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Dicembre 2014 IV – Feste e rappresentazioni

5 Gen 15

A cura di Luca Ribolini

GLI PSICANALISTI DI NEW YORK. Fotografati nei loro posti di lavoro da un apprezzato fotografo newyorkese, che lavora anche lui nel campo della psichiatria 
di Redazione, ilpost.it, 21 dicembre 2014

Sebastian Zimmermann è un fotografo e praticante di psichiatria di New York, che vive e lavora nell’Upper West Side di Manhattan: Fifty Shrinks (in italiano: cinquanta strizzacervelli) è il titolo di un suo recente libro fotografico, un volume di 120 pagine che contiene una serie di fotografie scattate da Zimmermann a decine di psicoterapeuti nelle loro stanze di lavoro, quelle in cui ospitano i loro pazienti. Il libro – che contiene anche alcune brevi considerazioni di ciascun terapeuta fotografato – ha ricevuto molte critiche positive, sia per la bellezza estetica delle foto che per l’originalità dell’iniziativa. “Il processo di creazione di questo libro ha reso ancora più profondo il mio rispetto per il lavoro dei miei colleghi, che si misurano con l’intero spettro dei comportamenti umani”, ha detto Zimmermann. “Ogni terapista che ho incontrato mi ha impressionato per la sua dedizione nel cercare di alleviare i sintomi e migliorare la vita dei suoi pazienti. Questo libro è il mio tributo al loro lavoro”.
 
Per vedere le immagini:
http://www.ilpost.it/2014/12/21/sebastian-zimmermann-new-york-psicoanalisi
 

