ben definito. Di programmi ministeriali non ce ne sono ancora. Nel Decreto scuola da poco approvato, però, il ministro dell’Istruzione, Maria Chiara Carrozza, ha stanziato 10 milioni per l’aggiornamento dei professori anche su tematiche relative all’educazione all’affettività, al rispetto delle diversità e pari opportunità. È importante, infatti, partire dagli educatori perché sono il fulcro centrale di un meccanismo che coinvolge alunni e famiglie.
Qualcosa in questi anni si è mosso: sono diversi gli esempi interessanti portati avanti da diverse associazioni. Tra questi, «Di Pari Passo», il progetto di prevenzione portato avanti nelle scuole medie da Terres des Hommes in collaborazione con Soccorso Rosa. «Pariamo partire dalla preadolescenza perché è qui che si cristallizzano la percezione discriminatoria dell’altro e gli stereotipi che giustificano l’uso della violenza» spiega Fulvia Giannotta, responsabile dei programmi in Italia di Terres des Hommes. Lo scorso anno, il progetto ha coinvolto circa 300 studenti di Milano e ora sta per ripartire. «Sono arrivate  le richieste delle scuole lombarde e delle regioni limitrofe e stiamo definendo il nuovo calendario di incontri che ripartirà a gennaio». Per candidarsi http://www.terredeshommes.it

Dall’esperienza nelle classi è venuto fuori anche un libro che può essere un valido strumento di supporto in tutte le scuole: «Di Pari Passo – Percorso educativo per le scuole secondarie di primo grado contro la violenza di genere». Un vero e proprio manuale con schede teoriche, esercitazioni di gruppo e simulazioni in classe sulle tematiche della dignità, del rispetto e della libertà. Non solo: il volume scritto da Nadia Muscialini (psicoanalista responsabile di Soccorso Rosa, centro antiviolenza presso l’ospedale San Carlo Borromeo di Milano) spiega anche come evitare e risolvere, insieme,  i conflitti e la violenza.Soprattutto quelle verso le ragazze (e le donne), i soggetti più vulnerabili a scuola, come in casa, a lavoro o nelle situazioni di conflitto e povertà. Il libro descrive i vari tipi di violenza (fisica, psicologica e  sessuale) analizzando i comportamenti che sono alla base, mostrando concretamente come atteggiamenti accettati dai ragazzi in realtà siano vere e proprie forme di sopraffazione.
Ma soprattutto, il manuale aiuta ragazzi (e professori) ad analizzare l’origine degli stereotipi di genere e il loro abbattimento, la rappresentazione della donna e dell’uomo, dei bambini e delle bambine nei libri per l’infanzia, nella tv e nella pubblicità, passando per la storia dell’arte e le prospettive di vita attribuite all’uno e all’altra. L’ultimo capitolo affronta il tema dell’amore eterosessuale, omosessuale e bisessuale tra adulti e tra ragazzi. Anche qui sono proposti esercizi che aiutano i ragazzi ad amare liberamente e a rispettare le persone a prescindere dal proprio orientamento sessuale.

http://scuoladivita.corriere.it/2013/12/15/il-manuale-per-insegnare-ai-ragazzi-come-si-ama/

L'EDUCAZIONE SENTIMENTALE AL PRINCIPIO DI REALTÀ. Da Freud a Benigni a Mark Twain, ecco come le narrazioni servono agli adolescenti per entrare in contatto con la vita
di Massimo Ammaniti, repubblica.it, 15 dicembre 2013
 
