Quando ho cominciato a lavorare nel Centro di Igiene Mentale (CIM) di Reggio Emilia, il “gruppo infanzia” in cui fui inserito aveva come compito principale la chiusura del reparto infantile del manicomio (il De Sanctis) ed, a scalare, la deistituzionalizzazione di tutti i vari gironi dell’esclusione in cui erano segregati i disabili organici e non organici della provincia. Si andava dalle classi differenziali, alle classi speciali, alle scuole speciali, agli istituti per sordi, sordastri, ciechi, ecc, fino appunto al De Sanctis, ed infine alle Case di Carità.
A parte queste ultime, che erano istituzioni promiscue (cioè dove veniva accolto pietosamente ed indistintamente chiunque avesse bisogno), si trattava per lo più di strutture totali, cioè segreganti, ma non promiscue. Anzi distinte per patologia. Alla base di questa modalità di cura c’era da una parte un discorso scientifico sulle patologie, dall’altra la pratica della istituzionalizzazione e della segregazione. Pratica nata all’inizio del Seicento (con la nascita della Salpetrière[1]) “per ragioni di pulizia e di polizia” – dirà Foucault[2] –, e destinata ad accogliere indistintamente e promiscuamente tutti coloro che con il loro comportamento disturbavano ed offendevano il clima operoso della città proto-industriale; che dall’Illuminismo in poi si segmenterà in varie istituzioni totali, cioè sempre segreganti, ma distinte in base ad uno sguardo scientifico (cioè medico, psichiatrico, pedagogico, ecc).
Il nostro lavoro di deistituzionalizzazione[3], che nell’arco di un decennio portò alla chiusura di tutte le istituzioni totali per l’infanzia presenti in provincia[4], consistette da una parte nel reinserimento dei disabili e dei ‘matti’ in famiglia, dall’altra nel loro inserimento in scuola; o meglio: al loro inserimento all’interno delle classi normali, che fino ad allora avevano ospitato solo i “normodotati”.
È intorno a questa operazione – che contemporaneamente avvenne in tutta Italia grazie al pensiero ed all’azione degli operatori di frontiera[5] dell’antipsichiatria – che nasce la figura del docente di sostegno, che all’inizio vedeva impegnate le giovani docenti (erano quasi tutte donne) che erano in fondo alle ‘graduatorie’. Che in un secondo tempo si specializzò grazie allo sforzo che sul piano formativo fu fatto dai Provveditorati, insieme – almeno in Emilia – ai tecnici della riabilitazione ed a quelli del ‘sociale’ presenti nei servizi territoriali.
Ciò che appare evidente non appena ci si sofferma un attimo su questo esordio, – che poi evolverà fino a definire, nel ventennio che va dall’inizio degli anni ’70 fino alla nascita della seconda repubblica, un modello esemplare di educazione e di cura dei disabili – è la compresenza e, direi, la ricerca di una alchemica combinazione di alcuni elementi, che nei fatti poi quasi mai nei singoli territori si concreziona in una prassi che li comprenda tutti; ma che pur tuttavia, anche se combinati in maniera parziale, risultano alla fine capaci di far funzionare l’integrazione. Cerchiamo di metterne a fuoco i più importanti.
– Il punto di partenza era la considerazione del bambino o del ragazzo disabile come un soggetto, che non può essere mai ridotto alla condizione di alunno, o alla sua patologia; ma che va sempre considerato nella sua interezza.
– Importante era in secondo luogo la territorializzazione dei servizi sanitari e sociali, che li rendeva facilmente individuabili e raggiungibili sia dalle famiglie che dalla scuola: si definivano così le fondamenta di un’alleanza fra scuola, famiglie e servizi, fatta di tecnici che però erano, anche loro, soggetti, cioè persone in carne ed ossa, raggiungibili e a disposizione perché operanti lì, sullo spesso territorio in cui erano ubicate le scuole; e perciò capaci di definire nel tempo una rete di alleanze con tutti gli altri soggetti coinvolti.
– Vi era poi sempre il perseguimento di una sorta di triangolazione fra istruzione, riabilitazione e assistenza; poiché la pratica e la riflessione sulla pratica avevano posto in evidenza il fatto che in ogni soggetto disabile, sia pure in forma e con peso diversi, questi tre elementi sono sempre compresenti, e non possono essere disgiunti. E che, anzi, anche all’interno del percorso di ogni singolo soggetto è possibile individuare una dinamica che pone in primo piano ora l’uno ora l’altro dei tre elementi, senza che mai vengano meno gli altri due.