IL RITORNO DI VALENTINA 
di Marco Belpoliti, doppiozero.com, 21 dicembre 2014

È nella terza puntata de La curva di Lesmo di Guido Crepax, pubblicata su Linus nel 1965, che entra in scena la fotografa milanese Valentina Rosselli. Capelli tagliati a caschetto, sinuosa, elegante, disinibita, con lunghissime gambe, Valentina prende immediatamente il posto del protagonista della storia a fumetti, il critico d’arte e investigatore dilettante Philip Rembrandt, alias Neutron, suo fidanzato, fornito di una particolarità: possiede uno sguardo che paralizza, rallenta o blocca lo scorrere del tempo. Sono trascorsi quasi cinquant’anni e Valentina ritorna. O forse non se n’è mai andata, dal momento che è lei il personaggio femminile dei fumetti più famoso d’Italia, e non solo. L’editore Mondadori distribuisce in edicola in questi giorni l’intera opera di Crepax con il titolo Guido Crepax – Erotica. Il primo volume s’intitola Venere in pelliccia. Eros e Psiche (€ 9,99): cartonato, di 21 x 26 cm. Nelle stesse settimane s’è aperta a La Spezia, presso lo Spazio 32, centro culturale per i ragazzi con biblioteca specializzata in fumetti, una mostra di venti tavole originali e inedite di Valentina, ed è uscito un libro, Inedito (Edizioni BD, testi di Tiziana Lo Porto e Davide Toffolo), che contiene le ultime storie disegnate dall’artista milanese: Il piacere di D’Annunzio, Doppio sognodi Schnitzler, Il castello di Kafka, libri interpretati da Crepax. Nella quarta di copertina di questo volume è riportata una frase di Bernardo Bertolucci che mette in luce la tecnica del montaggio adottata dall’autore di Valentina fondata sul taglio delle inquadrature. Come a dire che se Crepax ha guardato al cinema, i registi che l’hanno letto, a partire da quel 1965, hanno guardato le sue tavole come se fossero dei film.
Nel giornale a fumetti, album cult degli anni Sessanta e Settanta, in cui compare La curva di Lesmo, la creatura di Crepax diventa nel giro di qualche puntata l’indiscussa protagonista della storia. È come se il suo creatore avesse trasferito il ruolo di alter-ego da Philip, personaggio maschile, con cui condivide molti aspetti, anche biografici, oltre che evidenti desideri, all’eroina femminile. Valentina diventa immediatamente un mito: più libera e disinibita di tutte le precedenti eroine del fumetto italiano; è una Brigitte Bardot, una Barbarella in versione bruna, l’eroina disegnata nel 1962 da Jean-Claude Forest e portata sullo schermo nel 1968 dall’attrice francese. Modellata sull’ideale femminile delle donne degli anni Venti e Trenta, Valentina assomiglia incredibilmente a Louise Brooks, diva del periodo (è una Anna Karina che imita Louise Brooks in Lulu, dice Bertolucci); possiede l’ambiguità legnosa, come hanno scritto i critici, delle donne di quel periodo.
Nel 1965 Guido Crepax, l’autore delle strip, ha trentadue anni; si è laureato in architettura e subito si è dedicato alla grafica pubblicitaria e al lavoro editoriale. La curva di Lesmo è il suo debutto come disegnatore di storie. Da quel momento in poi il suo lavoro di disegnatore s’identificherà quasi totalmente con Valentina, l’eroina del fumetto colto e intellettuale degli anni Sessanta. Il clima visivo e psicologico dell’epoca è quello dei film di Antonioni – L’eclisse è del 1962, Blow up del 1967 –, e Crepax  stesso ha che fare con il cinema e la fotografia, come è subito evidente dal taglio delle sue tavole. Le vignette in bianco e nero di Valentina sono vere e proprie inquadrature, zoomate. Danno l’impressione del movimento, del cinema come atto psichico, oltre che visivo. Forse per lui vale l’idea di inconscio ottico, enunicata da Walter Benjamin e fatta propria, molti decenni dopo, da Rosalind Krauss per descrivere “il fotografico”. Nelle tavole dell’artista milanese si mescola insieme arte, cinema, disegno, comics e fotografia. Crepax frequenta all’epoca del suo debutto gli ambienti culturali milanesi, conosce l’optical art, non solo quella di Vasarely, Soto, Gerstner, che alla fine degli anni Cinquanta hanno cambiato il profilo dell’arte europea e mondiale, ma anche l’op art che si fa a Milano, con i fratelli Colombo, Giovanni Anceschi e tanti altri operatori visivi. Legge e cita i libri che artisti e scrittori si passano di mano. Valentina, sempre più erotica e sinuosa di puntata in puntata, li ha con sé; esibisce le coste dei libri mentre si sdraia nuda sul letto o, vestita di slip attillati e giarrettiere, si allunga sul divano.
Erotica, mai volgare, il personaggio di Valentina è complesso dal punto di vista psicologico. La sua disinibita personalità sconfina infatti nell’onirico. Crepax ha detto una volta che il suo fumetto rappresentava un “personale diario psicoanalitico disegnato giorno per giorno”. Il piano di realtà e il piano del sogno si confondono spesso; non c’è rottura tra il “dentro” e il “fuori”, ma lo sguardo indagatore del disegnatore esplora letteralmente Valentina, sia percorrendo la superficie della sua pelle, sia affondando nel pozzo oscuro dei suoi desideri e delle sue pulsioni segrete. Ma anche in questo viaggio nella coscienza, Valentina è un personaggio di “superficie”: possiede un’incredibile leggerezza, che è la stessa del segno che la definisce. Non c’è dramma né tragedia nelle sue avventure, ma uno scorrimento continuo: tutto fluisce. Crepax, da autore postmoderno – il primo postmoderno del fumetto italiano, senza dubbio – cita di continuo; sono i fumetti di Buzzati, le opere di Freud, testi filosofici, oltre che quadri o opere visive. Valentina frequenta le gallerie e i musei in compagnia di Philip, o di altri occasionali amanti – la loro è già una “coppia aperta” ben prima della rivoluzione sessuale del Sessantotto.
Con il personaggio di Valentina, con il segno che la definisce, Crepax ha inventato uno stile tutto suo, inconfondibile, dal punto di vista grafico. A volte i tratti del volto della sua eroina non sono neppure rifiniti; memore dei giochi percettivi della grafica e della op art, Crepax lavora sui dettagli; a volte abbozza, altre volte, al contrario, disegna tutto. Così, mentre a tratti è sommario – sempre bellissimo il volto di Valentina –, sono dettagliati gli abiti che indossa, o che più spesso si toglie. In alcuni momenti Crepax tende all’astrattismo, che è il sogno represso di gran parte dell’arte italiana del periodo, che sta transitando verso il concettualismo post-Fontana, verso il segno inafferrabile di Piero Manzoni.
Nel corso degli anni Settanta, mentre la società italiana scivola sempre più verso il conflitto sociale, la violenza politica e il terrorismo, Valentina diventa un sensibile sismografo di quanto accade fuori dalla sua stanza, dai luoghi chiusi dove vive; l’eroina di Crepax cammina anche per le strade di Milano, ma è una città vista però sempre da dentro, come se fosse un interno borghese. È il suo corpo, morbido, al limite del tattile, a diventare la superficie su cui si esercitano i desideri e le passioni di quell’epoca, che non trova, almeno per la Milano post-boom economico, il suo Tom Wolfe, il cronista puntuto e inventivo che narra i “radical chic” sotto la Madonnina (Radical Chic & Mau-Mauing the Flak Catchers di Wolfe esce nel 1970).
Valentina è anche un’eroina descritta da un segno sempre più barocco, lezioso. Quando la pornografia, quella colta, non è ancora diventata davvero di moda, il segno grafico di Crepax indugia sui peli pubici della sua eroina, oppure sulle sue curve generose offerte alla scopofilia dei lettori, esibendosi in posture che ricordano pagine di de Sade o von Masoch, ma sempre con garbo e con l’eleganza infallibile della china nera del suo autore. Nel 1973 il personaggio viene portato sullo schermo da Corrado Farina, in Baba Yaga, ma l’operazione non riesce; il regista rifiuta il film per via di tagli voluti dal produttore. A quel punto Valentina è già diventa una griffe. Compare su capi di abbigliamento, foulard, asciugamani, camicette; diventa un logo che va in giro per il mondo, uscendo delle pagine di “Linus” o degli albi che nel frattempo la Milano Libri ha iniziato a sfornare in modo sistematico per il piacere dei suoi lettori. Ancora nel 1989, per confermare un fascino che continua nel tempo, la fotomodella Demetra Hampton interpreta l’eroina di Guido Crepax in una serie di telefilm trasmessi da Italia 1.
Nel 1994 la casa editrice Blue Press ristampa le avventure, non seguendo l’ordine cronologico in cui sono apparse, bensì lo sviluppo delle singole storie. Crepax infatti non è solo un disegnatore attento alle mode, al mutamento degli stili, divoratore del nuovo, ma anche uno scrittore. I plot delle storie di Valentina sono intricati, veri viluppi arborescenti, che s’intrecciano tra di loro, fino a far smarrire al lettore l’ordine del racconto, se non proprio del discorso, come mostrano anche le ultime storie a cui Crepax si era dedicato poco prima della sua scomparsa nel 2003. C’è dietro a questa tecnica narrativa non solo il surrealismo – un surrealismo freddo, più mentale nella versione di Crepax – ma anche il nouveau roman di Robbe-Grillet, Sarraute, Butor, oltre al cinema della nouvelle vague di Godard, Rohmer, Truffaut. Lo avvicina agli scrittori e registi francesi lo sperimentalismo moderato e intellettuale, il gusto per i passaggi bruschi dal realistico all’onirico.
Crepax è stato senza dubbio un innovatore; il suo segno grafico è perfettamente identificabile fino a raggiungere una forma di manierismo e perfino l’autocitazione, come accade a molti autori di talento in età tarda. Nel corso degli anni, seguendo una delle linee di forza del suo fumetto, l’erotismo, Crepax ha illustrato molti romanzi erotici dell’Ottocento e del Novecento: Justine di De Sade, Emanuelle di Arsan, Histoire d’O, fino ad arrivare a La marchesa di O di von Kleist, uscito presso le Edizioni Nuages di Milano. Giustamente Ferruccio Giromini ha sottolineato la vocazione illuministica di Crepax, il suo appartenere alla cultura lombarda, milanese, che dell’illuminismo ha fatto il suo punto di forza. Illuminista lombardo come Manzoni? Probabilmente sì, ma con una specificazione. C’è nel voyeurismo di Crepax – il guardare come ossessione maschile e il farsi vedere come tecnica, provocazione e risposta femminile, secondo uno stereotipo dell’epoca in cui ha inventato la sua eroina – qualcosa che richiama l’illuminismo di Sade oltre che quello dei milanesi fratelli Verri, quell’illuminismo nero che egli ha saputo sviluppare in modo coerente nelle sue tavole, dando vita a una forma grafica decisamente anticlassica, ma non per questo sovversiva o rivoluzionaria. C’è sempre nelle sue strip, come nella personalità della sua eroina, un punto di equilibrio che Crepax non ha mai voluto mettere in discussione, quasi fosse uno psicoanalista di professione, che ha estratto dal “campo interiore” della sua bellissima protagonista ciò che si vuole e ciò che non si vuole, senza giudicare, ma solo raccontando con i propri segni.
 
http://www.doppiozero.com/rubriche/3/201412/il-ritorno-di-valentina
 

MANUALI PER CUORI INFRANTI 
di Maria Bettetini, ilsole24ore.com, 21 dicembre 2014

Quest’anno il mercato dei libri è stato invaso da manuali per imparare in poco tempo e con ironia le problematiche amorose. È tutto uno spreco di principesse, rospi, pale per seppellire i cuori infranti, consigli per riconoscere al volo l’anima gemella o, in alternativa, un partner passabile per un fine settimana. La modalità dell’amore sembra sempre più vicina all’azzardo e alla leggerezza dello speed date, dell’appuntamento al buio in cui si hanno a disposizione pochi minuti per decidere se il candidato sia principe o rospo. Si tratta di una via percorsa anche senza l’aiuto delle sempre più numerose agenzie apposite, infatti tutte le occasioni sono buone per conoscere e farsi conoscere, tra sessantenni come tra adolescenti. E se invece sull’amore ci si volesse soffermare, addirittura esprimere una riflessione?
 
