e cioè che Tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare Te,
e in questo modo aiutiamo noi stessi.
L’unica cosa che possiamo salvare in questi tempi…
è un piccolo pezzo di Te in noi stessi, mio Dio.
Etty Hillesum, Auschwitz 1943
Reparto COVID, terapia subintensiva. Le porte Scee sono adesso alle nostre spalle. Il mondo “pulito” non c’è più. Avanziamo felpati nei calzari, sul linoleum dove è scritto “percorso sporco”. Qui è tutto ovattato, ma “sporco”. Strano ossimoro. Perché è pulitissimo. L’inferno è più pulito del paradiso. Ma il virus, invisibile, è nell’aria, nelle cose. E’ tutto contaminato. Sembriamo, noi tre, gli internauti di uno spazio radioattivo. Ogni tanto si incrociano gli sguardi di altre indistinguibili figure che transitano nello spazio come orsi polari.
Con me una dottoressa molto giovane e molto spaventata, e un collega più maturo. Siamo tre sagome bianche, schermate da un elmo con la visiera, incappucciate, tri-guantate, con lo sguardo annebbiato. Dalle porte aperte delle stanze intravedo i pazienti collegati ai boccagli dell’ossigeno come corpi inerti in ambascia respiratoria. Andiamo dritti alla stanza dove alloggia, da solo, il paziente psichiatrico. Mentre nel mio reparto valutavo il TSO della notte, una vecchia conoscenza tornata all’ovile, contemporaneamente sul mio cellulare il primario del COVID e la Direzione Sanitaria. “Vieni, il vostro paziente psichiatrico è disinibito, ingestibile, violento. Rifiuta la terapia e gli esami, compreso il tampone.” La Direzione Sanitaria mi chiede dove ci sono, in Italia, SPDC-COVID. Ripenso, stancamente, che ho sollevato il problema due anni fa. Sarebbe bastato che la nostra Regione avesse deputato un SPDC ai COVID. O anche una residenza psichiatrica ai pazienti positivi. L’ideologia vuole che così si discriminano i pazienti psichiatrici. Mi domando, a volte, quanto l’ideologia copre l’inerzia. Soprattutto l’inerzia istituzionale, l’accidia degli strateghi. Come sempre, nulla è stato fatto. Convegni, Pandemia, Sindemia, tavoli tecnici, programmazione, coordinamento. E io ora sono qui, accompagnato da questi due che credono che io abbia poteri magici, con nessuno dei miei infermieri. Non ho voluto portarli. A volte lo schieramento di forze è peggio. Meglio andare come San Francesco all’incontro con il lupo, offrire alla violenza la propria inermità. Da un’altra parte ho percepito la loro difficoltà ad entrare nella “valle della morte”. Ognuno, del resto, ha famiglia. L’italia è il Paese del familismo, “amorale”. Io solo non ho famiglia. La mia famiglia sono i rottami delle famiglie degli altri. Ho con me una siringa, in cui ho fatto caricare tre fiale di midazolam da 15, il mio cuore, e niente più. Si, anche la rabbia, non per il paziente, che segue il suo destino, ma per chi avrebbe dovuto pianificare la situazione che io ora mi trovo ad affrontare, in un terminale della disperazione fatto, alla fine, di un corto circuito: io e lui. Anzi, io e te. In stanza non c’è, dov’è? Vaga nelle altre stanze? E’ nascosto nel bagno? Eccolo! Spunta da un angolo e ci si para davanti, nerboruto, scattoso, pupille dilatate, seminudo, senza mascherina, fasciato alla meglio, come i feriti bendati di guerra, con le macchie di sangue sulle fasce alle mani e sulle braccia, dove si è strappato tutti i magici tubicini che tengono gli altri pazienti alla vita. Mi si avvicina, quasi a contatto, capisce subito che tra i tre io ho le chiavi del regno. “Io sono DIO!!!!!” Mi alita in faccia, e sulla visiera calata dell’elmo si stampa da una parte il suo fiato divino, in gioco geografico e trasparente con il mio. Neanche le nostre “anime” si posso incontrare. Io rimango immobile, sotto il suo l’attacco. I colleghi sono più distanti. Mi ha ingaggiato. Adesso la scena è nostra. “Vuoi fare il tampone?”