UN AUTORE TRA LETTERATURA E PSICOANALISI: GIORGIO MANGANELLI
di Vincenzo Carboni, ilquorum.it, 21 dicembre 2015
Pietro Citati in “Riga” rammenta quegli anni, in cui Manganelli riesce a porre un affannato argine alle proprie angosce, trasformandole e dominandole tramite la scrittura: «Mi raccontò la sua storia. Sull’orlo della disperazione, senza speranza di vivere né di morire, aveva conosciuto Ernst Bernhard, il quale l’aveva aiutato ad attraversare le ombre dell’inconscio. Per qualche anno, aveva vissuto con loro, discorrendo soltanto di loro e con loro. Tutte le forme della sua mente erano state suscitate dal sonno in cui giacevano abbandonate e oppresse: l’analisi aveva risvegliato, in lui, lo scrittore nascosto; la letteratura l’aveva salvato dalla disperazione».
Lo scrittore raccoglie in un volume – ‘Il vescovo e il ciarlatano’ – alcuni scritti aventi per oggetto l’inconscio, in cui manifesta una concezione della psicanalisi al di fuori di ogni illusorio entusiasmo. Del resto quando Manganelli parla di depressione cerca di farne una cifra retorica, ma dietro di questa se ne sente il palpitare terribile di chi non può che metterla continuamente in parola, pena lo sprofondare nell’abisso. La psicoanalisi in ‘La penombra mentale’, viene detta come un invito ad uno spostamento anamorfico, cioè a vedere il proprio sintomo da una diversa posizione indotta dalla cura, al di fuori di ogni illusoria garanzia di guarigione, perché la vita presa di petto – da una posizione cioè frontale – è insopportabile.
Per distinguere qualcosa bisogna spostarsi, e il setting psicanalitico può fornire una posizione di osservazione decentrata. Questo spostamento è il sollievo che può dare la psicanalisi, ben sapendo che si tratta di passare da angiporto ad angiporto, cioè ad una diversa posizione dello stesso labirinto. «Da un labirinto si esce solo per trapassare ad un altro labirinto – scrive -; ci si sveste di una morte che ci si è fatta estranea, e si lavora a tesserne un’altra che sola ci appartenga».
Segue qui:
http://www.ilquorum.it/un-autore-tra-letteratura-e-psicoanalisi-giorgio-manganelli/
PAPA CARLOTTA
di Umberto Silva, ilfoglio.it, 23 dicembre 2015
Segue qui:
http://www.ilfoglio.it/la-politica-sul-lettino/2015/12/23/papa-carlotta___1-vr-136347-rubriche_c402.htm
LICIO GELLI. EVERSIONE E PERVERSIONE. Lo Stato Italiano ha sempre ‘trattato’ con i mondi fuori legge nell’opera di edificazione pima e mantenimento poi di uno status quo democraticamente regolato
di Maurizio Montanari, 23 dicembre 2015
Segue qui:
http://www.lettera43.it/blog/la-stanza-101-lo-sguardo-di-uno-psicoanalista-sul-contemporaneo/licio-gelli-eversione-e-perversione_43675228166.htm
REGAZZONI: “L’AMORE? CI CHIEDE DI SAPER VIVERE ALLA FINE DEL MONDO”. Parla il filosofo, allievo di Jacques Derrida, che al tema dell’amore ha dedicato il suo romanzo, Abyss, ma anche un saggio in uscita l’estate prossima
di Cinzia Ficco, unita.tv, 25 dicembre 2015
Simone, perché ti interessa tanto parlare di amore? E cosa intendi per amore?
In realtà Abyss è un romanzo d’avventura che ha per protagonista un giovane professore di filosofia ma, aggiungo, inevitabilmente, parla d’amore. Dico inevitabilmente perché c’è un rapporto essenziale tra avventura e amore. Di recente il filosofo Giorgio Agamben, nel suo bellissimo libretto: “L’avventura”, ha scritto: “Solo una vita che ha la forma dell’avventura può incontrare veramente l’amore”.