Per continuare:
http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2014-12-21/manuali-cuori-infranti-081446.shtml?uuid=AByv83TC

UN DONO DI NATALE? REGALARE TEMPO 
di Giuseppe Maiolo, ladigetto.it, 23 dicembre 2014

In questo periodo dove il rumoreggiare consueto dei preparativi si unisce alla corsa ormai febbrile dei doni da fare per le feste, viene da chiedersi se non sia il caso di ripensare al valore del dono.
I regali, si dice, sono un pensiero che si materializza e si offre per sottolineare alla persona cui lo indirizziamo che ci siamo, che c’è qualcosa di affettivo che ci lega.
Forse non dovrebbe essere un sostituto di cose che non sappiamo dare, ma in ogni caso potrebbe essere importante, senza dover rinunciare a questa consolidata tradizione, aggiungere alle cose che vogliamo dare.
Ad esempio regalare «tempo».
Per continuare:
http://www.ladigetto.it/permalink/39905.html

UN LITIGIO SOTTO L’ALBERO 
di Oliver Burkeman, internazionale.it, 23 dicembre 2014 

Con l’avvicinarsi del Natale, mi torna in mente un leggendario signore con la barba bianca, famoso per il suo interesse per il comportamento dei bambini e per le sue renne. Sto parlando di Sigmund Freud (le renne erano un diversivo).
Per tutto il resto del tempo, possiamo convincerci che le teorie di Freud sono superate da qualche decina di anni, ma davanti ai drammi che scoppiano intorno alla cena natalizia, o a tutte le altre discussioni che nascono quando una famiglia si riunisce, ci torna il sospetto che i rapporti familiari siano spesso condizionati da vecchie ferite, risentimenti inconsci e altre forze simili che sfuggono alla mente razionale.
Cinquant’anni fa un freudiano canadese non proprio ortodosso chiamato Eric Berne pubblicò la sua versione di questa ipotesi. A che gioco giochiamo (Games people play), diventò il manuale di auto aiuto per eccellenza degli anni sessanta, e non è difficile capire perché: Berne scoperchia i segreti delle liti familiari, dei matrimoni falliti e di tutto il resto. E sostiene che questi non sono i nostri unici problemi. Solo soltanto variazioni sul tema di un piccolo numero di “giochetti” prevedibili che tutti involontariamente giochiamo. Questa settimana, perché non cerchiamo di prenderne coscienza? Secondo il metodo di Berne, l’analisi transazionale, ricopriamo sempre uno di questi tre ruoli: genitore, bambino o adulto. Ovviamente, il tipo di interazione ideale tra persone mature sarebbe quella tra adulto e adulto. Ma non è quasi mai così. Di solito, nei confronti dei suoi dipendenti un capufficio si comporta come un genitore, e loro reagiscono come bambini, verificando continuamente quanto possono tirare la corda e facendo i capricci. Oppure, un coniuge chiede implicitamente che l’altro gli faccia da padre o da madre, per poi infuriarsi quando questo diventa evidente.
I giochi di Berne hanno nomi come “Guarda che mi hai fatto fare” e “Non è la volontà che mi manca” e il loro scopo, spiega, non sta nel loro contenuto esplicito, ma in una serie di vantaggi impliciti. Nel gioco “Perché tu non…Sì ma…”, A deve risolvere un problema, ma trova un motivo per respingere tutti i suggerimenti di B. Quando finalmente B rinuncia a dargli consigli, A canta vittoria, anche se il problema non è stato risolto.
Nel gioco “Ti ho beccato, figlio di puttana”, A si attacca a una qualche piccola ingiustizia e non cede fino a quando B non confessa, e tutto questo perché A vuole affermare il suo predominio genitoriale. “Fin da quando era bambino”, scrive Berne a proposito di un paziente simile ossessionato da un piccolo errore nella fattura di un idraulico, “era sempre andato in cerca di ingiustizie simili, le aveva scoperte con piacere e sfruttate con gusto”. Vi ricorda qualcuno? Scommetto di sì.
Da questo tipo di analisi emergono due verità sorprendenti. La prima è che certi litigi e certi atteggiamenti passivi aggressivi, anche se sembrano veri scontri, in realtà sono frutto di un’inconscia complicità: entrambi i partecipanti amano litigare perché questo permette loro di rafforzare l’immagine di vittima che hanno di se stessi.
La seconda è che questo tipo di giochi non è necessariamente negativo. Vivere sempre nell’intimità pura e non filtrata del rapporto tra adulti, sembra voler dire, sarebbe insopportabile. “L’eterno problema degli esseri umani è come organizzare le proprie ore di veglia”, scrive Berne, e i giochi sono un modo tollerabile di passare il tempo. Questo non significa che durante il pranzo di Natale vi consiglio di accapigliarvi con un fratello o con una sorella tanto per passare il tempo. Ma se lo faceste vi capirei. Probabilmente lo farò anch’io.
 
Traduzione di Bruna Tortorella
http://www.internazionale.it/opinione/oliver-burkeman/2014/12/23/un-litigio-sotto-l-albero
 