. “No, che c…di tampone e tampone…, vado via…!!!!”“Tu hai il COVID”, gli dico, con voce fintamente calma, recitando a mente il rosario della de-escalation. “Il COVID l’ho creato Io….”Io, io, io, io che sono Dio!!!”. “Dio, Dio, Dio, ma chi è questo Dio, ma dov’è questo Dio? Se lo vedessi, se lo sentissi!”. E’ la domanda dell’Innominato al cardinale Federigo. E’ la stessa che mi faccio io. Ma Dio non era morto? Il Dio manzoniano che atterra e suscita, che affanna e che consola. Chi è questo Dio che sta davanti a me e mi impone di uscire, se no distrugge tutto. Vorrei aggredirlo, questo Dio incarnato nell’umanità più disgraziata. Sento la rabbia che mi cresce dentro, che supera la paura, vorrei mettergli le mani alla gola e urlare: ci hai rotto il c..! Non ti curi, ti droghi, esci ed entri dal carcere, ti vai denudando per strada, insulti tutti, ti fai portare dai carabinieri in PS, e poi noi ci dobbiamo occupare di te! Perché noi ci dovremo occupare di te! Perché io, adesso, sto qua davanti a te?!” Ma la voce non mi esce. “Emiddio..” C…., penso, questo si chiama Emiddio. Chi li acceca i genitori quando dànno i nomi? “Emiddio, ti prego”, questo è tutto quello che mi esce. Gli lascio il coltello dal manico. “Ti prego..”Come ci si può rivolgere a Dio?” Mi stupisco sempre, anche in un istante critico come questo, di come un essere umano abbia la capacità di vivere in un’altra vita, un altro mondo. Non solo, e questo è scontato, nessun insight di disturbo mentale, ma neanche nessun insight in merito alla positività COVID. “Me ne devo andare, basta!!!! Portatemi la scarpe”. “ Ti prego, fai questo antibiotico e poi te ne vai. ”Mento, adesso, di fronte alla menzogna di Dio. Quanti cocainomani persi, in questi anni, ho visto convinti di essere Dio. Uno solo mi disse : Dottore, Dio si fa di coca. Senza la coca non c’e’ divinità. La coca è Dio. E chi si fa di coca è Dio. “Che c…. di antibiotico, non ti credo!!!” “Rocefin”. “Me lo faccio a casa” “Lo abbiamo solo noi qui”. Il dialogo è teso come uno scambio a ping pong, veloce, di quelli da ragazzo, ai tavoli dell’oratorio, dove chi perde la pallina è finito. La velocità e la calma nello scambio delle risposte dànno una parvenza di verità. Ma solo una parvenza. Io sono tesisissimo. Se mi colpisce e mi straccia questa pseudotuta di aminato mi contamino di sicuro. Siamo, entrambi, in un universo parallelo. I due colleghi ci guardano straniti. “Dai, facciamo questa fiala, aspettiamo l’effetto mezzora, e poi sei a casa. Lo chiamo continuamente per nome, come una litania che assona Dio. In fondo Emi-dio è uno che ha già mezzo Dio nel nome. Anzi, un Dio rafforzato. Un Dio con due D. “Dio si è fatto uomo per togliere i peccati del mondo. Tu sei il Dio della croce, che vuoi che sia questa fialetta” Sudo. Sudo come una fontana aperta. Sento la divisa sotto la tuta bianca incollarsi alla pelle. Poi, invece di aggredirmi, si corica, mi da il fianco, gli scosto la mano dal gluteo, mi guarda feroce: “Ma ti fidi di me??! Si mi fido, Emi-dio, più di te che di me. Pungo e inietto. Emette un grido soffocato. Gli dico di stare disteso, gli rimbocco le lenzuola e che torneremo presto. Usciamo e andiamo a sorvegliarlo al monitor. L’isolamento di questo scafandro è tale che non