Cosa vuole dire?
Solo chi ha il coraggio di “avventurarsi”, vale a dire di esporsi all’evento, a ciò che accade, all’incontro non previsto, fortuito, può andare incontro all’amore. L’amore è questo: una passione impossibile che non è in nostro potere, che non dipende da noi e dal nostro volere di soggetti, ma che ci accade. Ho affrontato la questione attraverso il mio primo romanzo, e lo farò ancora di più nel secondo romanzo, che uscirà entro l’estate, L’origine del male(Longanesi). Ma sto preparando anche un saggio: La necessità dell’amore.
E’ un tema abusato. Cosa ci dirai di originale?
Sì, è abusato. Penso abbia ragione Lacan quando dice “L’amore è da molto tempo che se ne parla. C’è bisogno di sottolineare che sta al cuore del discorso filosofico?”. Per chi fa filosofia c’è una necessità dell’amore. Non si pensa davvero al di fuori di una certa dimensione erotica che ci ossessiona: scriviamo sempre piccoli o grandi discorsi amorosi, e quando parliamo in pubblico, in fondo, siamo sempre lì a sedurre con la voce, il corpo, le idee. Inoltre, esplicito o meno, c’è sempre un “tu” – o più d’uno – dietro un pensiero: sto già sempre parlando a te, scrivendo per te, che tu lo sappia o meno. C’è poi una dimensione esistenziale.
Cosa vuoi dire?
Per me l’amore conta, ha sempre contato. E penso che vada difeso in un’epoca in cui i soggetti sembrano preferire altre forme di rapporto meno pericolose. L’amore, la passione amorosa, è il solo modo che abbiamo per uscire da noi stessi, dal nostro io per andare davvero incontro all’Altro nella sua soggettività. Solo nell’amore il soggetto esce da sé per entrare in rapporto con l’Altro. Questo per me non avviene nell’etica, né in altro modo. L’amore è la passione che ci espone al rischio dell’Altro nella totalità del suo essere soggetto. Amarsi non significa in alcun modo volersi bene: vuole dire in primo luogo mettersi a repentaglio. Per questo l’amore è sempre un rischio avventuroso. In questo senso è un’esperienza estrema, pericolosa, che ci espone a ferite, dolore, frustrazione, ma in cui si sperimenta un’intensità inaudita di “esistenza”, se “ex-sistere” significa “essere fuori da”.
Necessità dell’amore: questo sarà il titolo. Ma sembra una contraddizione, un ossimoro.
L’amore è pura contingenza dell’incontro, ma ci è necessario perché solo nell’esperienza amorosa come incontro con l’Altro “e-sistiamo”. Inoltre nell’Amore, nel “ti amo”, perché non c’è amore senza linguaggio e dichiarazioni d’amore, la contingenza dell’incontro diventa la necessità dell’essere-con-l’altro. E’ un ossimoro, vale a dire in greco “un’acuta follia”, ma l’amore non ha la dimensione del calcolo e del raziocinio, vale a dire del “logos”.
Ma come ama un filosofo? Qualche tempo sulla tua bacheca facebook hai commentato un pezzo dedicato a Soren Kirkegaard. Il filosofo danese ha rinunciato alla sua donna, Regine, perché pensava di sublimare, rendere eterno il loro amore. Per lui l’amore, evidentemente, doveva essere tormento. Senza l’abbraccio dei corpi.
Credo che l’amore sia singolarità, quindi difficile dire come ama un filosofo. So come amo io. Quello che posso dire è che un filosofo può sempre essere tentato di sublimare l’amore in una dimensione intellettuale, trasformando alla fine “eros” in “philia”, in amicizia. Io sono contrario a questa dimensione sublimata dell’amore in amicizia. In filosofia come in amore.
Perché?