QUANDO LE FESTE SONO UN MOMENTO DIFFICILE
di Chiara Baratelli, ferraraitalia.it, 24 dicembre 2014
Il periodo che precede le feste, gioioso per molti, può rappresentare per alcuni un momento delicato in cui gli instabili equilibri possono cedere e lasciare il soggetto nel baratro della propria depressione. Per chi soffre di disturbi alimentari, ad esempio, il prospettarsi di cene e ritrovi famigliari viene vissuto come un vero e proprio incubo, un momento di confronto col cibo (amico/nemico) e con gli altri. È noto che durante le feste aumentano i suicidi. Il confronto con la felicità altrui mette a dura prova chi soffre già di sindromi depressive. Si potrebbero avere ricadute e attacchi ancora più importanti del solito. Se il malessere si trasforma in senso di svuotamento e peggiora ulteriormente quando le feste finiscono e tutte le luci natalizie si spengono, è segno che non si tratta di una depressione transitoria, ma di qualcosa di più serio che vale la pena indagare rivolgendosi a uno psicoterapeuta.
Alcune persone durante le Festività sono soggette a una sorta di tristezza, di cattivo umore, che assomiglia a una sorta di depressione che ha il nome di Christmas Blues, che significa proprio “depressione natalizia”. Il Christmas Blues è un problema transitorio dell’umore: si manifesta a partire da qualche giorno prima del Natale, quando ha inizio la frenesia delle cene e la corsa agli acquisti e dura fino a dopo l’Epifania, con le ultime occasioni di regali e di incontri con amici e parenti. Terminato questo periodo, la persona che soffre di tristezza natalizia si sente come “svuotata”, apatica, priva di interessi. Con il passare dei giorni e la ripresa delle consuete attività lavorative, la tristezza si allontana poco per volta.
Si tratta di un disturbo che riguarda soprattutto i giovani adulti sui trenta-quarant’anni, mentre bambini, ragazzi e persone più anziane sembrano esserne immuni. Alla base di questo disturbo si ritrova quasi sempre una personalità già predisposta alla depressione e l’associazione della quantità di luce solare in meno, tipica di questo periodo dell’anno, con la conseguente minore concentrazione della serotonina, il neurotrasmettitore che regola l’appetito, il sonno e il tono dell’umore. Chi è soggetto a questa sindrome prova una sorta di fastidio nel dovere sottostare alle tradizioni delle feste. Il ritrovarsi insieme, lo scambio dei regali, i festeggiamenti imposti dal periodo provocano una forma di ansia e un desiderio di fuggire, di nascondersi in casa propria e di godersi un bel film, crogiolandosi nella propria tristezza e aspettando che il periodo delle feste giunga al termine. Al contrario, i doveri e le tradizioni impongono di mostrarsi sorridenti con amici, figli e genitori. Tutto questo non fa che accrescere il disagio.
Cosa fare, per sentirsi meglio? Sicuramente è consigliabile una sana via di mezzo. Non è necessario partecipare controvoglia a tutte le occasioni di festeggiamento. Ci si può concedere, per esempio, di rifiutare con gentilezza l’ennesimo invito a un brindisi o a una cena. Tuttavia isolarsi troppo non è consigliabile: la solitudine durante le feste induce ad avere pensieri negativi su se stessi e sul futuro. È quindi opportuno sforzarsi e uscire, anche solo per una passeggiata nelle ore in cui la luce è più intensa, o concedersi un pomeriggio al cinema con le persone care. Un rapporto positivo con le Feste è invece importante: insegna la pratica della convivialità, con il rito dei pranzi, insegna il valore del dono, con il rito dei regali, insegna la capacità di rallentare e di prendersi una sosta, insegna a stare in uno spazio vuoto di impegni, di compiti e di incombenze a favore delle relazioni.
 
http://www.ferraraitalia.it/quando-le-feste-sono-un-momento-difficile-29851.html
 

CONSIDERAZIONI PSICOANALITICHE SUL FONDAMENTALISMO 
di Pietro Barbetta, doppiozero.com, 24 dicembre 2014

125. L’uomo folle. – Avete sentito di quell’uomo folle che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: “Cerco Dio! Cerco Dio!”. E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa. “È forse perduto?” disse uno. “Si è perduto come un bambino?” fece un altro. “Oppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?” – gridavano e ridevano in una gran confusione. Il folle uomo balzò in mezzo a loro e li trapassò con il suo sguardo: “Dove se n’è andato Dio? – gridò – ve lo voglio dire! Siamo stati noi a ucciderlo: voi ed io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto questo? (Nietzsche, La gaia scienza).
Il 21 novembre, presso il Dipartimento di Scienze Umane e Sociali dell’Università di Bergamo, ho assistito a un intervento di Hamid Salmi e qui vorrei chiosare il suo intervento di etnopsichiatra e psicologo familiare che lavora all’Università di Parigi 8. Poiché Salmi è berbero, rendo omaggio al suo intervento orale per essere fedele allo spirito della sua lingua materna.
Salmi descrive la nascita e lo sviluppo del fondamentalismo islamico e del radicalismo religioso in Europa partendo dalla morte di Dio.
Il migrante povero va in Europa per essere riconosciuto come altro da sé. Perde la propria autoctonia, il legame con la terra. Fanon descrisse questo fenomeno psichico nei termini di maschere bianche che nascondono facce nere. È qui che si perdono le tradizioni, che si lasciano cadere nell’oblio. Si perde il contesto. La lingua materna si decompone, appare improvvisamente stonata, fuori luogo, corrotta. Al suo posto s’installa la lingua europea. Non del tutto sconosciuta, soprattutto il francese, l’inglese, il portoghese. Però la lingua europea qui è diversa, suona in altro modo. Identificarsi, assimilarsi, integrarsi significa imparare la lingua e, quando si conosce, la sua intonazione.
Anche la religione qui è diversa, non solo perché la maggioranza è cristiana. Qui prevale, verso la religione e la tradizione, quell’atteggiamento blasé descritto da Simmel a proposito degli abitanti della metropoli. La pratica, ancorché rara, è comunque svolta nell’indifferenza della modernità. Gli adulti perdono queste radici che definiscono e delimitano il contesto di appartenenza. Appaiono indifferenti rispetto alla tradizione, ma sono smarriti. È noto, capitava ai minatori italiani emigrati in Belgio con le famiglie negli anni del dopoguerra. I terapeuti familiari allora descrivevano il conflitto tra generazioni come un conflitto tra culture: i genitori denunciavano i figli. Potremmo chiamarlo un conflitto tra modi di vedere il mondo, tra ontologie.
Il bambino entra nel mondo attraverso lo sguardo della madre, lo sguardo smarrito presuppone una difesa indifferente, l’indifferenza è già una formazione sintomatica dello smarrimento: davanti all’altro non posso mostrarmi perso, il non-sapere-che-fare si trasforma in neutralità, qualsiasi scelta è priva di senso. Ogni Essere, nella filosofia di Sartre, è fessurato, abitato dal nulla, ogni Essere, nella filosofia di Deleuze, è costitutivamente equivoco. Perciò la madre, come osserva Winnicott, conosce il modo di nutrire la figlia, il figlio, poco a poco, per salvarli dallo smarrimento. Tuttavia di fronte a questo sguardo smarrito della madre, dice Salmi, di fronte a una madre sottomessa, picchiata, insultata, privata della dignità, nasce un bisogno di saturazione totalizzante. Bisogna ingoiare tutto il mondo in un colpo.
Se si trattasse davvero solo di multiculturalismo, si potrebbero prendere facili provvedimenti interculturali, quasi turistici, maccaroni e cus cus. Tuttavia l’intercultura, come sostiene Brandalise, è un sintomo temporaneo, una formazione compromissoria. C’è qualcosa qui che implica non tanto modi divedere il mondo, quanto modi divivere il mondo. La trasmissione della lingua, dice Salmi, non è discorso, è flusso vivente, habitus, maniera di vivere. Come in psicoanalisi: se lo spiego, perde efficacia. I figli di questi genitori smarriti dentro una lingua che non è la loro (“Non ho che una lingua, diceva l’algerino di famiglia ebraica Derrida, e non è la mia”) hanno bisogno di ingoiare discorsi. Ma i discorsi, come ci ha insegnato Foucault, sono rarefatti, soffocano. La rarefazione, i discorsi, la acquisiscono a partire da una sorta di delocalizzazione, i discorsi sono pieni di significato ma privi di contesto.
Così la religione non è più pratica quotidiana. Se il libro dice combatti gli ebrei, combatto gli ebrei, se dice picchia le donne, picchio le donne. Questi figli hanno bisogno di una prospettiva totalizzante e totalitaria, hanno bisogno, dice Salmi, di costruire una cosmogonia. Lo fanno da soli, non dai miti e dai racconti degli anziani, solo dai libri, privi d’interpretazione. Imparano a leggere il Corano come un manuale, il testo perde ogni polisemia, ogni ambivalenza, non ha più un ambiente di riferimento, è un testo universalista, ipermoderno.
Invero il mondo occidentale è una vera palestra per questo tipo di universalismo, non c’è altro da imparare, ormai, nelle università, che non sia manuale da mandare a memoria. Abbiamo imparato che la programmazione (qualsiasi cosa sia la programmazione) va fatta usando linguaggi privi di ambiguità, fatti di corrispondenze bi-univoche, abbiamo imparato che le variabili, per essere misurate, devono essere semplificate e ridotte. Abbiamo costruito un sapere basato sull’evidenza di dati che abbiamo, nel bene o nel male, manipolato. Tuttavia non abbiamo contestualizzato questo sapere e ora confondiamo la tecnica con la scienza. Non ci siamo accorti che, in un mondo in cui la tecnica è scienza, sgozzare una persona può essere solo una questione scientifica, “sangue che cola”, dice Salmi, evocando quanto accaduto giorni fa a Israele. E infine, come nelle migliori tradizioni totalitarie, i figli si vergognano dei genitori davanti al Discorso. Li rimproverano per non essere fondamentalisti, li rimproverano di non sottomettersi alle regole rigide e univoche di un testo reso totalitario. Come accadeva durante il nazismo, secondo Erika Mann, quando, in La scuola dei barbari, racconta come i figli avessero l’incarico di spiare i discorsi democratici e pacifisti dei loro genitori al fine di denunciarli al regime e farli fucilare, è qui che Dio viene di nuovo ucciso, nei festeggiamenti che inneggiano alle stragi di anziani che pregano.
 
