La figlia dell’uomo che ha compiuto l’attentato a Westminster, ha postato delle foto. In esse appare con un vestito succinto che mette in bella evidenza i suoi seni. Il suo gesto è stato probabilmente una reazione all’azione omicida del padre.
Su questa reazione, di cui si ignorano le reali, profonde motivazioni, sarebbe stato meglio tacere. È stata, invece, ripresa e enfatizzata come gesto di ribellione al fondamentalismo, uno “schiaffo all’Isis”.
Negli stessi giorni, una quattordicenne di famiglia musulmana, originaria di Bangladesh, si è presentata alla sua scuola a Bologna con i capelli tagliati cortissimi. Dietro insistenze dei suoi insegnanti ha indicato come colpevole del taglio sua madre: avrebbe voluto impedirle, in tal modo, di togliere il velo quando usciva di casa. Gli insegnanti hanno chiamato i carabinieri che si sono rivolti al giudice. Costui ha disposto l’allontanamento della ragazza dalla famiglia e il suo affidamento a una struttura protetta.
L’autorità giudiziaria dovrebbe tener conto dei rischi che si corrono quando, chiamata a difendere i diritti di minorenni, decide, senza una valutazione adeguata e sulla spinta dello stato emotivo del momento, di decretare una rottura che potrebbe essere, a vantaggio di tutti, riparabile. In particolare quando si tratta di conflitti tra un’adolescente e la propria madre che, a prescindere dal contesto culturale, non sono semplici da dirimere. È più ragionevole sostenere la coppia dei litiganti nel gestirli in modo più appropriato.
In mezzo a questi due fatti, ha creato perplessità la nuova divisa delle hostess di Alitalia, considerata castigata e inelegante. I sindacati hanno preferito insistere sul materiale sintetico, infiammabile: la carta della sicurezza (peraltro sacrosanta) è più facilmente spendibile. Il problema più importante (che un tessuto più sicuro, che deve essere usato, non risolverebbe) non è quello estetico (che pure non è poca cosa), ma il fatto che le hostess sono vestite e pettinate in modo da sembrare donne arabe “moderate”: né molto scoperte, né molto coperte. I padroni di Alitalia sono arabi oligarchi, omogenei al potere finanziario che sta globalizzando la nostra esistenza. Non crea scandalo il loro tentativo di omologare l’immagine della donna a un prototipo costruito a tavolino (non ha importanza se casto o disinibito, di questa cultura o di quell’altra).
Nello scontro tra il costume occidentale di “scoprirsi” e quello islamico di “ coprirsi”, apparentemente un dialogo tra sordi, è sempre più chiara l’inconsapevole complicità sotterranea tra le due parti. La divisa delle hostess che, andando oltre la sua funzione di praticità e riconoscibilità (non priva di una restrizione di libertà), diventa uniforme, rivela, al di là dell’opposizione tra Occidente e Islam, un processo di uniformazione, mortificazione del corpo femminile che fornisce la materia prima alla malattia della nostra civiltà.
Sotto la divisa il corpo della singola donna può restare vivo, dietro l’uniforme (svestente o rivestente) offerta al nostro sguardo c’è il nulla. Cosa c’è dietro la descrizione che un giornalista ha fatto del vestito della figlia “ribelle” dell’attentatore di Londra: “ nasconde e mostra i seni fasciandone il corpo di ragazza quasi adolescente, ma già rapinosa”?
Dietro il tutto vedere o il nulla vedere è barata l’apertura (non un buco) del corpo femminile che, in tutti noi, schiude al mondo il tessuto profondo delle nostre sensazioni, emozioni, sentimenti e pensieri. Al suo posto una fanciulla in fiore, ferma nel suo avvenire, chiusa nell’ideale unisessuale di kuros, l’eterno efebico.
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