sento l’aria condizionata. Non sento nulla. Intanto vado alla porta dove attraverso una fessura comunico con il caposala. Gli chiedo altri farmaci e le fascette. Il paziente si distende. Ma non dorme. Urla ogni tanto. Minaccia. Era arrivato due notti prima. Un TSO, con precedenti ricoveri in SPDC, precedenti penali, accompagnato da 8 carabinieri, cocainomane inveterato, delirante mistico, di grandezza e persecutorio, allucinato. Evidente personalità psicopatica ed antisociale. Refrattario ai Servizi. Rivelatosi positivo al tampone molecolare rapido e ai due standard di conferma. Dunque, benchè asintomatico sul piano respiratorio, è andato al COVID. Con operatori che lo hanno tenuto con il dexdor in infusione, cercando di inserire la nostra terapia antipsicotica. Ma i risultati dello shift sono davanti a me. Agitazione psicomotoria all’interno del tempio sacro dove si combatte da mesi e mesi l’ultima guerra planetaria. Con vite sospese a ponte sulla morte. E io che sto facendo? Io mi muovo in una zona d’ombra. Il TSO lo abbiamo sospeso dopo che il paziente dal PS è transitato al COVID anziché in SPDC. Ma ora mi trovo di fronte ad un trattamento senza consenso. Invoco lo stato di necessità? Le tre fiale di midazolam lo hanno appena appena accarezzato, non dorme, è reattivo, tende ad alzarsi e, soprattutto, ora non accetta più altre terapie. Il dialogo, la persuasione. Sento che tutto è inutile. Come si fa un dialogo tra uno vestito da argonauta e uno incazzato, in astinenza da cocaina, senza alcuna consapevolezza di malattia, e delirante. Inoltre, non rispettoso minimamente del silenzio del luogo, dell’affanno degli altri. Di base prepotente e impulsivo. Come si dialoga mentre il tuo corpo è prigioniero di una tuta. Il tuo volto mezzo dalla FFP3, velato da uno schermo appannato. Un colloquio in un ambiente contaminato, con pazienti critici intorno. “Gestire” uno stato di agitazione con minaccia pantoclastia in un reparto COVID. Mentre penso queste cose, il collega mi scuote, dicendomi : “Ma come fate voi a reggere questi pazienti”. Già, la domanda mi sorprende, perché vorrei fargliela io a lui, che si muove tra cadaveri a cuore battente. Ma capisco cosa vuole dire, per lui i paziente è un insieme di dati, un algoritmo, una prescrizione, una cartella digitalizzata, un confronto di parametri, uno sguardo se respira. Per noi invece il paziente chi è? Uno che non si vuole curare, che ci mette in discussione, con il quale bisogna cercare un punto. Mi viene mente la trattativa dell’altra notte, con uno sconosciuto portato dalla polizia, che, sbarcato la sera dall’ultimo traghetto, trascorreva le ore a lanciare pietre contro le vetrine. In PS era allucinatissimo, teneva tutti a distanza, minaccioso. La trattativa è stata lunghissima. Finchè ha accettato la terapia volendo guardare con i suoi occhi le fiale che mettevamo nella siringa, che non fosse veleno. Ma qui, davanti al Dio dei matti strafatti, o degli strafatti matti, non c’è trattativa. Il caposala istruisce i due infermieri che si vestiranno per entrare su come si posizionano le fascette. Io non so metterle. Guardo la struttura dei letti e penso che sarà difficile anche trovare un aggancio. Le altre fiale sono pronte. Sono tre fiale, in una benzodiazepine, in una aloperidolo pronto, in una aloperidolo depot. Taccio i milligrammi. Quando entrano gli infermieri gli chiedo se hanno capito come si mettono le fascette, dico che devono essere silenziosi, decisi , assertivi. Al letto di Dio loro si abbassano e cercano di