– E, ancora più importante, questa triangolazione in Italia si fondava su una autonomia dei tre servizi – scolastico, sanitario e assistenziale – che garantiva una collaborazione su di una base di parità, contraddistinta da un dialogo e da una negoziazione sancita dalle cosiddette ‘intese’, che definivano contenuti e cadenze del confronto fra tecnici[6].
Vi era infine la consapevolezza:
– che la riabilitazione, l’apprendimento e la socialità del disabile non possono essere ricondotte solo al deficit, ma che ciascuna di queste componenti ha senso solo se – come per ogni altro bambino – si parte dalla globalità del soggetto, dalla sua storia personale e familiare e, almeno per noi operatori reggiani, dal gioco[7]!
– che all’anticipo della diagnosi doveva corrispondere un anticipo del lavoro riabilitativo e un inserimento del disabile piccolissimo al nido ed alla scuola per l’infanzia. I risultati di questi aspetti del lavoro riabilitativo ed educativo, ai quali oggi non si fa più caso, apparivano sorprendenti a coloro che avevano dovuto inserire in scuola elementare i disabili che prima erano stati segregati nelle istituzioni totali, che spesso – a fianco ai problemi connessi col deficit – apparivano come gravati da problemi psicologici connessi con la segregazione (si pensi alle cosiddette psicosi d’impianto!).
– che a fianco al lavoro con il bambino va previsto un lavoro con le famiglie (counselling), che si sviluppa dinamicamente nel tempo e va intensificato nei prevedibili momenti di passaggio ed in quelli meno prevedibili di crisi, che nei casi più gravi a volte porta al dissolvimento del nucleo familiare.
– che infine il passaggio all’età adulta comporta la messa a punto di servizi e percorsi mirati per il disabile adulto in cui occorre contemperare la gravità nosografica del caso con la sua ‘gravosità’ in termini sociali dovuta al contemporaneo invecchiamento dei genitori.
A parte queste ultime, che erano istituzioni promiscue (cioè dove veniva accolto pietosamente ed indistintamente chiunque avesse bisogno), si trattava per lo più di strutture totali, cioè segreganti, ma non promiscue. Anzi distinte per patologia. Alla base di questa modalità di cura c’era da una parte un discorso scientifico sulle patologie, dall’altra la pratica della istituzionalizzazione e della segregazione. Pratica nata all’inizio del Seicento (con la nascita della Salpetrière[1]) “per ragioni di pulizia e di polizia” – dirà Foucault[2] –, e destinata ad accogliere indistintamente e promiscuamente tutti coloro che con il loro comportamento disturbavano ed offendevano il clima operoso della città proto-industriale; che dall’Illuminismo in poi si segmenterà in varie istituzioni totali, cioè sempre segreganti, ma distinte in base ad uno sguardo scientifico (cioè medico, psichiatrico, pedagogico, ecc).
Il nostro lavoro di deistituzionalizzazione[3], che nell’arco di un decennio portò alla chiusura di tutte le istituzioni totali per l’infanzia presenti in provincia[4], consistette da una parte nel reinserimento dei disabili e dei ‘matti’ in famiglia, dall’altra nel loro inserimento in scuola; o meglio: al loro inserimento all’interno delle classi normali, che fino ad allora avevano ospitato solo i “normodotati”.
È intorno a questa operazione – che contemporaneamente avvenne in tutta Italia grazie al pensiero ed all’azione degli operatori di frontiera[5] dell’antipsichiatria – che nasce la figura del docente di sostegno, che all’inizio vedeva impegnate le giovani docenti (erano quasi tutte donne) che erano in fondo alle ‘graduatorie’. Che in un secondo tempo si specializzò grazie allo sforzo che sul piano formativo fu fatto dai Provveditorati, insieme – almeno in Emilia – ai tecnici della riabilitazione ed a quelli del ‘sociale’ presenti nei servizi territoriali.
Ciò che appare evidente non appena ci si sofferma un attimo su questo esordio, – che poi evolverà fino a definire, nel ventennio che va dall’inizio degli anni ’70 fino alla nascita della seconda repubblica, un modello esemplare di educazione e di cura dei disabili – è la compresenza e, direi, la ricerca di una alchemica combinazione di alcuni elementi, che nei fatti poi quasi mai nei singoli territori si concreziona in una prassi che li comprenda tutti; ma che pur tuttavia, anche se combinati in maniera parziale, risultano alla fine capaci di far funzionare l’integrazione. Cerchiamo di metterne a fuoco i più importanti.