Credo nell’importanza del linguaggio, della dichiarazione in amore, della scrittura amorosa, ma senza la dimensione del corpo, non c’è amore degno di questo nome. Nessun amore degno di questo nome può accettare il compromesso dell’amicizia, vale a dire dell’assenza del corpo, dei baci, dello spogliarsi, del desiderio, del sesso. Al limite, in una dimensione estrema ma rivelatrice, l’amore può avvenire attraverso il corpo di altri: come accade a Bess nelle Onde del destino. In questo senso l’amore resta sempre qualcosa da fare.
Regine si è accontentata di sapere che è stata l’ispiratrice del pensiero filosofico del suo amato. Secondo te alla fine, dietro il tentativo di sublimare l’amore, per KirKegaard, come per tanti altri che rinunciano alla fisicità, ci sono: immaturità, egoismo, incapacità di scontrarsi con la realtà? Quello di KirKegaard, forse, è stato il gioco di un seduttore, che ha intrappolato pure lui.
Concordo. Alla fine si è sottratto all’avventura dell’amore, ne ha avuto paura, non è stato degno di ciò che gli è accaduto. Ha voluto rassicurarsi: proteggersi e proteggere l’Altro. L’amore è sempre una prova: si può sempre essere tentati di ripiegare su qualcosa di meno rischioso, più sicuro, più facile da vivere e da sopportare. Si può sempre preferire vivere felici, che esporsi al rischio dell’e-sistenza amorosa. Che può produrre immensa gioia, altra cosa dalla felicità (che è uno stato di equilibrio), ma anche profonda disperazione. Anche perché, se ogni amore è la nascita di un mondo, su questo mondo, fin dall’inizio, benché taciuta, c’è la minaccia della catastrofe. E ogni “ti amo” ripetuto è sempre anche un esorcismo contro la fine del mondo. In fondo lo spazio degli amanti è la fine del mondo, e ci si ama sempre – vale a dire ci si incontra davvero – solo alla fine del mondo. Per questo ogni amore è una catastrofe che ambisce a essere perfetta. E ogni “ti amo” che sottintende “per sempre” va inteso come “fino alla fine del mondo”, nella consapevolezza tragica che quella fine arriverà non come un accidente, ma come uno degli elementi costitutivi dell’amore. Ogni amore è l’inizio e la fine del mondo. In questo senso ogni storia d’amore, degna di questo nome, è come quella tra Robert e Francesca ne I Ponti di Madison County.
Segue qui:
http://www.unita.tv/interviste/regazzoni-lamore-ci-chiede-di-saper-vivere-alla-fine-del-mondo/
KRISTEVA-SOLLERS, L’ARTE DEL MATRIMONIO DI DUE EX-SESSANTOTTINI. Kristeva-Sollers: tre interviste a due voci, Donzelli. «Il matrimonio può essere salvaguardato se non ci si stanca mai di costruire la differenza…»
di Riccardo De Gennaro, ilmanifesto.info, 27 dicembre 2015
Un matrimonio, dicono lo scrittore-filosofo e la scrittrice-psicanalista, può essere salvaguardato soltanto se non ci si stanca di «costruire la differenza», fino a rischiare l’estraneità del partner. «La differenza tra un uomo e una donna è irriducibile, non è possibile nessuna fusione. Si tratta di amare una contraddizione, qui è il bello», sostiene Sollers, che si richiama a Hölderlin: «Come discordie di amanti sono le dissonanze del mondo. Conciliazione sta in mezzo al contrasto e tutto ciò che è stato diviso si ritrova». Dissonanza, ad esempio, è la tensione tra fedeltà e infedeltà, la prima riconducibile al bisogno di complicità e costanza, come sottolinea Kristeva, la seconda alla necessità del desiderio.
Formatasi nella fase sessantottina, la coppia Kristeva-Sollers è indubbiamente segnata dall’enfasi sulla libertà sessuale, ma non ama una definizione di moda a quei tempi, la coppia aperta. Sollers non condivide il «dirsi tutto», la trasparenza assoluta, che viceversa apparteneva a Sartre e Simone de Beauvoir in anni in cui l’infedeltà non era quasi considerata tale. «Io sono per il segreto», dichiara il fondatore di «Tel Quel». E forse è anche per la fedeltà, se fedeltà vuol dire «una sorta di infanzia condivisa, una forma di innocenza».