Questo rinnovato interesse editoriale per quello che succede nella vita quotidiana dei bambini e degli adolescenti sembra spostare il baricentro dal mondo delle storie fantastiche popolate da esseri sovrannaturali oppure da maghi ed orchi a racconti che riflettono maggiormente la vita reale con i suoi ostacoli e le sue difficoltà, che devono essere affrontate e superate. Si tratta di due poli, quello della fantasia e quello della realtà, attorno a cui si organizza la vita psichica dei bambini, come ha messo in luce il pediatra e psicoanalista inglese Donald Winnicott. E se queste due dimensioni dell’esperienza sono apparentemente in contrapposizione, sono tuttavia fortemente intrecciate, proprio perché se le fantasie non sono ancorate alla realtà possono divenire dilaganti e far perdere di vista la propria collocazione personale. E se la realtà non si arricchisce di risonanze fantastiche, rischia di condurre a una visione concreta ed appiattita.
Ci si può chiedere perché l’editoria oggi proponga dei libri che mettono a fuoco vicissitudini legate alla vita quotidiana, che sembrano essere accolte positivamente dai genitori e anche dai bambini e dagli adolescenti.
Un primo obiettivo di questi libri è quello di sostenere i genitori nel loro compito di aiutare il figlio fin dai primi anni di vita a riconoscere i codici e le regole della vita quotidiana, per esempio quando esci da scuola, se qualcuno che non conosci ti rivolge la parola, non rispondergli e rimani accanto ai tuoi amichetti. I genitori, oltre a fornire il supporto affettivo ai figli, condividendone emozioni e stati d’animo, sono anche i primi educatori che devono guidare l’esplorazione del mondo da parte dei figli, riconoscendo i possibili pericoli che possono incontrare ed imparando a fronteggiarli senza farsene sovrastare. In altri termini, un’educazione sentimentale alla realtà. Probabilmente, molti si ricorderanno il film di Roberto Benigni La vita è bella in cui padre e figlio vengono imprigionati in un campo di concentramento nazista e il padre è preoccupato che il figlio non ne venga traumatizzato e che soprattutto riesca a salvarsi dal pericolo. Per questo motivo, quando i soldati nazisti trasmettono ai prigionieri le regole del campo, il padre si propone di tradurle in italiano cambiando gli ordini dei soldati in modo che il figlio non ne veda la brutalità e sia in grado, quando arriveranno le truppe americane a liberarli, di rivolgersi a loro per salvarsi.
Il secondo obiettivo è quello di raccontare ai bambini e agli adolescenti delle storie con cui si possano identificare, stimolando la condivisione delle avventure dei protagonisti, spesso della loro età, delle loro apprensioni e delle loro paure, ma anche degli espedienti e delle tattiche che mettono in atto per sventare i pericoli. L’apprendimento non passa soltanto attraverso indicazioni dirette, divieti e prescrizioni, ma soprattutto attraverso narrazioni che utilizzano analogie e metafore che facilitano l’identificazione affettiva che è molto più efficace di qualsiasi processo cognitivo basato sulla razionalità delle argomentazioni. Molte favole che venivano raccontate ai bambini, soprattutto in passato, servivano proprio a questo: farli entrare nel mondo fantastico dei personaggi e nello stesso tempo trasmettere informazioni e orientamenti educativi e prescrittivi.
Questa forte sottolineatura del principio di realtà, oltre a essere stato costantemente messo in luce da Freud in contrapposizione al principio del piacere, è stato poi centrale nel pensiero dello psicoanalista inglese John Bowlby, ben noto per la sua teoria dell’attaccamento. Secondo Bowlby, le particolari capacità umane di adattamento al mondo reale ne hanno permesso la sopravvivenza e addirittura l’affermazione in termini evoluzionistici e ogni genitore funziona come una “base sicura” da cui il figlio si diparte per iniziare la sua esplorazione del mondo. È evidente che le prime esplorazioni dei bambini sono ancora limitate e avvengono sotto gli occhi vigili dei genitori, ma progressivamente si ampliano anche grazie alla maturazione delle capacità e all’esperienza che si è accumulata. Per cui, i genitori possono assistere a distanza senza interferire con la sperimentazione dei figli.
Un terzo obiettivo di questa produzione editoriale ha a che fare con il mondo contemporaneo che è divenuto via via più complesso e ricco di insidie, soprattutto per i bambini e gli adolescenti. Così, i genitori hanno bisogno di supporto per orientarsi, basti pensare alla pedofilia in Internet o ad altre forme di adescamento dei bambini e degli adolescenti. Ma forse questo rinnovato interesse per libri che raccontano la vita dei bambini non rappresenta una novità. Infatti, il romanzoLe avventure di Tom Sawyerdello scrittore americano Mark Twain, pubblicato nel 1876, raccontava la storia di un ragazzo di dieci anni che vive nel sud degli Stati Uniti e che, durante le sue scorribande, si trova ad assistere all’uccisione del medico del suo paese. La sua testimonianza in tribunale sarà poi decisiva per scagionare il povero Muff Potter, sospettato di esserne l’autore e per trovare il vero colpevole. Il libro poi finisce con la scoperta da parte di Tom e del suo amico Huck del tesoro nascosto dall’omicida e entrambi diventavano ricchi e rispettati da tutti.
Mentre nel romanzo di Mark Twain le insidie per i ragazzi erano legate al mondo della campagna americana, oggi i pericoli sono ancora più complessi, spesso legati alle seduzioni che vengono dalla Rete. E proprio per questo i ragazzi devono imparare a sfuggirli facendosi guidare anche dai libri.