http://www.doppiozero.com/rubriche/336/202012/considerazioni-psicoanalitiche-sul-fondamentalismo
 

L’OPULENZA NON È OSCENA NEANCHE A NATALE (VALE ANCHE PER IL CARD. BERTONE) 
di Umberto Silva, ilfoglio.it, 25 dicembre 2014

Il Natale è il regalo che Dio fa a noi tutti, un bambino che nasce in una grotta al freddo e al gelo e appena adolescente sconvolge i dottori del Tempio, instaurando una religione che da duemila anni illumina i credenti e, in controluce, anche i miscredenti. Il dono di Sé che Dio ci fa è incomparabilmente prezioso, ma ben vengano anche cenoni e mercanzie; Dio osserva e sorride. Ecco tutto compunto avanzare un uomo che per l’occasione, stimandosi un mostriciattolo, è corso a travestirsi da un rinomato sarto. Non gli basterà, anzi, sarà la sua rovina. La credenza che un taglio di classe possa elevare chi lo indossa è del tutto allucinatoria, presuntuosa e patetica. Di colui che si affanna a celare la propria presunta bruttezza non si dirà “guarda come è elegante”, ma “guarda come si vergogna”. Non c’è bruttezza, se non quando si cerca di nasconderla. Elegante è colui che nemmeno sa quel che indossa, e sorride stupito quando glielo fanno notare. Elegante chi guardandosi allo specchio vede due pesciolini di De Pisis, odorosi di mare e di morte.
Gesù è nudo nella grotta, vestito dal fiato degli animali. I suoi genitori erano assai sobri; i Re Magi, invece, sfoggiavano con grande naturalezza abiti sfarzosi, e va bene così. Ma se dopo i primi successi gli apostoli si fossero addobbati da fighetti sarebbe stato un disastro. Pochissimi gli uomini capaci di sfoggiare vesti sontuose senza soccombervi. Per conto mio apprezzo le scarpe scalcagnate, i maglioni un po’ spelacchiati, le camice lise con dignità, i calzini bucati, i cappotti del papà, le giacche comprate una trentina d’anni fa. Le sciarpe, che pure mi donano, le dimentico sempre a casa.
L’opulenza è oscena? Dipende, occorre distinguere, leggerne la trama profonda. Il cardinal Bertone si è fatto un munifico regalo ed è sotto il fuoco di molti. Tacciarlo di avidità mi sembra un giudizio sommario, mi è difficile pensare che il Cardinale si esponga al pubblico ludibrio per quattro bagni in stile pompeiano e un corridoio su cui pattinare. Credo che si tratti piuttosto di un gesto teologico, l’eterna sfida dell’iconodulia al pauperismo, Versailles contro Port-Royal, di cui priore non è più il disarmato Saint-Cyran ma il potente Papa Francesco. Le parti si sono invertite, debole ora è il gran Cardinale, che tuttavia non si arrende. “Com’è possibile che il Cardinal Bertone abbia il coraggio di fottersene di tutti?”, scandalizzato si chiede Don Mazzi, regalandogli il più alto degli elogi.
Quanto alle donne, sono libere di vestirsi di quel che vogliono, dispensate in fatto di moda da ogni moralità. La loro fanciullesca felicità riscatta la dubbia bellezza delle cose che comprano; starsene in poltrona per vederle cambiarsi d’abito è pur sempre una delizia, qualsiasi cosa indossino. Vale la loro istessa querida presencia, la entrenable transparencia, il passo incerto o ardito con cui appaiono dal camerino, il gesto rabbioso che strappa di dosso quel che un attimo prima era un idolo, vale tutto in una donna, al pari di Cristo regalo preziosissimo in su misma esencia, e nessun diavolo vestibolario può sfregiarne l’innata elegancia.
Ma perché all’improvviso mi sono messo a scrivere in spagnolo?
 
http://www.ilfoglio.it/articoli/v/124082/rubriche/natale-cardinal-bertone-opulenza-non-oscena.htm
 

USATE (TUTTO) IL CERVELLO. IL RITORNO DELL’IPNOSI. Diverse le applicazioni: dal miglioramento della qualità del sonno alla sconfitta delle fobie Lo sport Lo psicoterapeuta: lavoriamo sugli atleti per amplificare le loro capacità 
di Luisa Pronzato, corriere.it, 27 dicembre 2014

Un cavallo che raglia e una torta volante. Disubbidiente pure in trance. No, dice poi l’ipnotista: «Tu stemperi le difficoltà con la leggerezza». «Sei calma e tranquilla…», ripete la sua voce nei primi minuti della mia seduta. Idee e urgenze si aggrovigliano. Quel «calma e tranquilla» fa a botte con la mia nevrosi. Vorrei ridere, non lo faccio. «Percepisci ogni sensazione ed emozione», dice ancora la voce. E il respiro diventa punto di concentrazione. Nei primi minuti con riluttanza.Via via che l’induzione alla trance prosegue, aspetto la successiva indicazione. Quasi subito prende nitidezza l’immagine mentale del mio antico fallimento. Due anni fa avevo deciso di iniziare a scrivere un romanzo. Senza riuscirci, paralizzata dall’ansia della perfezione. Uno stato d’animo che spesso blocca me e non solo. Rivedo quei fogli, rivedo le sottolineature arancioni sui focus e marroni sugli snodi. Mi vedo. Sento il battito veloce, la mandibola irrigidita. La sensazione è fisica: proprio quella di allora. Ed è a questo punto che arriva il cavallo “ragliante”. L’ipnotista tamburella sulle mie ginocchia e con la voce mi accompagna a ridimensionare l’ansia per proseguire il viaggio interiore. Nessun colpo di scena. Nessun ordine che mi abbia fatto cascare lessa.
 