Segue qui:
http://ilmanifesto.info/kristeva-sollers-larte-del-matrimonio-di-due-ex-sessantottini/
LA MADRE RUBATA. Appelli, ripensamenti e contrappelli: riparte il dibattito sull’utero in affitto. Sullo sfondo lo spettro della cancellazione di un ruolo
di Nicoletta Tiliacos, ilfoglio.it, 26 dicembre 2015
Andrebbe spiegato, non solo alla Maraini, che la maternità surrogata (o utero in affitto) è già vietata e sanzionata per legge, non solo in Italia ma in quasi tutta l’Europa, comprese la Francia e la Spagna dei matrimoni gay. Giovedì scorso, a conferma di questo orientamento generale, il Parlamento europeo ha votato a larga maggioranza un documento in cui “condanna la pratica della maternità surrogata, che mina la dignità umana della donna, visto che il suo corpo e le sue funzioni riproduttive sono usate come una merce” e “considera che la pratica della maternità surrogata, che implica lo sfruttamento riproduttivo e l’uso del corpo umano per profitti finanziari o di altro tipo, in particolare il caso delle donne vulnerabili nei paesi in via di sviluppo, debba esser vietato e trattato come questione di urgenza negli strumenti per i diritti umani”.
A quel divieto appena ribadito, in Europa fanno eccezione la Gran Bretagna, la cui legge è pero così restrittiva da funzionare meglio di un divieto (la madre “portatrice”, che può essere solo una parente o un’amica della coppia committente e che non deve ricevere denaro in nessuna forma, nemmeno in quella mascherata da rimborso spese, ha sei mesi di tempo per decidere di tenersi il bambino) e la Grecia. Divieti più o meno modulati sono attivi anche in altri paesi, mentre Australia, Canada e soprattutto Stati Uniti, India e vari paesi del blocco ex sovietico – come l’Ucraina – sono i più permissivi, nel senso che tutto o quasi è consentito e affidato alla contrattazione tra le parti.
Se ora si discute – e ci si divide – tanto attorno all’utero in affitto anche in Italia e anche in casa femminista, è perché la faccenda è diventata di attualità come corollario (inevitabile, secondo alcuni, pretestuoso e inconsistente, secondo altri) della normativa sulle unioni civili attualmente in discussione in Parlamento, prima firmataria Monica Cirinnà del Pd. L’istituto, previsto dal disegno di legge, della stepchild adoption, grazie alla quale diventerebbe possibile l’adozione del figlio naturale del partner dello stesso sesso, nasconderebbe in realtà l’avallo dell’utero in affitto per le coppie di uomini, che non hanno altro modo di ottenere un figlio se non quello di usare, dove è consentito, una madre surrogata. Un’obiezione buona solo ad affossare le unioni civili, replicano coloro che si oppongono a qualsiasi stralcio della stepchild adoption dal testo di legge. Quell’istituto avrebbe solo il senso di “tutelare le famiglie di fatto” e soprattutto i bambini che già vivono con coppie dello stesso sesso. Lo sostengono in un contrappello la sociologa Chiara Saraceno, l’economista Daniela Del Boca e alcuni comitati locali di Se non ora quando, soprattutto del Piemonte e del Trentino. Siamo contrarie alle pratiche mercantili, precisa la Saraceno sulla Stampa, “ma la solidarietà esiste”, e allora si potrebbe normare ma non proibire del tutto, ché tanto chi vuole troverà sempre il modo di rivolgersi ai paesi dove la pratica è ammessa.
