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Dietro le quinte. Due note sulla presa in carico del soggetto perverso

13 Gen 16

A cura di Maurizio Montanari

 Ho già trattato in questo spazio, il tema del perverso in analisi, soffermandomi sui motivi per i quali egli richiede un trattamento analitico . Posto che la sua domanda non è quella di una ‘guarigione’, e nemmeno quella di un superamento della sua posizione, alcuni punti vanno indagati relativamente alla presa in carico.

Una delle questioni centrali consiste nell’impedire che il perverso, una volta entrato nell’ingaggio analitico, non abbandoni lo studio o non lo renda un luogo plasmato a sua immagine, vista la natura estremamente manipolatoria del suo agire. Ho pensato a queste righe dopo un gruppo di supervisione collettivo, nel quale alcuni psichiatri e colleghi portavano alla comune discussione alcuni casi di pazienti con tratto inequivocabilmente perversi. Pazienti che hanno di colpo abbandonato le sedute in maniera apparentemente enigmatica, e frustrante per chi li aveva accolti. ‘Per vedere la gamba di una femmina, si doveva andare al fiume la domenica mattina, quando le donne si recavano sul greto a lavare i panni’. Questa frase apre uno scorcio sulla quotidianità opprimente e censoria di questo professionista, che lo porterà a cavalcare per tutta la vita quel limite tra il mondo della legge e quello della non legge. Come gran parte dei soggetti perversi chiese un analisi non già perché avviato sulla strada di una rettifica personale mossa da un sintomo o da una sorpresa non affrontabile della vita. Ma per il timore che l’abuso di droghe e la passione per il gioco d’azzardo lo assorbisse completamente, togliendoli quella lucidità necessaria per godere all’infinito delle sostanze . ‘Voglio che mi aiuti a smettere, dottore. O almeno a calarne l’uso’ è la sua richiesta inziale. ‘Perchè vuole diminuirne l’uso?’ gli domanda il mio collega. E’ presto detto. Egli ha una professione rispettabile, noto in città per la sua attività in uno studio di consulenza legale, tre bambini, col il cuore comincia a dare segnali di intolleranza dopo tanti anni di uso sistematico di cocaina. Oltre a ciò, visti i suoi smodati consumi e la progressiva perdita di controllo, teme di finire nei guai con la giustizia. All’apparenza ( l’ouverture’ della sceneggiata )si tratta della richiesta salutare di un padre di famiglia che, per amor della prole e della buona reputazione, cerca di allontanarsi da ciò che può minarne la salute e, con essa, la sua funzione paterna. Come invece accade negli autentici casi di perversione, la vera scena non è mai quella che il soggetto allestisce per l’altro, quanto il retrobottega, ben celato a sguardi indiscreti, ivi compresi quelli dell’analista. Il quale deve intuire senza svelare cosa c’è dietro le quinte. Intuire, sbirciare, ma non violare. Dopo aver lasciato il piccolo paese nel quale anche l’uso del vino era regolato dal padre famiglia, giunse in città per conseguire una laurea, coronado il sogno dei genitori che lo volevano affrancato da una vita passata come mezzadri. Si iscrive alla facoltà di giurisprudenza, ma la sua vera vocazione è quella di organizzatore di eventi in quel mondo che anima la movida notturna. Diventa da subito un frequentatore delle sale da gioco, accanito scommettitore alle corse clandestine nonché organizzatore di bische casalinghe, allibratore nel mondo delle corse dei cavalli. A contorno di tutto, l’onnipresente cocaina. Polvere amica, compagna delle mattine, delle notti, delle orge sessuali e dei fine settimana. Nel tempo la sua fama di novello Vatel cresce, sino a diventare una sorta di guru riconosciuto del divertimento fuori-norma. Nel corso di questa crescita ‘professionale’, ha a che fare con gran parte del mondo dei fruitori di droghe i quali, in un modo o nell’altro, finivano nelle maglie della legge. Il suo studio legale inizia a difendere queste persone, specializzandosi esclusivamente in reati inerenti al narcotraffico. Dunque costui si pone a cavallo della legge, difendendo davanti al giudice quelle