posizionare le fascette ai tubolari. Il paziente apre gli occhi ed inizia a minacciarci, dice che il tempo è passato e che vuole andare via. Gli dico che l’antibiotico sta facendo il suo effetto e che si tratta di pochi minuti. Cosa state facendo? Dice quando il primo polso trova il suo alloggio nella fascetta. “Un elettrocardiogramma e vai via”. Procediamo così con i quattro arti. Per un lungo istante si lascia andare. Ora mi appare veramente come Cristo in croce che porta il dolore del mondo. Non provo più rabbia. Solo pena, soprattutto per me e per il mio fallimento. Immobilizzato Emiddio procedo con le iniezioni. Una dopo l’altra, le sente, si agita, si rende conto che è contenuto. Ci minaccia di morte e di ogni contumelia, urla : “Sono Diooooooooo!! Vi ammazzo tutti!!!!. Ma Dio non era anche un Dio di amore? Dov’è finito il tuo amore? Dov’è finita, Emiddio, la tua tenerezza? Dove è finito il mio amore? Dove è finita la mia tenerezza? Dove ho smarrito il mio Dio. Il midozolam sembra averlo appena appena sfiorato, gli ha dato una tranquillità di superficie, come uno specchio di mare apparentemente calmo ma attraversato da correnti sottomarine potenti. Questa scena dura qualche minuto. Poi la furia si allenta, la tranquillità chimica riprende il campo. Lo faccio subito decontenere. Vado a digitalizzare intervento sulla cartella. Ho difficoltà a scrivere perche con tre paia di guanti non ho il tatto. In realtà non vedo. Forse piango per il cedimento dell’adrenalina. Penso cosa sarebbe accaduto si il paziente avesse iniziato a brandire le aste delle flebo e a fare come Gesù nel tempio. La contaminazione, gli altri pazienti, le quarantene, i tamponi. Penso a mio padre. Che non abbraccio da due anni per paura di contaminarlo. Ora per vederlo dovrò aspettare l’esito del prossimo tampone. In silenzio mi avvio alla camera che prelude all’uscita. Fuori c’è il sole. Mi hanno tolto l’orologio. Non so quanto tempo è passato. Ripasso a memoria il rito, mi tolgo l’elmo riponendolo in un secchio con del liquido, mi lavo le mani guantate, poi mi tolgo il nastro isolante. Poi mi sbuccio come una banana toccando la tuta dall’interno. Poi i guanti, la mascherina è l’ultima. Respiro. Sono bagnato come un pulcino appena nato, ho il volto segnato. Non lo so cosa ho fatto. Mi porto dentro, certo, lo scacco di un incontro. La mia incapacità di dialogare. Di persuadere. Il mio fallimento di psichiatra. Il fallimento, dentro il mio fallimento, di un intero sistema. Il territorio, la psichiatria di comunità…La presa in carico… Mi viene in mente che un universitario l’altro giorno ci ha mandato in TSO un signore di 84 anni che rifiutava le terapie nel reparto di medicina…Ecco l’Italia degli incompetenti, dei rabbiosi e dei dirompenti. L’Italia tenuta insieme anche dai fiumi di fiale che somministriamo, di giorno e di notte a chiunque venga, dalla solitudine disperata di chi sta in trincea e fa le cose senza nessuna protezione. L’Italia di quelli che tengono famiglia. Che organizzano i convegni, che scrivono sulle riviste, che presiedono le società scientifiche. Dei gesucristi che arrivano continuamente in pronto soccorso. Vorrei togliermi tutto e correre verso il mare, questo infinito mare di settembre, lasciarmi andare tra le onde, ora che la spiaggia è deserta. Dieu-Dope, Scriveva il grande Tobie Nathan nel 1985, Un solo Dio, la Droga. O un modo, spero non l’ultimo, spero non il solo, per trovare, da qualche parte, ancora Dio dentro di noi.
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