L’argomentazione è delle più classiche e rischia di essere perfino seducente. Se non fosse che allora – sempre di contratto tra adulti consenzienti si tratta – bisogna capire come mai non è consentito a nessuno vendere un rene, e come mai a nessuna donna è permesso vendere il proprio neonato, cose che invece continuano ad accadere – illegalmente – in paesi lontani, senza che nessuno, o quasi, pensi di normarle. Il fatto è che nel mercato del biolavoro globale indirizzato alla procreazione, passare per i corpi di donna (fornitori di ovociti e fornitori di utero) è inevitabile. Quello che si può fare, visto che la tecnica lo consente, è declassare la gravidanza a “servizio gestazionale”. Anche ben pagato, come in America o in Canada, o a prezzi stracciati, come nelle fattorie procreative indiane o nelle cliniche russe o ucraine. Ma dietro il profluvio di parole, spiegazioni, distinguo e inni alla solidarietà, e perfino dietro certe belle foto di famiglia in posa sorridente con i committenti felici, i bambini e le madri portatrici pure – nei rarissimi casi in cui esse appaiono, perché in genere il loro compito è sparire per sempre dopo il parto – il passaggio di soldi c’è. Sempre. Non lo nega nemmeno la donna americana che lavora in un call center intervistata da Repubblica un paio di settimane fa, la quale si dichiara orgogliosa di aver reso felici le due donne di cui ha portato in grembo i figli genetici. Ma non è azzardato pensare che non l’avrebbe fatto senza la contropartita di qualche decina di migliaia di dollari.
Il prossimo 2 febbraio al Parlamento francese si terrà un convegno internazionale contro la maternità surrogata. Lo promuove, tra gli altri, la filosofa femminista e psicoanalista Sylviane Agacinski, donna di sinistra e fondatrice di Corp (Collettivo per il rispetto della persona). Nel suo saggio intitolato “Corps en miettes” (“Corpi in briciole”, Flammarion, 2013), la Agacinski lamenta la subordinazione di una certa gauche alle lusinghe della tecnoscienza, ricorda che dal 1991 la Francia giudica illegale la pratica dell’utero in affitto, “in quanto contraria ai diritti della persona”, e si chiede come mai invece la questione della legalizzazione della maternità surrogata torni periodicamente alla ribalta, veicolata da progetti di legge e dall’idea che sia il diritto a “fondare una famiglia” a legittimare i possibili metodi di procreazione.
Segue qui:
http://www.ilfoglio.it/gli-inserti-del-foglio/2015/12/26/utero-in-affitto-madre-rubata___1-v-136287-rubriche_c256.htm
DALL’ANTICA ROMA ALL’IMPERO DI PUTIN TUTTI RICCHI CON MONOPOLI. Dante, Rabelais, Montaigne spiegano "che cosa è vero". La vita di Freud e le battaglie del letto coniugale
di Massimiliano Panarari, lastampa.it, 27 dicembre 2015
D’obbligo cominciare con Una storia naturale della curiosità (Feltrinelli, pp. 412, € 30) di Alberto Manguel, il bibliofilo, studioso e molto altro che da giovane fu uno dei «lettori» per l’ormai non vedente Jorge Luis Borges. Onnivoro dei libri e della conoscenza, Manguel dichiara «La curiosità mi incuriosisce», e intraprende un viaggio verso la conoscenza sulla scorta di alcune domande, una per capitolo (da «Come ragioniamo?» a «Che cos’è vero?», fino a «Che cosa viene dopo?»). Lo fa sulle spalle di giganti come Rabelais, Montaigne, Shakespeare, e, su tutti, il nostro Dante Alighieri, intorno alla cui Commedia questo volume interamente ruota. In un reticolo di storie, pensieri, grandi autori e autobiografia personale, un superbo manifesto dell’eclettismo e un elogio della curiosità (attraverso la quale, da bambini, cominciamo a conoscere e prendere confidenza con il mondo).