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2013/12/15/leducazione-sentimentale-al-principio-di-realta.html?ref=search 

UTOPIA, COME TU MI VUOI. Nonostante i tempi che corrono il tema torna di gran moda. Ideale critico come criterio di giudizio, progetto politico istituzionale, sogno del paradiso in terra O anche polemica contro le sinistre movimentistiche che sognano il crollo indolore del capitalismo. Vi proponiamo quattro libri per riflettere e ritrovarla al di là dei fallimenti del ’900
di Romano Madera, L’Unità, 15 dicembre 2013
 
Il clima non sembra affatto favorevole al rifiorire della speranza utopica, e invece forse per compensazione? – Ecco in pochi mesi quattro libri che in diverso modo cercano qualche nuova pista per procedere oltre i fallimenti del Novecento. In ordine di uscita: Paolo Prodi, Profezia vs utopia (Il Mulino), Carlo Altini, Utopia (Il Mulino), Luigi Zoja, Utopie minimaliste (Chiarelettere), Carlo Formenti, Utopie letali (Jaka Book).
Il libro di Altini (studioso di filosofia politica, direttore scientifico della Fondazione S. Carlo di Modena) è una sorta di grande affresco dell’immaginazione utopica che rifugge dalla pretesa di darne una definizione univoca: ideale critico come criterio di giudizio, progetto politico-istituzionale, sogno del paradiso in terra sono alcune delle funzioni di questo genere letterario che compongono, in contrasto tra loro o in diversa mistura alla ricerca di una sintesi, il paesaggio dell’utopia moderna. Un’utopia che sembra in presa diretta con l’anima della modernità: poter dare forma compiutamente umana al mondo. In questo ruolo l’utopia rimane irrinunciabile, ma deve spogliarsi della pretesa di imporre il suo sogno, per trattenere invece la spinta critica a non rassegnarsi al dato. Altrimenti, come si è verificato troppo spesso, la speranza si rivolta in crudele distopia, in una sorta di sanguinoso stupro dell’umanità reale per estrarne il fantasma impossibile dell’idealità astratta, a copertura di interessi, tanto ristretti quanto mostruosi, di una cerchia di nuovi oppressori.
Proprio sulla possibilità che l’utopia abbia trovato la sua genesi nella perdita del senso della dimensione trascendente, nella quale si radica la profezia come denuncia dell’ingiustizia nelle istituzioni, si dispiega il lavoro di Paolo Prodi (uno dei più importanti storici italiani). È in questa distensione temporale secolarizzata della profezia che lo spirito utopico approda al contrario della volontà critica che l’aveva partorito.
Il superamento della tendenza massimalista un intero capitolo è dedicato allo smontaggio della fabbrica mitologica del guevarismo è l’obbiettivo dichiarato di Luigi Zoja (psicoanalista e saggista, già presidente dell’associazione internazionale junghiana), teso a riportare il desiderio utopico al suo baricentro concreto, l’attenzione alla vita reale. L’utopia minimalista va dritta all’essenza. Nel piccolo è nascosto il più grande, una volta evitata l’inflazione che, gonfiata dall’ideologia della liberazione dal male proiettato paranoicamente sull’altro, si tramuta in fabbrica dell’oppressione.
Oppressione che si avvita su stessa, autentico doppio legame: andiamo all’assalto del cielo e, siccome al cielo non si arriva, la caduta dovrà essere pagata con l’ulteriore confisca della vita quotidiana, colpevole di ostacolare le sorti magnifiche e progressive propagandate dai gruppi dirigenti. Peraltro assai presto ammorbati da una inestinguibile sete di potere, di averi e di piaceri meschini (gli esempi sono davvero troppi, si fa fatica a trovarne qualcuno che smentisca la generalizzazione). Ma il rovescio dell’utopia sembra altrettanto disperante: «fatalismo, depressione di massa, smarrimento di veri desideri condivisi». Un mondo trascinato da un’avidità corrosiva della stessa sua base