stesse persone che sono suoi sodali, e clienti, nelle interminabili notti di godimento. In tal modo il quadro del perverso è completo: custode di una legge che lambisce il codice penale, senza la quale non potrebbe procacciarsi i clienti ed intascare le ingenti cifre di denaro necessarie per vivere. Senza la legge che punisce lo spaccio, e in alcuni periodi anche la detenzione di quelle sostanze, non ci sarebbe stato quel divieto che le avrebbe rese appetibili. Non gli sarebbe dunque stato permesso guadagnare laute parcelle se lo smercio di doga fosse stato liberalizzato. ‘Lei dunque guadagna grazie a quelle persone che smerciano doga e finiscono in carcere, che lei difende e con le quali commercia’. Di fronte a questa frase del collega, lui se ne va. Abbandona le sedute e fa perdere ogni traccia. Dove sta l’errore nella conduzione del trattamento? Lo psichiatra non ha detto nulla che il paziente già non sapesse. Il paziente guadagnava due volte sulla pelle delle medesime persone, godendo nell’occupare entrambe le posizioni. Lo sbaglio consiste nell’aver voluto svelare il meccanismo sul quale il soggetto perverso ha edificato la sua vita, senza premettergli di continuare con il racconto dettagliato del suo romanzo, finalizzato a stupire il suo interlocutore. Egli si è sentito smascherato, da una presenza paterna – moralista, e ha visto cadere la sua maschera troppo velocemente. Sentendosi nudo, ha lasciato. ‘Ah, ti ho beccato’! è quello che non si deve mai dire a pazienti di questo tipo. Quando dico che si deve lasciare al perverso, il vero perverso, il tempo di dispiegare tutta la sua tediosa messinscena, non alludo ad alcuna possibilità di rettifica personale. Egli non cerca alcun filo di Arianna da ripercorre a ritroso per capire come sia implicato nel suo sintomo, nella sua sofferenza, come fa ( o dovrebbe fare) il nevrotico. E nemmeno è alla ricerca, come lo psicotico lacaniano, della costruzione di un nuovo ‘abito’ per meglio adattarsi ad un mondo che lo ha trovato spoglio, preda dei venti e senza desiderio che potesse, soffocato o imbrigliato, diventare sintomo. Il perverso vuole dapprima godere appieno della sua struttura , come nelle sue pratiche quotidiane, e non tollera l’essere interrotto. Il suo osceno racconto, i dettagli , devono essere sorbiti sino alla fine. Perché? Come detto non per aiutarlo a ‘smettere’ di compiere atti perversi, poiché non è dato il guarire da una struttura, ma per evitare di esser sopraffatto dalla sua stessa modalità di incedere . Se bussa alla porta dell’analista, il perverso ha da chiedere qualcosa, è indubbio. Di solito non ha tempo da perdere. Si tratta di una domanda di salvataggio da sè stesso, dai gorghi del suo godimento nei quale sta, forse, affogando. Vuole un aiuto, ma non senza rinunciare ad essere un perverso. Se si applicasse con lui la pratica ortodossa della seduta, che comporta un ‘taglio’ significante, praticato massimamente in ambito lacaniano, non otterremo altro che un uomo che si allontana precipitosamente e rabbiosamente dal vostro studio. Godere del narrare le proprie oscenità è un elemento basilare per questi soggetti, che cercano in ogni modo di colpire e scioccare chi hanno davanti. Solo alla fine di questo infinito preliminare cercherà, sommessamente , di lanciarvi una corda per chiedere aiuto. E non sarà semplice scorgerla, in quel mare di oscenità. Mentre il nevrotico ha la sua storia difficile, controversa, titubante, nella quale lui si scopre implicato progressivamente, il perverso è le sue gesta. La ricerca di un godimento senza fine è il suo obbiettivo. Mostrare le sue conquiste illecite fa parte di lui. Strappare il velo della recita, far cadere le luci e i tendoni, equivalgano a far svanire l’essenza stessa di uomini di questo tipo. E dunque, condannarli a non esistere. Il nevrotico può accettare di bandire la sua scena ancorché grande e faraonica, si pensi alle grandi costruzioni isteriche, al prezzo di apparire come soggetto, molto spesso piccolo, debole e complessato. Ma il perverso no.

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