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Didattica, presenza e distanza in periodo di pandemia. Qualche nota

19 Dic 20

A cura di dinange

Didattica
 
– Secondo il vocabolario Zingarelli per ‘didattica’ s’intende il ‘settore della pedagogia che ha per oggetto lo studio dei metodi per l’insegnamento’. Quindi la didattica è un metodo di lavoro che ogni docente apprende lungo il proprio percorso di crescita professionale.
– L’atteggiamento teoreticista che ha caratterizzato per un lungo tratto di tempo larga parte dell’università italiana ha favorito il consolidarsi da noi di una didattica che fino a poco tempo fa ha sottovalutato l’importanza di una formazione dei docenti incentrata sul rapporto fra apprendimento teorico ed esperienza pratica.
– Ciò però non ha impedito ai docenti italiani di acquisire ‘sul campo’, cioè a partire dalla propria esperienza, una sensibilità alle questioni di metodo d’insegnamento. Da varie analisi svolte sul campo nel ventennio scorso emerge con chiarezza che nella storia individuale di ciascun docente sia la vocazione all’insegnamento, sia il processo di interiorizzazione della didattica che poi saranno alla base dei loro metodi d’insegnamento, avviene su base individuale, per ispirazione o in opposizione a modelli derivanti dalla propria storia personale di discenti, di figli, di lettori, etc.
– E poi embricando ciò che deriva da queste ‘primitive’ esperienze con la propria pratica quotidiana e, almeno per molti docenti, in base ai precetti forniti dai vari gruppi di mutuo-aiuto presenti sia a livello locale, sia a livello nazionale.
– Questo personalissimo lavorìo dà luogo ad una vera e propria foresta delle didattiche che sarebbe riduttivo vedere solo come il tentativo di riparare alle carenze che su questo piano mostrano da sempre il nostro legislatore e la nostra Accademia. Guardando al fenomeno più da vicino infatti si nota innanzitutto che tutti i docenti – anche coloro che sono capitati a scuola per caso – nel momento in cui si ritrovano ad insegnare scoprono di essere abitati da sempre da individualissimi ‘personaggi della formazione’, cioè dall’insieme degli introietti e delle proiezioni che derivano da coloro che hanno fatto da modello lungo il percorso di crescita individuale e professionale di ognuno, e che fra l’altro – come dicevamo prima – costituiscono la base di partenza dei loro metodi d’insegnamento. Ciò da una parte permette loro di non aderire ad un cliché, e di costruirsi un modello sentito come proprio. Dall’altra li espone alla de-idealizzazione e al burn out più facilmente di quanto lo siano coloro che aderiscono al un modello standard di didattica.
– Da queste considerazioni sulla didattica discende un importante corollario: ogni docente nel momento in cui insegna una qualsiasi materia a un discente contemporaneamente lo ‘segna di sé’ contribuendo fra l’altro, insieme alle persone più importanti che nel proprio percorso di vita il discente incontrerà, alla definizione del profilo del suo specifico ‘personaggio della formazione’.
 
 
Nativi Gutenberg, nativi digitali, amministrazione e pandemia
 
– La stragrande maggioranza dei docenti oggi tende a contrapporre la didattica in presenza a quella digitale. La natura difensiva di questa improvvisa opposizione manichea appare evidente laddove si consideri da una parte l’elemento di straordinarietà rappresentato da questo ‘oggi’ pervaso in maniera funerea dalla pandemia; dall’altra la pulsione al riduzionismo cui per le stesse funeree ragioni è sottoposta la parola ‘presenza’.
– Prima che calasse su di noi la pandemia ci sono state infatti sul campo un insieme di riflessioni e di sperimentazioni intorno al rapporto fra operatività scolastica in presenza e nuove opportunità offerte dal digitale. Protagonisti di questi dibattiti e di queste sperimentazioni sono stati ricercatori e docenti appartenenti all’ultima generazione di ‘nativi Gutenberg’, preoccupati delle difficoltà derivanti dal fatto di rivolgersi alla prima generazione dei ‘nativi digitali’ elaborando una didattica nuova, capace di sfruttare appieno le nuove opportunità comunicative legate alla digitalizzazione.
– Nel frattempo l’Istituzione Scolastica centrale (il Ministero e i suoi derivati) per lo più si era limitata a informatizzare uniformemente le amministrazioni scolastiche, in un’ottica di standardizzazione delle procedure, utilissima sul piano amministrativo, ma ovviamente basata su criteri opposti a quelli della sperimentazione.
– L’arrivo della pandemia non solo ha imposto all’improvviso di superare a piè pari la logica sperimentale che aveva caratterizzato negli ultimi decenni l’azione dei docenti sul campo, ma sulla spinta dell’emergenza ha prodotto una specie di invasione di campo, attraverso l’imposizione da parte dell’istituzione scolastica di quelle logiche standard che sul piano amministrativo avevano un senso, sulla definizione delle linee di una didattica digitale ne hanno uno opposto.
– Ciò ha provocato un irrigidimento dei docenti e l’assunzione di una posizione difensiva che potrebbe condurre alla dispersione di tutto il patrimonio di sperimentalità che aveva caratterizzato finora l’azione di molti docenti e sperimentatori sul campo.
 