naturale, sotto la quale si intravvede il male psicologico collettivo di fondo: uno stato di incoscienza trascinato perversamente a distruggere per consumare qui e ora, scaricando sugli altri ogni responsabilità, in una ebetudine fasciata di onnipotenza. L’epoca della post-utopia sembra annunciare una regressione antropologica: l’uomo post-sapiens. L’utopia minimalista cerca una via d’uscita alla tenaglia che inchioda i due opposti polari, l’indifferenza e la protesta tutta esteriore, infantile nel suo negare il necessario lavoro del tempo, paranoica nel suo additare i capri espiatori.
Così il lavoro interiore, la ricerca della individuazione (nel solco di Jung e di Neumann) come capacità di distacco dagli stereotipi della prestazione, potrebbe diventare un bisogno sociale. Qualche segno diffuso nei diecimila rivoli dell’impegno ecologico, della lenta trasformazione sociale verso una diminuzione delle uguaglianze di opportunità e di reddito (l’ex guerrigliero uruguayano, ora presidente, Pepe Mujica, l’azione di governo di Lula in Brasile, gli anni della presidenza socialista in Cile e l’esempio delle socialdemocrazie nordiche, sono alcuni degli esempi portati da Zoja), sembra aprire una porta stretta dalla quale è necessario passare se non si vuole attendere che la natura starnutisca «rifiutando gli umani come un polline fastidioso».
Di tutta’altro genere Utopie letali il libro di Carlo Formenti (sociologo, fra i maggiori esperti dei nuovi media): una dura polemica contro le sinistre «movimentistiche» che «hanno sostituito le velleità rivoluzionarie con il sogno del crollo indolore del capitalismo che dovrebbe essere provocato da improbabili mutazioni della psicologia e dell’antropologia individuali, oppure dalle lunghe marce per i nuovi diritti, o dall’invenzione di terze vie che ci proiettino oltre la dicotomia tra pubblico e privato…».
Utopie letali perché invece di canalizzare l’energia antagonistica anticapitalistica sarebbero corrive con l’ideologia liberale, se non addirittura liberista («ideologia criminale» secondo l’autore). L’argomentazione si snoda a partire da un’analisi della fase dell’accumulazione capitalistica che attraverso finanziarizzazione e globalizzazione ha cambiato i rapporti tra le classi con una vittoriosa «guerra di classe dall’alto». Di qui l’individuazione di un nuovo possibile fronte antagonista che potrebbe unire la classe operaia dei Brics con i precari del terziario arretrato negli Usa e in Europa, le moltitudini dei migranti e le masse indigene e contadine dell’America Latina. Nessuna forza efficace tuttavia, secondo Formenti, potrà nascere se non abbandonando lo spontaneismo e il culturalismo che non riconosce il criterio identitario nella collocazione produttiva.
Le tesi politiche dell’autore riprendono poi il concetto di transizione e dei suoi strumenti, partito e stato da riprogettare per poter entrare in una fase postcapitalista. L’acutezza dell’analisi socioeconomica non sembra tuttavia poter supplire l’assenza di una critica della radicale mancanza «soggettiva» – della povertà simbolica, avrebbe detto Bloch – che ha tragicamente accompagnato i movimenti rivoluzionari e i loro tentativi di farsi partito egemone o stato. Se, come Formenti sostiene, occorre un «progetto rivoluzionario cosciente e organizzato» diventa gioco forza pensare a quelle umane soggettività che dovrebbero crearlo e a come potrebbero cambiare se stesse mentre cercano di cambiare il mondo. Se invece si rigetta come radicalmente inadeguato tutto ciò che si muove nel senso di una faticosa presa di coscienza della insostenibilità della civiltà dell’accumulazione economica, allora le tesi di Formenti sembrano, pur con tutte le novità del caso, riproporre la fantapolitica, generosa ma inconcludente, della nostra comune gioventù anni settanta.
 