Un’altra storia, alquanto diversa, da leggere sotto l’albero – pensando, per converso, a chi non è fortunato –, è quella che racconta John Kampfner (attualmente direttore della Creative Industries Federation britannica, ed ex direttore del settimanale laburista New Statesman). Si tratta della Storia dei ricchi (Feltrinelli, pp. 480, € 25), dalla Roma repubblicana di Marco Licinio Crasso sino alla Mosca oligarchica degli amici di Putin, popolata di cresi moderni come il multimiliardario di origini uzbeke Alisher Usmanov, magnate dell’acciaio e del ferro e socio nell’Arsenal Football Club, investito della missione di restaurare il patrimonio artistico della Russia. Già, perché il super-ricco deve fare filantropia e beneficenza, come stabilì verso fine Ottocento un testo decisivo del robber baron Andrew Carnegie (uno che di industria metallurgica se ne intendeva); e, così, in questo libro che va alla ricerca dei tratti comuni e delle invarianti nella storia degli accumulatori globali di patrimoni se ne scopriranno delle belle (e inquietanti…).
Se a Natale pensate di regalare il «gioco da tavolo più famoso del mondo», e vi venisse la curiosità di saperne qualcosa di più, il libro che fa per voi è Monopoli Stories della reporter del New York Times Mary Pilon (Egea, pp. 226, € 21). Un volume che ne sovverte la storia sin qui conosciuta: prima di venire convertito in un catechismo del capitalismo speculativo era infatti tutt’altro (praticamente l’opposto). Perché, ci racconta la giornalista, l’inizio della storia non è l’edificante vicenda di Charles Darrow, il sedicente disoccupato che negli anni della Grande Depressione avrebbe venduto l’idea alla Parker Brothers, prendendo due piccioni con una fava (riscattarsi dalla povertà e salvare l’azienda di giocattoli dall’imminente fallimento). In origine c’era, in verità, il Landlord’s game, inventato nel 1904 da Elizabeth Magie Phillips sulla scorta delle dottrine progressiste dell’economista Henry George, che doveva fungere da ausilio per spiegare all’opinione pubblica i pericoli di oligopoli e monopoli. Trent’anni dopo, la Parker acquistò da lei i diritti (per 500 dollari e senza royalties) e lanciò il Monopoly stravolgendone lo spirito.
Una smisurata curiosità su cosa si muovesse dentro le teste degli individui, e dietro il fondale della loro sociabilità pubblica e rispettabilità borghese, animava come noto il padre della psicoanalisi, al quale una sua notevole conoscitrice, Élisabeth Roudinesco, ha dedicato una corposa e ricca biografia intellettuale, né incensatoria né denigratoria. Il suo Sigmund Freud nel suo tempo e nel nostro (Einaudi, pp. 512, € 34) vuole fare piazza pulita di vari stereotipi e leggende metropolitane e, de facto, ci mostra come la «rivoluzione terapeutica» e culturale freudiana, nonostante l’indiscutibile invecchiamento, marchi ancora massicciamente l’immaginario odierno. E, sempre a proposito di mente umana e di curiosità intorno a ciò che si muove nei dintorni del cuore, segnaliamo Un letto per due (Cortina, pp. 206, €14) del sociologo Jean-Claude Kaufmann su gioie e dolori («soffici letti e dure battaglie»…) della condivisione della stanza da letto; mentre ne La gelosia (Laterza, pp. 296, € 19) la storica delle idee Giulia Sissa effettua una genealogia intellettuale di questa «passione inconfessabile» e una sua inusitata e non scontata riabilitazione. Anche se a Natale, si sa, dovremmo essere tutti più buoni…
https://www.lastampa.it/2015/12/27/cultura/tuttolibri/dallantica-roma-allimpero-di-putin-tutti-ricchi-con-monopoli-NCh9NF2cUyGhUmjqzUPZeM/pagina.html
TITO AMODEI: “SONO UN FRATE E SONO UN PITTORE MA TROVO DI PESSIMO GUSTO L’ARTE SACRA”. Ha studiato all’Accademia con Primo Conti e conosciuto Warhol, Rothko e Matta. Vive in un convento a Roma. Un racconto tra fede e pittura
di Antonio Gnoli, repubblica.it, 27 dicembre 2015
Atmosfera lievemente pagana. In bella vista un magnifico tronco di un albero che Amodei ha lavorato fino a sbozzarne la forma di una donna nuda. Mi colpisce la libertà di espressione e la disinibita capacità di interpretare l’arte senza censure né conformismi.