Per continuare:
http://www.corriere.it/cultura/14_dicembre_27/usate-tutto-cervello-ritorno-dell-ipnosi-ecaef03a-8d8e-11e4-8076-7a871cc03684.shtml

QUANDO FREUD E DIO PARLANO DEL MONDO. L’improbabile incontro nel “Visitatore”. Perfetti nei ruoli Alessio Boni e Alessandro Haber 
di Masolino D’Amico, lastampa.it, 27 dicembre 2014

Vienna 1938. Benché vessato dai nazisti che si sono annessi l’Austria, il vecchio Sigmund Freud non vuole cedere loro riparando all’estero, convinto di essere protetto dalla sua fama internazionale; e non vuole fruire di privilegi negati ai suoi compatrioti di etnia ebraica. Ma così facendo, e ignorando sia le esortazioni di sua figlia Anna sia la tracotanza dell’ufficiale che lo ha preso di mira, scherza col fuoco. Ad aprirgli gli occhi è un misterioso giovane che gli piomba in casa come fosse un fuggiasco dalla polizia e che prima lo impegna in una discussione parafilosofica, poi gli dà impressionanti manifestazioni della propria preveggenza, infine lo convince ad approfittare del momento e a partire con Anna per Londra. Chi è costui? Secondo Eric-Emmanuel Schmitt, autore de Il visitatore, nientemeno che Dio: Dio che per rivelarsi all’illustre positivista ha assunto un’altra volta una personalità umana, di un bel giovane attore, giacché c’era; e adesso il comprensibile sgomento suscitato nel suo interlocutore lo diverte.
Trovate questa situazione un po’ difficile da mandar giù? Io, francamente, sì. Ma da cronista mi corre l’obbligo di riferire che gli spettatori invece sembrano accettarla senza la minima esitazione; e da critico, quello di domandarmi come ciò sia possibile. Il fascino degli interrogativi suscitati nel dialogo è dubbio, gli argomenti sono banalotti e trattati in modo superficiale; a un certo punto Freud arriva banalmente a chiedere a Dio, per convincersi, di fargli un miracolo. Però teatralmente la tensione della situazione prende, la minaccia del nazista è inquietante, e così la reazione dell’appassionata Anna Freud. Più di tutto però è notevole la squisita esecuzione diretta da Valerio Binasco in una semplice, plausibile scenografia di Carlo De Marino, con tempi impeccabili (sono 100’ filati) e eccellenti prestazioni dei comprimari Nicoletta Robello Bracciforti e Alessandro Tedeschi, così come dei principali: un Alessio Boni adeguatamente sornione come Dio, e soprattutto un Alessandro Haber impagabile negli smarrimenti del suo psicologo. 

http://www.lastampa.it/2014/12/27/spettacoli/quando-freud-e-dio-parlano-del-mondo-K2y5fKj5acjsfjZ3IUMQzN/premium.html;jsessionid=9ECF33892142382A12FFCC7133696DB2

IPNOSI, IL RITORNO: LE TECNICHE E GLI OBIETTIVI DELLE SEDUTE DI TRANCE 
di Redazione, liberoquotidiano.it, 27 dicembre 2014 

Nata nel 1700 e portata sull’altare della psicologia da Sigmund Freud, in questi ultimi tempi sta riacquistando valore, negli studi degli psicoterapeuti, la tecnica dell’ipnosi. Come scrive il Corriere della Sera, l’ipnosi non è mai stata accantonata, nonostante sia stata rinnegata da Freud: “Ma poi continuò ad usarla, negandolo per ragioni di marketing”, afferma Felice Perussia, docente di Psicotecniche all’università di Torino. Come scriveva Milton Erickson agli inizi del Novecento, “nello stato di trance puoi lasciare che la tua mente inconscia passi in rassegna il vasto deposito di cose che hai appreso nel corso della tua vita: molte cose imparate senza saperlo, molte conoscenze che non ritenevi importanti a livello conscio, sono scivolate nell’inconscio”. E l’obiettivo odierno dell’ipnosi è molto vicino a questo: lavorare sulle proprie parti migliori. Lo psicoterapeutaGiuseppe Vercelli dice che l’ipnosi “è uno stato di coscienza amplificato”.
La tecnica – Lo stesso psicoterapeuta porta l’esempio delle Olimpiadi di Pechino, a cui Vercelli ha partecipato come psicologo del Coni. “Un atleta può amplificare qualsiasi cosa sappia fare bene: i canoisti italiani temevano di perdere resistenza. In trance abbiamo trasformato la fatica in energia supplementare. E’ lo stimolo fisico a tirarla fuori. Alcuni secondi. Quelli che servono: in trance si riporta il focus su di sé. Nel lavoro con l’ipnotista si scelgono impercettibili gesti rituali, si sviluppano in studio, e si attivano quando si vuole”. Felice Perussia esprime più direttamente lo stesso concetto: “L’ipnotista è un allenatore che accompagna ad attingere alle proprie capacità: l’ipnosi è metrica”.
Le applicazioni – Un ritmo monotonale che induce dalla veglia alla trance, con parole chiave che si ripetono con una certa ridondanza: per esempio, un “Sei calma e tranquilla… Percepisci ogni sensazione ed emozione”. In quei momenti, il respiro diventa punto di concentrazione, finché prosegue l’induzione alla trance, e prendono corpo le immagini mentali del paziente. Quello dell’ipnosi è un lungo viaggio interiore: i test della trance sono il tempo e l’allucinazione, mentre la credibilità scientifica è arrivata con le tecniche di neuroimaging che rilevano e misurano il funzionamento anatomico e fisiologico dell’inconscio. Le applicazioni sono diverse: si può scegliere l’ipnosi per affrontare fobie o lutti, per recuperare sonno (pochi minuti di trance valgono ore di sonno) o per un obiettivo di crescita personale.
http://www.liberoquotidiano.it/news/scienze—tech/11736860/Ipnosi–il-ritorno–le.html
 