– Il punto di partenza era la considerazione del bambino o del ragazzo disabile come un soggetto, che non può essere mai ridotto alla condizione di alunno, o alla sua patologia; ma che va sempre considerato nella sua interezza.
– Importante era in secondo luogo la territorializzazione dei servizi sanitari e sociali, che li rendeva facilmente individuabili e raggiungibili sia dalle famiglie che dalla scuola: si definivano così le fondamenta di un’alleanza fra scuola, famiglie e servizi, fatta di tecnici che però erano, anche loro, soggetti, cioè persone in carne ed ossa, raggiungibili e a disposizione perché operanti lì, sullo spesso territorio in cui erano ubicate le scuole; e perciò capaci di definire nel tempo una rete di alleanze con tutti gli altri soggetti coinvolti.
– Vi era poi sempre il perseguimento di una sorta di triangolazione fra istruzione, riabilitazione e assistenza; poiché la pratica e la riflessione sulla pratica avevano posto in evidenza il fatto che in ogni soggetto disabile, sia pure in forma e con peso diversi, questi tre elementi sono sempre compresenti, e non possono essere disgiunti. E che, anzi, anche all’interno del percorso di ogni singolo soggetto è possibile individuare una dinamica che pone in primo piano ora l’uno ora l’altro dei tre elementi, senza che mai vengano meno gli altri due.
– E, ancora più importante, questa triangolazione in Italia si fondava su una autonomia dei tre servizi – scolastico, sanitario e assistenziale – che garantiva una collaborazione su di una base di parità, contraddistinta da un dialogo e da una negoziazione sancita dalle cosiddette ‘intese’, che definivano contenuti e cadenze del confronto fra tecnici[6].
Vi era infine la consapevolezza:
– che la riabilitazione, l’apprendimento e la socialità del disabile non possono essere ricondotte solo al deficit, ma che ciascuna di queste componenti ha senso solo se – come per ogni altro bambino – si parte dalla globalità del soggetto, dalla sua storia personale e familiare e, almeno per noi operatori reggiani, dal gioco[7]!
– che all’anticipo della diagnosi doveva corrispondere un anticipo del lavoro riabilitativo e un inserimento del disabile piccolissimo al nido ed alla scuola per l’infanzia. I risultati di questi aspetti del lavoro riabilitativo ed educativo, ai quali oggi non si fa più caso, apparivano sorprendenti a coloro che avevano dovuto inserire in scuola elementare i disabili che prima erano stati segregati nelle istituzioni totali, che spesso – a fianco ai problemi connessi col deficit – apparivano come gravati da problemi psicologici connessi con la segregazione (si pensi alle cosiddette psicosi d’impianto!).
– che a fianco al lavoro con il bambino va previsto un lavoro con le famiglie (counselling), che si sviluppa dinamicamente nel tempo e va intensificato nei prevedibili momenti di passaggio ed in quelli meno prevedibili di crisi, che nei casi più gravi a volte porta al dissolvimento del nucleo familiare.
– che infine il passaggio all’età adulta comporta la messa a punto di servizi e percorsi mirati per il disabile adulto in cui occorre contemperare la gravità nosografica del caso con la sua ‘gravosità’ in termini sociali dovuta al contemporaneo invecchiamento dei genitori.
Ciò che accade dall’inizio degli anni ’90 è un’opera di progressivo logoramento del modello che era stato costruito nel ventennio precedente.
Si parte con i processi di aziendalizzazione che contraddistinguono sia i governi di centrodestra che quelli di centrosinistra della nascente seconda repubblica. Infatti fra i corollari del processo di aziendalizzazione vi sono da una parte l’appalto di porzioni crescenti di welfare al privato no profit e profit, dall’altra l’ingrottamento di una parte della cura che viene scaricata sulle spalle delle famiglie e in particolare delle donne[8].
Nel caso dei disabili ciò si verifica soprattutto a monte, cioè alla fine dell’obbligo scolastico, con l’appalto al privato dei servizi per gli adolescenti e gli adulti disabili; ed a lato con la continua opera di sfoltimento dei contributi che lo stato eroga alle famiglie che implicitamente finiscono con lo scaricare il peso del sostegno sulle spalle delle famiglie stesse.
Si prosegue con la deterritorializzazione dei servizi sanitari e con la contemporanea chiusura delle “grandi canne d’organo” (dei grandi servizi) che sconvolgono il rapporto fra attività di base e specialistica e minano alla radice il rapporto con la scuola.