http://foglianuova.wordpress.com/2013/12/15/domenica-15-dicembre-2013/

http://edicoladigitale.unita.it/unita/books/131215unita/#/1/ 

«HO SCOPERTO IL TEATRO ATTRAVERSO LA PSICOANALISI». Lella Costa, «folgorata» da Basaglia. A 24 anni, supera le selezioni ed è ammessa all’Accademia Filodrammatici
di Silvia Icardi, milano.corriere.it, 16 dicembre 2013
 
Lella Costa è donna poliedrica. Professionalmente perché, pur essendo il teatro il suo grande amore, non ha disdegnato esperienze televisive, cinematografiche, radiofoniche e di scrittura (al suo attivo conta ben sette libri). Nella vita privata, con la sua aria da signora sbarazzina, colleziona tanto teiere (hobby very English) quanto scarpe décolleté dai tacchi vertiginosi (che tiene orgogliosamente in mostra in una bacheca vetrata). La sua casa, ricavata da un ampio sottotetto vicino a piazza Piemonte, è densa e accogliente, specchio fedele di quell’esistenza «ricca e intensa» che Lella – per sua stessa ammissione – ha avuto la fortuna di vivere.
Come si diventa una delle voci femminili più affermate del teatro italiano? Un sogno nato da bambina? 
«Assolutamente no, ho scoperto di voler fare questo mestiere tardi, dopo i vent’anni. Da bambina ero timida e chiusa, mi piaceva moltissimo leggere, era quello il mondo in cui amavo perdermi».
Ha sempre provato una forte fascinazione per le parole sia scritte sia parlate… 
«Ho iniziato a cinque anni quando passavo ore nella tipografia-cartolibreria di mia nonna materna, donna coraggiosa e rigorosa, a Costigliole d’Asti. Ricordo ancora la mia primissima lettura: un episodio di “Piccola Eva” all’interno di un Monello. Il titolo era “Occhio di lince”».
Di timidezza oggi neanche l’ombra, quando se n’è liberata? 
«La scuola mi ha dato uno scossone positivo: ottenevo buoni risultati facendo francamente poco. Successi che mi hanno aiutato a essere più sicura di me e ad aprirmi. Ogni tanto incontro ex compagne delle medie che mi dicono “guarda che tu organizzavi fantastici scherzi telefonici imitando le voci più strampalate”, ma di questo lato di me così spavaldo sinceramente non ho memoria».
Il giro di boa che l’ha fatta veleggiare verso il teatro? 
«La psicoanalisi. Me ne sono totalmente invaghita durante gli anni dell’Università pur avendo scelto Lettere. Il mito di allora per me fu Franco Basaglia, capace di denunciare la vera follia imperante: considerare la malattia come una colpa, infliggere la punizione lì dove reato non c’era, condannare alla detenzione chi non aveva commesso alcun crimine. È una cosa che mi ha segnato la vita. Ancora oggi quando guardo i filmati che lo riguardano negli ospedali a Gorizia e a Trieste mi emoziono. Insieme a altri studenti, amici, psicologi decidemmo che avremmo aperto un consultorio popolare di psicoterapia al Niguarda. Non ci siamo riusciti ma provandoci ho scoperto la mia vera strada. Come mi piace dire “sono stata folgorata sulla via del Niguarda”, che non è Damasco ma fa comunque la sua porca figura».