I VOLTI DEI SENZATETTO, RITRATTI DALLO PSICOLOGO. Stuart Perlman, psicologo, ha ritratto su tele a olio gli homeless di Los Angeles, per raccontare la loro storia attraverso i loro sguardi. Perché «siamo tutti a un passo dal finire per strada»
di Monica Coviello, vanityfair.it, 27 dicembre 2014
«Guardate i loro volti. Non vi viene voglia di sapere qualcosa di più su di loro?» E’ con questa idea, quella di sensibilizzare più persone possibili, che Stuart Perlman ritrae i senzatetto. Lui è uno psicanalista e psicologo che, dopo una carriera trentennale fatta di colloqui e parole, e dopo la morte del padre, che lo ha segnato, ha deciso di provare a raccontare il disagio di chi non ha un posto per vivere attraverso l’arte, le sue tele a olio
Finora ha realizzato 135 quadri, per testimoniare le conseguenze di una vita vissuta per la strada, lungo Venice Beach, a Los Angeles, senza riferimenti, e ogni dipinto è accompagnato dalla storia chi è stato ritratto. Questo progetto si chiama «Facing homelessness». 
«Io credo davvero – dice Perlman – che chi si fermerà a osservare quei volti con attenzione e ascolterà le loro storie, le loro speranze e il loro dolore, non riuscirà mai più a guardare gli homeless nello stesso modo».  E ancora: «Siamo tutti a un passo dal finire per strada». Fra i protagonisti dei quadri, ci sono tante persone di talento: dottori di ricerca, agenti di borsa, architetti. Tutti con qualche esperienza terribile alle spalle. Perlman ha deciso di voler fare qualcosa per loro, perché la gente è sempre meno disposta a comprendere le ragioni dei senzatetto e sempre più pronta a incolparli per la situazione in cui si trovano. 
Per coinvolgere i senzatetto e incoraggiarli a fare parte del progetto, Perlman ha dovuto guadagnarsi la loro fiducia: mentre chiedeva la disponibilità degli homeless, lo psicologo distribuiva denaro (circa 20 dollari ciascuno), cibo, medicine. «Se sono d’accordo a partecipare, io di solito li ritraggo nel posto in cui trascorrono la loro giornata. Durante le sessioni di pittura, sono stato testimone di traffici di droga e di accoltellamenti, di disperazione, malattie e povertà. Alcuni senzatetto sono diventati dei miei buoni amici. Le loro vite sono strazianti, mi spezzano il cuore».
Per far conoscere la realtà della strada, Perlman organizza mostre in cui espone i suoi ritratti. Nei locali pubblici, nei cinema. «Molte di queste persone si sentono maltrattate, invisibili e umiliate. Le stiamo allontanando sempre di più».
Per le immagini:
http://www.vanityfair.it/news/societ%C3%A0/14/12/27/ritratti-homeless-dello-psicologo
 

ALLA FINE DI REMBRANDT 
di Alvar González-Palacios, ilsole24ore.com, 28 dicembre 2014
Rembrandt è un artista che si intende meglio nella vecchiaia. Almeno così è accaduto a me, incapace di apprezzarlo fino a tempi recenti. La sua non è una visione gaia della vita: può essere qualche volta comico, raramente ironico e, a mio modo di vedere, mai solare, mai pagano. La natura che ritrae con grande profondità non è invitante: rispecchia un mondo nordico con un solicino che riscalda poco. C’è più ombra che luce nei suoi quadri ed è forse per questo che la sua luce diventa spesso accecante. Occasionalmente risulta sensuale ma osserva il corpo di una donna con quella indifferenza (no, non è la parola giusta, meglio sarebbe dire distacco, imbarazzo) con cui guarda un cadavere (come fa in un suo quadro in cui un medico apre la testa di un povero morto per osservarne il cervello). È un senso tragico della vita anche se in certe occasioni intuisci il tepore di un abbraccio o la sensualità delle gambe nude: quando questa tensione è estrema, come nella Danae dell’Ermitage, il desiderio invade ogni cosa, irresistibile. Con i canoni d’oggi è anche difficile capire la vampa erotica che l’artista dovette provare davanti ad una donna accanto ad una stufa: è nuda, grassa, col seno cadente e la pancia prorompente che le copre il sesso. Ma a lui piaceva, molto, è ovvio. Si può capire e amare ciò che non ci è congeniale? Forse da vecchi, come dicevo prima, quando ci si allontana dalle passioni con poca nostalgia e quasi senza partecipazione.
Per continuare:
http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2014-12-28/alla-fine-rembrandt-081717.shtml?uuid=AB9HwEWC
 

SITI “QUEL DIO CHE DANTE NON PUÒ DESCRIVERE” 
Nei versi finali del Paradiso si compie l’obiettivo che il poeta porta con sé durante tutto il viaggio ultraterreno. Ma è difficile raccontare quel che vede perché la sua potenza immaginativa e rappresentativa si è annullata nell’istante stesso in cui si realizzava il proprio fine 
di Walter Siti, la Repubblica, 28 dicembre 2014