“Di cosa dovrei vergognarmi? Dio mi ha dato un talento. Magari non sarà quello che i critici si aspettano o che i parroci vorrebbero. Ma è qualcosa che nasce dentro e va dove vuole”.
Davvero l’arte è così indipendente?
“Se non lo fosse non sarebbe arte. A ciascuno di noi spetta poi il modo in cui realizzarla. Mi trovo a vivere due vite in una. Sono un artista e sono consacrato in una congregazione missionaria”.
Ed è difficile tenere insieme religione e arte.
“Infatti non faccio arte religiosa. Provo un certo imbarazzo quando qualcuno mi dice: da te mi sarei aspettato che dipingessi i santi, Gesù sulla Croce o qualche scena edificante della Bibbia. Lodevole, dico io, ma l’arte è un’altra cosa. L’arte non è religiosa né laica. È solo arte. Vivaddio”.
Dove ha studiato?
“Ho fatto l’Accademia a Firenze con Primo Conti. Studiare pittura è importante ma non dà la misura di chi sei. Ti insegna delle tecniche. Ma se dentro hai solo vaghe aspirazioni, quelle tecniche saranno applicate in modo mediocre”.
Lei cosa aveva dentro, diciamo, di diverso?
“Ero nato con questa tensione. Non capivo bene cosa dovessi fare e come farlo. Ma c’era in me qualcosa che mi spingeva a guardare la natura e le sue immagini in modo diverso dagli altri”.
Segue qui:
http://www.repubblica.it/cultura/2015/12/27/news/tito_amodei_sono_un_frate_e_sono_un_pittore_ma_trovo_di_pessimo_gusto_l_arte_sacra_-130236422/
RIDERE FA BENE. Dovremmo ridere almeno 10 minuti al giorno piuttosto che quei pochi attimi di sorrisi a denti stretti che la maggior parte di noi si consentono
di Giuseppe Maiolo, ladigetto.it, 28 dicembre 2015
Il sorriso, e più ancora la risata, originati da complessi meccanismi fisiologici, attivano reazioni e processi benefici che sono ormai confermati da numerosi studi scientifici. Ridere fa bene perché mobilizza diversi gruppi muscolari, stimola l’attività cardiocircolatoria e le funzioni respiratorie, promuove la produzione di ormoni utili per contrastare lo stress e migliorare la risposta del sistema immunitario. Ridere è terapeutico in quanto aiuta naturalmente a ridurre gli stati ansioso-depressivi e a migliora l’interazione sociale.
Segue qui:
http://www.ladigetto.it/permalink/50244.html
TROPPO FACILE
di Umberto Silva, ilfoglio.it, 30 dicembre 2015
Curiosamente, a spingermi verso i martiri è stata la visione del film di Woody Allen “Irrational Man”. Siamo in un college dove regna la grazia di Emma Stone, che non può sottrarsi alla propria ossessione: innamorarsi del più fascinoso tra i professori, in questo caso uno scalcinato maître à penser. L’amore tra i due fiorisce come possono fiorire le rose di stoffa, finché accade qualcosa d’imprevedibile, chiamiamola epifania. Le epifanie piacciono molto ad Allen, ricordiamo il suo film precedente, il delizioso “Magic in the Moonlight”. C’è una scena che pare incongrua: Colin Firth e ancora lei, Emma Stone, sono chiusi nell’osservatorio, fuori tempesta, e Colin a un certo punto si addormenta su una panca. Che diavolo, addormentarsi con una ragazza così?