Nel vecchio schema, al contrario di ciò che accadeva per la specialistica, le attività di base erano territorializzate. Per cui ad esempio nel caso dei disabili in età evolutiva i tecnici operanti in un determinato territorio circoscritto erano tenuti a rispondere delle attività di base di cui avevano bisogno i disabili di quel territorio, inseriti nelle scuole che lì erano ubicate; ed erano in rapporto con i servizi sociali lì operanti. Tutti conoscevano tutti e ciò definiva un vincolo rispetto alle attività di base.
La centralizzazione dei servizi invece, svincolando la segnalazione dall’appartenenza territoriale, svincolò anche il rapporto dei tecnici con le scuole e i servizi sociali creando situazioni abnormi in base alle quali in una scuola, o addirittura in una classe(!) oggi è possibile che ci sia una pletora di tecnici che non si coordinano fra di loro e non hanno alcuna preoccupazione di definire una alleanza operativa con docenti e dirigenza.
Come corollario di questo già grave problema si va sedimentando nel tempo un disinteresse per le attività di base, un abbandono di ogni preoccupazione per le famiglie che sempre più si auto-organizzano per supplire a queste carenze, ed una esaltazione per la specialistica: si va dall’operatore re della strada re della foresta territoriale ad un supertecnico che non leva il culo dal suo ambulatorio neanche a cannonate. Cosa sedimenta questo nel rapporto con la scuola basta chiederlo a qualsiasi docente.
E questo a sua volta sta portando allo svilimento della triangolazione fra scuola, sanità e sociale, accentuato qui in Emilia dal fatto che ormai i burocrati della Regione hanno affidato (pare per motivi venali) la certificazione di disabilità ai medici legali. Che intanto non sono granché competenti in materia, ma che soprattutto creano una divaricazione sia con il prima che con il dopo. Con il prima, cioè con chi ha fatto la diagnosi. Con il dopo cioè con tutto il percorso successivo; in una parola con le successive ragioni di carattere riabilitativo ed educativo.
La chiusura dei grandi servizi (il Materno Infantile) e la nascita di servizi spesso monoprofessionali minano ancor più il lavoro col disabile, che non richiede una generica disposizione alla poliprofessionalità, ma anche una poliprofessionalità che sia capace di rivedere e riadattare continuamente nel tempo ed in base alle mutanti esigente del paziente il piano riabilitativo.
Se poi coniughiamo questo fatto con l’affido dei disabili al privato, che persegue fini eteronomi rispetto alla cura, facilmente rischieremo di trovarci di fronte a programmi riabilitativi decotti, se non ‘morti’.
Altro elemento connesso con i processi di privatizzazione è l’oggettivazione del disabile che, superata l’età dell’obbligo e avviato nei luoghi privati di cura, all’improvviso viene sottoposto alle leggi del profitto o del pareggio di bilancio; perde il suo spessore di soggetto e diventa – con tutte le eccezioni che però sono il frutto solo della dedizione personale di tecnici e volontari – una variabile dipendente rispetto alle più materiali e centrali ragioni che sono alla base dell’appalto.
Un processo parallelo è avvenuto in questi anni dentro la scuola: si va dal taglio delle ore di sostegno, alla continua indecisione circa i percorsi formativi abilitanti al sostegno, con conseguante disorientamento circa la propria identità professionale da parte dei docenti di sostegno; alla separazione abbastanza artificiosa fra sostegno scolastico e lavoro di assistenza, col passaggio di quest’ultima parte agli Enti Locali, che hanno appaltato il tutto ad agenzie private più o meno grandi e più o meno fameliche, che a loro volta in talune situazioni hanno finito col chiedere con vari pretesti, soprattutto alle famiglie dei gravi, integrazioni di carattere finanziario assolutamente non dovute. Fino al sostanziale abbandono di ogni serio progetto sugli inserimenti dei piccolissimi disabili nei nidi e nelle scuole per l’infanzia.
Oggi però, con le proposte della cosiddetta “Buona Scuola” ci troviamo di fronte ad uno stravolgimento dei ‘fondamentali’ del sostegno. Da quel che sembra (ma come al solito mancano i decreti attuativi, sui quali peraltro il governo ha chiesto carta bianca) si procede: 1. trasformando i docenti di sostegno in tutor che operano fuori delle classi, alle quali prestano un’opera di consulenza; 2. I tutor di sostegno diventano degli specialisti per patologia; 3. Mentre tutti i docenti devono fare un aggiornamento sulla disabilità e con ciò praticamente impegnarsi a tenere in classe i discenti disabili.