Stavolta non si tratta di una lirica autonoma: sono i 31 versi finali dell’ultimo canto del Paradiso. Qui giunge al termine, e al culmine, un’opera che Dante si portava dietro aa una ventina d’anni — e qui il viaggio ultraterreno tocca il suo obiettivo, la visione di Dio. E dall’inizio del canto, e anche da prima, che Dante sta lottando (lui che ha sofferto di malattie oftalmiche e per questo si è raccomandato a Santa Lucia) con la propria acutezza visiva: le preghiere dei beati e l’intercessione di Beatrice gli danno la Grazia necessaria per ficcare sempre più gli occhi nei misteri dell’essenza divina, per successive approssimazioni. Già ha visto, nei versi precedenti, come in Dio sia racchiuso e compresso l’universo, «legato con amore in un volume»; le categorie di spazio e tempo sono saltate e lui continua a scusarsi dell’impotenza espressiva («riesco a raccontare quel che ho visto, e inteso, in percentuale così minima che dire “poco” non rende l’idea»).
Ora vede altre due cose che rappresentano incomprensibili dogmi della religione: la Trinità e le due nature di Cristo. Gli appaiono tre cerchi sovrapposti, con stesso centro e stesso raggio, ma che, ciò nonostante, si distinguono l’uno dall’altro: il secondo sembra un riflesso del primo e il terzo (lo Spirito Santo) si riflette come un fuoco su entrambi. Il secondo poi (quello “riflesso”), dà l’impressione di aver dipinta dentro una figura nel medesimo colore dello sfondo — ulteriore impossibilità fisica che però si impone all’intelletto e allo sguardo. Il secondo cerchio rappresenta il Figlio ed è l’umanità di Cristo quella che si disegna, visibile-invisibile, nella divinità del cerchio. Dante si sforza di capire come l’immagine si stagli sullo sfondo ad essa omogeneo e fa lo stesso sforzo degli studiosi di geometria quando cercano di venire a capo della quadratura del circolo; ma la sua mente non arriva a tanto — senonché proprio in quel momento viene colpito da una folgorazione in cui la comprensione assoluta si realizza. Dante ha capito i dogmi, ha capito Dio; ma non riesce a raccontarlo perché la sua potenza immaginativa e rappresentativa (la “fantasia”) si è annullata nell’istante stesso in cui realizzava il proprio fine.
Si è discusso a lungo se il viaggio della Commedia sia da intendere come finzione poetica o come effettiva visione mistica dell’aldilà; insomma se Dante credesse davvero di aver “visto” ciò che racconta. Io sono tra chi ritiene che la Commedia sia una “visione in sonno” e che Dante fosse convinto della portata profetica del suo racconto; soffriva periodicamente di crisi epilettiche e fin dal tempo della Vita nova aveva interpretato queste crisi come segno di predestinazione, che il suo corpo fosse un recipiente adatto a illuminazioni trans-sensoriali. Nella sua epoca le visioni venivano prese sul serio, se ne distinguevano varie specie e nessuno metteva in dubbio che fossero un veicolo per la verità (una volta escluse le loro contraffazioni diaboliche). Inoltre la “visio” era un genere letterario diffuso, un collaudato contenitore narrativo. Dante è «pien di sonno» quando entra nella selva oscura e qui in paradiso, nel penultimo canto, San Bernardo lo incita ad affrettarsi perché il tempo del sonno sta per finire.
Nella lunga durata del poema questo assunto talvolta si perde. Dante stesso un po’ se lo dimentica e il viaggio diventa, sul modello dei classici latini, epico e fantastico; ma nel finale l’esperienza mistica risorge potente. Anzi, accade qualcosa di straordinario e inedito: l’esperienza è talmente viva che impegna non solo il Dante “addormentato” ma lui tutto intero nello spingere all’estremo le proprie umane possibilità — qui supera le “visioni” intese come genere letterario e per forza di introspezione arriva a intuire i meccanismi onirici come li intendiamo noi.
Il pi-greco della quadratura del circolo è un numero irrazionale che ha rapporto con l’infinito; la distinzione dei cerchi sovrapposti sarebbe comprensibile solo in uno spazio multi-dimensionale; l’acume visivo può coincidere col torpore patologico solo in una logica che superi il principio di non-contraddizione: tutte caratteristiche che la moderna psicanalisi ha riconosciuto come proprie dell’inconscio. Dante insomma, per genio di coerenza poetica, ha reso realistico e autobiografico il “sonno” della tradizione.
Per descrivere l’indescrivibile mette a frutto quello che sa: il linguaggio della filosofia scolastica (la “sussistenza” cioè l’esistenza di un ente senza bisogno di altri enti, il “velie” cioè la volontà), le conoscenze di geometria, le occasioni personali (la nave Argo vista dal basso, di cui si parla in un paragone pochi versi prima dei nostri, ha la stessa forma delle “mandorle” degli affreschi che aveva visto a Roma durante il Giubileo) ; inventa perfino un verbo che non esiste (“indovarsi” nel senso di “situarsi”); niente di questo basta — entrare nel meccanismo rotatorio dell’Assoluto significa esaurire se stessi (Dante morirà poco dopo ) e insieme aver realizzato un’opera che hai’ analogo ritmo ternario di quel meccanismo (la parola “stelle” che conclude ogni cantica); un libro che può gareggiare con quello riassunto in Dio.
 
DANTE ALIGHIERI, PARADISO XXXIII, VV.115-145/1321
Ne la profonda e chiara sussistenza
de l’alto lume parvermi tre giri
di tre colori e d’una contenenza;
e l’un da l’altro come iri da iri
parea reflesso, e ‘l terzo parea foco
che quinci e quindi igualmente si spiri.
Oh quanto è corto il dire e come fioco
al mio concetto ! e questo, a quel ch’i’ vidi,
è tanto, che non basta a dicer “poco”.
O luce etterna che sola in te sidi,
sola t’intendi, e da te intelletta
e intendente te ami e arridi !
Quella circulazion che sì concetta
pareva in te come lume reflesso,
da li occhi miei alquanto circumspetta,
dentro da sé, del suo colore stesso,
mi parve pinta de la nostra effige:
per che ‘l mio viso in lei tutto era messo.
Qual è ‘l geomètra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond’elli indige,
tal ero io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
l’imago al cerchio e come vi s’indova;
ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne.
A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva ‘l mio disio e ‘l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,
l’amor che move il sole e l’altre stelle.
http://rassegnastampapagineculturali.wordpress.com/2014/12/28/walter-siti-quel-dio-che-dante-non-puo-descrivere/#more-16692
 

LA VITA DI FREUD. L’INCONSCIO IN CERCA DI UNA BIOGRAFIA 
di Massimo Ammaniti, repubblica.it, 29 dicembre 2014

Leggendo il titolo del libro Becoming Freud (Diventando Freud; Yale University Press) del famoso psicoanalista inglese Adam Phillips ci si potrebbe aspettare una nuova biografia di Freud, sul suo periodo giovanile quando giunse a scoprire il mondo dell’inconscio. Ma questa aspettativa viene deliberatamente violata da Phillips che alla ricostruzione biografica preferisce un linguaggio suggestivo e ricco di immagini sul pensiero freudiano che sfida le nostre convinzioni, riproponendo in un altro contesto le violazioni dell’inconscio per le regole della ragione. Anche Freud, è Phillips a sostenerlo, era piuttosto dubbioso sul valore delle biografie e la sua stessa “Autobiografia” più che ripercorrere il suo cammino personale e professionale è un'”autoesposizione” come indicherebbe il titolo in tedesco del suo scritto.
Per continuare:
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2014/12/29/la-vita-di-freud-linconscio-in-cerca-di-una-biografia34.html?ref=search
 
Audio

BIANCO E NERO. I DIECI COMANDAMENTI SECONDO VITIELLO E RECALCATI 
da radio1.rai.it, 29 dicembre 2014

I 10 comandamenti: hanno più di tremila anni ma ancora milioni di persone li seguono. Per alcuni sono le più grandi leggi della storia, per altri non sono più attuali e rischiano di non rappresentare più un valore al passo coi tempi. Cosa ne pensate? Le contrapposte opinioni degli ospiti di “Bianco e Nero”: Salvatore Vitiello e Massimo Recalcati.
 
Vai al link:
http://www.radio1.rai.it/dl/portaleRadio/media/ContentItem-27573afc-67e8-4089-a585-cdb89706cfe9.html#
 
I più recenti pezzi apparsi sui quotidiani di Massimo Recalcati e Sarantis Thanopulos sono disponibili su questo sito rispettivamente a questi link:
http://www.psychiatryonline.it/rubrica/4545
http://www.psychiatryonline.it/rubrica/4788 

(Fonte: http://rassegnaflp.wordpress.com

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