 
Presenza in classe e ‘presenza in distanza’
 
– Ho lavorato come psicologo dal 1974 al 1985 in un luogo – Correggio, RE – in cui in quel tempo c’erano molte madri che lavoravano a domicilio. La spirale dell’autosfruttamento che facilmente alligna dovunque ci sia lavoro a domicilio remunerato a cottimo, le spingeva ad ampliare ad libitum il tempo dedicato al lavoro anche quando in casa c’erano dei loro figli piccoli da accudire. Per cui era facile in questi casi trovarsi di fronte ad una scena in cui nella stessa stanza c’erano i figli piccoli della madre lavorante a domicilio e lei di fronte a loro presa totalmente dal proprio lavoro. Lo scarso spessore di questa presenza traspariva poi dai vari problemi psicologici che emergevano sia in lei che nei suoi figli.
– Questo è quanto mi viene in mente allorché si contrappone la didattica in presenza a quella in distanza. Lo spessore della presenza infatti non è legato alla compresenza fisica quanto alla complanarità psicologica, cioè al fatto che ci sia uno scambio basato su quel ‘ricevere mentalmente’ (dek) che è alla radice sia della parola ‘docente’ che a quella ‘discente’.
– Per cui nulla può impedire a un docente di disporsi nei confronti dei propri discenti come una presenza assente (come accadeva nei famosi doposcuola del maestro di Vigevano!!!!). Così come nulla impedisce di pensare che prima o poi possano scaturire mille didattiche capaci di dare spessore e profondità alla ‘presenza in distanza’ (come del resto sta affannosamente avvenendo in questi mesi attraverso webinar, conferenze online, etc.) –
– Certo è che noi per ora conosciamo bene solo la didattica in presenza; siamo capaci di dare ad essa un timbro personale che abbiamo introiettato e che poi abbiamo fatto nostro in itinere; sappiamo come trasmettere in presenza il nostro sapere alle generazioni che vengono dopo di noi; e a volte siamo coscienti che non è solo questo sapere che passa, ma anche qualcosa di noi stessi che si trasmette attraverso l’esempio.
– Ma non credo assolutamente che questo prima o poi non possa essere riprodotto attraverso una messa a punto di una didattica basata sulla ‘presenza in distanza’. Ci sarà sicuramente bisogno di tempo. Probabilmente la cosa sarà facilitata allorché questa prima generazione di nativi digitali sarà diventata adulta e per\ciò capace di passare dal terreno della discenza a quello della docenza. Ma spero che, passata la pandemia, coloro che fanno scuola oggi sappiano riprendere una posizione critica e sperimentale nei confronti del digitale.

 

Post scriptum: sicuramente la didattica a distanza è profondamente classista! Non dimentichiamo però che ciò non fa altro che confermare il crogiolo classista presente in classe e nella società.

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3 Commenti

  1. mori@ipsnet.it

    Interessante e condivisibile.
    Interessante e condivisibile. C’è un gran fermento in questo periodo sulla didattica in presenza o a distanza. Novità, impreparazione, incapacità a trasmettere, mancanza di modelli, comunicazione inefficace, nuovi linguaggi…queste ed altre sono le voci più gettonate e discusse. Si moltiplicano le risposte e le teorie sottese. A me pare che pur essendo tutto pregnante non si prenda in considerazione in maniere più essenziale l’altra parte dell’insegnamento e cioè che oltre al trasmettere conoscenze e tecniche, l’insegnamento è “educare” alla vita, ai comportamenti, alle scelte, ai valori, alla politica… E per fare questo importante non è solo la didattica in presenza o a distanza (senz’altro rilevante) ma la capacità di creare relazione, ascolto, fiducia, interesse, motivazione, passione… Fondamentale allora diventerà l’autenticità, la convinzione e la disponibilità dei docenti che va oltre la presenza o la distanza perchè sarà basata sul qui ed ora, sul presente, sulla realtà vissuta conflittuale e a volte perversa. Tutto diviene momento di riflessione, critica e apprendimento. E’ un “educare” alla consapevolezza, ai limiti, alle debolezze, alla capacità di capire gli errori e come porre rimedio. Gli psicologi, i pedagogisti, i sociologi… dovrebbero essere i portatori sani di nuovi modelli d’insegnamento che aiutino l’individuo a vivere nella società attuale e non solo fare cultura “ideale”.

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      • dinange

        Ho incubato il post che nella
        Ho incubato il post che nella rubrica segue questo che avete sotto gli occhi – e cioè http://www.psychiatryonline.it/node/9018 – per oltre 10 anni. A dire il vero mi pareva di averne pubblicato una versione un po’ diversa da questa che qui vedete, ma evidentemente nel passaggio del sito ‘lacosapsy’ su Altervista qualcosa ha fatto si che fossero cancellati alcuni post.
        Mi è tornato in mente dopo aver pubblicato questo sulla didattica distanza. E praticamente l’ho riscritto.
        Non ne sono molto contento. Ciò che mi pare emergere confusamente è questo: la crisi di autorità di cui soffre il mestiere di docente non sembra provenire dalla ulteriore femminilizzazione della docenza (dico ‘ulteriore’ perché tale processo era già iniziato ben prima del ’68), ma da quell’intricata rete di cambiamenti che da società basate sulle vecchie (e varie) etiche del lavoro ci ha portato a quella attuale basata sull’estetica consumista (dalla famiglia etica a quella affettiva, dal rituale pedagogico alla teatralizzazione della scena scolastica, etc. in un processo di reciproca influenza).
        Ciò che maldestramente ho cercato di approfondire è il confronto fra la generazione dei docenti del ’68 e quelli della generazione successiva. Mancano le ultime coorti dei docenti: quelle dei docenti e – per intenderci – delle docenti tatuate, che a mio avviso già smanettano alla grande in rete (ma potrei sbagliarmi).
        Certo è che la didattica in rete mi pare da parte dell’amministrazione scolastica una imposizione maldestra e disperata; che ha provocato da parte di docenti e discenti una resistenza puramente difensiva. Spero che alla fine si torni liberamente alla sperimentazione.

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