Segue qui:
http://www.ilfoglio.it/la-politica-sul-lettino/2015/12/30/troppo-facile___1-vr-136508-rubriche_c811.htm
ÉLISABETH ROUDINESCO: “PERCHÉ SIAMO TUTTI FREUDIANI (ANCHE I NEMICI)”. Intervista alla studiosa francese che ha pubblicato una biografia del padre della psicanalisi: “I suoi studi continuano a disturbare la nostra coscienza”
di Fabio Gambaro, repubblica.it, 31 dicembre 2015
Come spiega la violenza delle accuse contro di lui?
“Le polemiche fanno parte della vita delle idee. Diventando importante, un movimento alimenta un’opposizione critica. Oltretutto la psicanalisi è diventata molto dogmatica. Per molti psicanalisti Freud è un mito intoccabile intessuto di leggende. Questo atteggiamento agiografico ha favorito le critiche, le quali talvolta hanno prodotto un antifreudismo viscerale. Basti pensare al Libro nero della psicanalisi o al recente volume di Michel Onfray. A Freud è stato rimproverato di tutto. Lo si è accusato di rimettere in discussione la morale sessuale e religiosa, ma anche di essere inefficace sul piano medico-scientifico”.
È stato anche accusato di essere misogino…
“Non sono d’accordo. Certo era un uomo del XIX secolo per niente femminista, ma in fondo ha contribuito all’emancipazione delle donne. Era un conservatore illuminato, favorevole all’aborto e alla contraccezione. Pensava che le donne dovessero avere il diritto di lavorare e di sposarsi liberamente. Il vero rimprovero da muovere a Freud riguarda la neutralità della psicanalisi rispetto alla società e alla politica. Considerava la psicanalisi autosufficiente e ha quindi sostenuto che gli psicanalisti dovessero essere apolitici. Questa posizione spiega il suo iniziale tentativo di collaborare con il nazismo e il Göring Institut di Berlino per salvare la psicanalisi. Fu il suo grande errore. Per spiegare questa posizione bisogna però tenere presente il suo radicale anticomunismo e ancor di più la sua opposizione a Wilhelm Reich”.
Audio
IL ‘TEMPO’, NEMICO E AMICO. UN VOLUME DI MONS. GIOIA
di Fabio Colagrande, it.radiovaticana.va, 28 dicembre 2015
L’accelerazione della tecnica
“Oggi – spiega Galimberti – non viviamo nel tempo, ma nella sua accelerazione. Non abbiamo più tempo, non abbiamo mai tempo, perché il nostro tempo non è deciso da noi, ma dalla relazione che abbiamo con i nostri mondi di appartenenza: e dunque soprattutto con il lavoro. Lavoriamo anche a casa, perdiamo le relazioni affettive, siamo sempre legati al tempo degli altri: il tempo degli apparati dove lavoriamo o attraverso cui ci esprimiamo”. “Dunque – spiega lo studioso, approfondendo uno dei temi del libro – il tempo è diventato per noi quasi un giogo, ci tiene le redini al collo“. Per Galimberti è la tecnica a renderci ‘spaesati’ e dunque incapaci di ‘fare pace con il tempo’. “La tecnica non ha uno scopo, non ha in vista nessuna salvezza, non dice la verità. Esprime semplicemente il proprio sviluppo in una modalità autoreferenziale: sviluppo tecnico che noi scambiamo per il progresso, mentre io penso che invece riduca la possibilità delle relazioni umane”.
Qui sotto il seguito del pezzo e l’audio dell’intervento:
http://it.radiovaticana.va/news/2015/12/28/il_tempo,_nemico_e_amico_un_volume_di_mons_gioia__/1197435
I più recenti pezzi apparsi sui quotidiani di Massimo Recalcati e Sarantis Thanopulos sono disponibili su questo sito rispettivamente ai link:
http://www.psychiatryonline.it/rubrica/4545
http://www.psychiatryonline.it/rubrica/4788
Da segnalare anche la rubrica
"Mente ad arte, percorsi artistici di psicopatologia nel cinema ed oltre, di Matteo Balestrieri al link
http://www.psychiatryonline.it/rubrica/4682
(Fonte dei pezzi della rubrica: http://rassegnaflp.wordpress.com)
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