Concretamente cos’è successo? 
«I corsi avevano una parte teorica e una pratica, in quest’ultima alcuni interpretavano il ruolo del terapeuta, altri quello del paziente. Un giorno mi chiesero di calarmi nella parte di una ragazza schizofrenica. Fu un’esperienza rivelatrice. Mi riusciva facile, naturale, era come se in quel momento tutti i pezzi della mia vita andassero magicamente al loro posto. Quando terminai mi chiesero se non avevo mai pensato di fare l’attrice, la presi come una “chiamata” e alle chiamate bisogna sempre rispondere, o almeno provarci».
Che cosa fece? 
«Avevo ventiquattro anni, l’età limite per poter essere ammessi all’Accademia dei Filodrammatici. Alle selezioni eravamo duecento, ne presero venti. Ero tra quelli».
Insegnanti che hanno lasciato il segno? 
«Ernesto Calindri che ho rivalutato con gli anni. Mi ha insegnato la disciplina del palcoscenico e mi ha trasmesso – direi quasi per osmosi – la leggerezza, il garbo, a usare sempre un basso tasso di retorica. Era un uomo naturalmente elegante».
Sul palco lei non si accontenta di essere una brava interprete ha bisogno di un legame forte col testo, con ciò che si racconta… come sono nati i suoi monologhi? 
«La svolta è arrivata nel 1980 quando ho debuttato con un testo scritto da Stella Leonetti. L’avevo conosciuta grazie a un fidanzato comune, un ragazzo che io avevo lasciato e lei aveva preso ma che aveva massacrato entrambe. Per lo spettacolo, che si intitolava Repertorio, cioè l’orfana e il reggicalze, affittammo la Sala azzurra alle Stelline. Mi diede una certa visibilità ma cosa assai più importante mi fece capire che la dimensione del monologo mi calzava a pennello».
La svolta come autrice invece è arrivata qualche anno dopo nell’87 con Adlib… 
«Era una cosa molto piccola da cabaret. Debuttai al Grand Hotel Pub in via Ascanio Sforza, un ristorante che poi è sempre rimasto nel nostro cuore, ci abbiamo fatto il pranzo di nozze e tante feste familiari. Nei testi che scrivo mi piace tenere sempre una vena amarognola, introspettiva, di malinconia, è la mia cifra perché non mi interessa la comicità pura. Il maestro in questo è Woody Allen».
Autori che le stanno più a cuore? 
«Shakespeare, basta per tutta la vita. Se posso dirne tre, scelgo le poesie di Eliot e naturalmente Calvino, chirurgico, rigoroso ma capace di un’impalpabile leggerezza».
Si è appena conclusa la tournée di Ferite a morte di Serena Dandini, il prossimo spettacolo? 
«Nuda proprietà firmato da Lidia Ravera che da fine febbraio a metà marzo sarà al Carcano».

http://milano.corriere.it/milano/notizie/cronaca/13_dicembre_16/ho-scoperto-teatro-attraverso-psicoanalisi-lella-costa-folgorata-basaglia-62f41fba-662e-11e3-8b64-f3a74c1a95d8.shtml 

JACQUES LACAN E L’INCONSCIO VISTO DA VICINO
di Massimo Recalcati, repubblica.it, 20 dicembre 2013
 