Quindi, probabilmente influenzati dalla sostanziare rinuncia da parte delle ASL ad impegnarsi a livello di base sulla disabilità, si cerca di fare tutto in casa.
Ma nel far questo si appronta una pseudo-sanitarizzazione dei docenti di sostegno, che a mio avviso oltretutto prelude ad una contrazione dell’offerta di sostegno (basterà sostenere che su certe ‘patologie’ non ci sono docenti di sostegno adatti).
E soprattutto si apre una costosa campagna di aggiornamento per i docenti che si presume affidata ai soliti noti (possibilmente filo-governativi) e contemporaneamente – di fronte alla inanità di questo assetto destinato da subito a fare acqua ed a disintegrare ciò che resta del modello di cui finora abbiamo menato vanto nel mondo – si ara furbescamente il terreno per altre soluzioni più radicalmente dis\integranti.
Si parte con i processi di aziendalizzazione che contraddistinguono sia i governi di centrodestra che quelli di centrosinistra della nascente seconda repubblica. Infatti fra i corollari del processo di aziendalizzazione vi sono da una parte l’appalto di porzioni crescenti di welfare al privato no profit e profit, dall’altra l’ingrottamento di una parte della cura che viene scaricata sulle spalle delle famiglie e in particolare delle donne[8].
Nel caso dei disabili ciò si verifica soprattutto a monte, cioè alla fine dell’obbligo scolastico, con l’appalto al privato dei servizi per gli adolescenti e gli adulti disabili; ed a lato con la continua opera di sfoltimento dei contributi che lo stato eroga alle famiglie che implicitamente finiscono con lo scaricare il peso del sostegno sulle spalle delle famiglie stesse.
Si prosegue con la deterritorializzazione dei servizi sanitari e con la contemporanea chiusura delle “grandi canne d’organo” (dei grandi servizi) che sconvolgono il rapporto fra attività di base e specialistica e minano alla radice il rapporto con la scuola.
Nel vecchio schema, al contrario di ciò che accadeva per la specialistica, le attività di base erano territorializzate. Per cui ad esempio nel caso dei disabili in età evolutiva i tecnici operanti in un determinato territorio circoscritto erano tenuti a rispondere delle attività di base di cui avevano bisogno i disabili di quel territorio, inseriti nelle scuole che lì erano ubicate; ed erano in rapporto con i servizi sociali lì operanti. Tutti conoscevano tutti e ciò definiva un vincolo rispetto alle attività di base.
La centralizzazione dei servizi invece, svincolando la segnalazione dall’appartenenza territoriale, svincolò anche il rapporto dei tecnici con le scuole e i servizi sociali creando situazioni abnormi in base alle quali in una scuola, o addirittura in una classe(!) oggi è possibile che ci sia una pletora di tecnici che non si coordinano fra di loro e non hanno alcuna preoccupazione di definire una alleanza operativa con docenti e dirigenza.
Come corollario di questo già grave problema si va sedimentando nel tempo un disinteresse per le attività di base, un abbandono di ogni preoccupazione per le famiglie che sempre più si auto-organizzano per supplire a queste carenze, ed una esaltazione per la specialistica: si va dall’operatore re della strada re della foresta territoriale ad un supertecnico che non leva il culo dal suo ambulatorio neanche a cannonate. Cosa sedimenta questo nel rapporto con la scuola basta chiederlo a qualsiasi docente.
E questo a sua volta sta portando allo svilimento della triangolazione fra scuola, sanità e sociale, accentuato qui in Emilia dal fatto che ormai i burocrati della Regione hanno affidato (pare per motivi venali) la certificazione di disabilità ai medici legali. Che intanto non sono granché competenti in materia, ma che soprattutto creano una divaricazione sia con il prima che con il dopo. Con il prima, cioè con chi ha fatto la diagnosi. Con il dopo cioè con tutto il percorso successivo; in una parola con le successive ragioni di carattere riabilitativo ed educativo.
La chiusura dei grandi servizi (il Materno Infantile) e la nascita di servizi spesso monoprofessionali minano ancor più il lavoro col disabile, che non richiede una generica disposizione alla poliprofessionalità, ma anche una poliprofessionalità che sia capace di rivedere e riadattare continuamente nel tempo ed in base alle mutanti esigente del paziente il piano riabilitativo.
Se poi coniughiamo questo fatto con l’affido dei disabili al privato, che persegue fini eteronomi rispetto alla cura, facilmente rischieremo di trovarci di fronte a programmi riabilitativi decotti, se non ‘morti’.
Altro elemento connesso con i processi di privatizzazione è l’oggettivazione del disabile che, superata l’età dell’obbligo e avviato nei luoghi privati di cura, all’improvviso viene sottoposto alle leggi del profitto o del pareggio di bilancio; perde il suo spessore di soggetto e diventa – con tutte le eccezioni che però sono il frutto solo della dedizione personale di tecnici e volontari – una variabile dipendente rispetto alle più materiali e centrali ragioni che sono alla base dell’appalto.
Un processo parallelo è avvenuto in questi anni dentro la scuola: si va dal taglio delle ore di sostegno, alla continua indecisione circa i percorsi formativi abilitanti al sostegno, con conseguante disorientamento circa la propria identità professionale da parte dei docenti di sostegno; alla separazione abbastanza artificiosa fra sostegno scolastico e lavoro di assistenza, col passaggio di quest’ultima parte agli Enti Locali, che hanno appaltato il tutto ad agenzie private più o meno grandi e più o meno fameliche, che a loro volta in talune situazioni hanno finito col chiedere con vari pretesti, soprattutto alle famiglie dei gravi, integrazioni di carattere finanziario assolutamente non dovute. Fino al sostanziale abbandono di ogni serio progetto sugli inserimenti dei piccolissimi disabili nei nidi e nelle scuole per l’infanzia.
Oggi però, con le proposte della cosiddetta “Buona Scuola” ci troviamo di fronte ad uno stravolgimento dei ‘fondamentali’ del sostegno. Da quel che sembra (ma come al solito mancano i decreti attuativi, sui quali peraltro il governo ha chiesto carta bianca) si procede: 1. trasformando i docenti di sostegno in tutor che operano fuori delle classi, alle quali prestano un’opera di consulenza; 2. I tutor di sostegno diventano degli specialisti per patologia; 3. Mentre tutti i docenti devono fare un aggiornamento sulla disabilità e con ciò praticamente impegnarsi a tenere in classe i discenti disabili.
Quindi, probabilmente influenzati dalla sostanziare rinuncia da parte delle ASL ad impegnarsi a livello di base sulla disabilità, si cerca di fare tutto in casa.
Ma nel far questo si appronta una pseudo-sanitarizzazione dei docenti di sostegno, che a mio avviso oltretutto prelude ad una contrazione dell’offerta di sostegno (basterà sostenere che su certe ‘patologie’ non ci sono docenti di sostegno adatti).
E soprattutto si apre una costosa campagna di aggiornamento per i docenti che si presume affidata ai soliti noti (possibilmente filo-governativi) e contemporaneamente – di fronte alla inanità di questo assetto destinato da subito a fare acqua ed a disintegrare ciò che resta del modello di cui finora abbiamo menato vanto nel mondo – si ara furbescamente il terreno per altre soluzioni più radicalmente dis\integranti.
[1] Ma il manicomio reggiano (il San Lazzaro, di cui il De Sanctis era un reparto) è coevo della Salpetrière
[2] Foucault M., La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano, 1978
[3] cfr.: Angelini L., Bertani D., Bilancia G., Bonner J., Confetti V., Eleuteri E., Mishto J., Polletta G., Tromellini C.; Deistituzionalizzazione. L’esperienza del “De Sanctis” di Reggio Emilia, La Nuova Italia, Firenze, 1977
[4] le Case di Carità rimasero in piedi, ed ancor’oggi funzionano perché statutariamente non sono mai state in rapporto col ‘pubblico’.
[5] La definizione è di Diego Napolitani, in: "La struttura intermedia nel panorama psichiatrico", "Psicoterapia e scienze umane", N° 4, 1986, pagg. 74/86
[6] Si tenga presente che invece in Francia lo psicologo era collocato alle dipendenze della direzione scolastica, diventando in questo modo troppo subordinato alla scuola, e perciò privo di autonomia.
[7] Tracce che testimoniano l’importanza che il gioco aveva per noi ‘reggiani’ è nella scheda di diagnosi funzionale e profilo individuale che usavamo a Reggio Emilia –
[8] cfr. di L. Angelini: Istituzioni del welfare e prassi amministrativa a Reggio Emilia, in: Quando saremo a Reggio Emilia, Psiconline, Francavilla al Mare, 2014 , pp. 23\57
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