La parte più rilevante dell’insegnamento di Jacques Lacan è orale. Essa si condensa nei suoi famosi Seminari che a partire dai primi anni Cinquanta egli tiene continuativamente sino alla sua morte avvenuta nel settembre del 1981. E tuttavia la celebrità pubblica di Lacan coinciderà con la pubblicazione dei suoi Scritti nel 1966. Questa raccolta volutamente al limite della leggibilità uscì in piena epoca strutturalista e il suo successo consacrò lo psicoanalista francese come uno dei più grandi pensatori del Novecento. Emergeva lì il senso più autentico del suo “ritorno a Freud”: l’inconscio non è il sottosuolo, l’irrazionale romantico, l’animale imbizzarrito, il selvaggio caotico, l’istintuale. Lacan ci mostra come l’inconscio di Freud sia strutturato come un linguaggio, appaia cioè come una vera e propria ragione sebbene diversa da quella che regola i nostri comportamenti diurni. Si tratta della ragione che anima la trama complessa dei nostri sogni e il tessuto scabroso dei nostri sintomi, della ragione che sostiene l’istanza del desiderio inconscio. Di qui il nuovo orientamento che egli imprime alla pratica analitica: contro le derive post-freudiane che tendevano a concepire il lavoro dell’analisi come una rieducazione emotiva e disciplinare del paziente, Lacan mostra che la “disalienazione” prodotta dall’esperienza dell’analisi non consiste nel raddrizzamento ortopedico dell’Io, ma nel fare emergere la verità del desiderio inconscio come ciò che spiazza l’Io costringendolo a ridimensionare il proprio narcisismo.
La pubblicazione per Einaudi degli Altri scritti di Lacan, apparsi originariamente in lingua francese nel 2001 a cura di Jacques-Alain Miller, è di straordinario interesse perché ci consente di dettagliare ancora meglio la visione lacaniana della psicoanalisi che senza negare il potere rivelatore della parola affronta con più decisione tutti i suoi limiti. Questa raccolta riunisce testi che vanno dalla fine degli anni Trenta sino alla fine degli anni Settanta. In cinquant’anni si srotola una vita dedicata allo studio e alla pratica clinica della psicoanalisi. Il lettore potrà così trovare testi capitali per la ricostruzione genealogica del suo pensiero — come il celebre I complessi familiari del 1938 che anticipa un grande tema della contemporaneità come quello del tramonto dell’Imago paterna — o altri che lo sintetizzano con grande energia come Televisione o Radiofonia.
Ma non manca in questa raccolta il Lacan maestro che possiamo ritrovare nei brillanti e inediti resoconti del suo insegnamento. Il clinico curioso che offre un intenso e rispettoso ritratto di Wilfred Bion e della sua esperienza pionieristica nell’applicazione della psicoanalisi ai gruppi di soldati che nel corso della Seconda guerra abbandonavano traumatizzati il fronte. L’intellettuale appassionato che omaggia Merleau-Ponty o che resta affascinato dagli ideogrammi della lingua giapponese e dalla scrittura neologistica di James Joyce. Il capo scuola impegnato nella trasmissione della psicoanalisi e nel dare vita ad una comunità di psicoanalisti capace di non tradire il sapere di cui essa si vorrebbe destinataria. Qui Lacan sbatte la testa contro il muro della contraddizione che separa la formazione dell’analista da ogni sua possibile regolamentazione. Per questo si congeda identificandosi con Tommaso D’Aquino nel momento finale della sua vita, mostrando come il destino dello psicoanalista sia quello dello scarto, null’altro che “Sicut palea”, povero letame di cui si è nutrito l’humus umano.

IL LIBRO: Altri scritti di Jacques Lacan, Einaudi, pagg. 624, euro 34

http://ricerca.repubblica.it/ricerca/repubblica?query=Lacan&view=repubblica

(Fonte: http://rassegnaflp.wordpress.com)

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