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Divorzio dal corpo: il San Narciso di T. S. Eliot
25 Ott 17
A cura di Sabino Nanni
Il rapporto col nostro corpo non sempre è come dovrebbe essere: le alterazioni dell’esperienza somatica possono andare da lievi e passeggere preoccupazioni ingiustificate riguardo alla nostra salute fino a convinzioni intense e persistenti riguardo a gravi minacce che incombono sul fisico (come nell’ipocondria) che possono assumere le caratteristiche di un delirio. Il corpo, con le sue normali esigenze, può esso stesso esser vissuto come minaccioso (come nell’anoressia mentale), oppure deformato (come nel dismorfismo corporeo), oppure divenuto estraneo (come nella depersonalizzazione somato-psichica). L’alterazione del rapporto tra mente e corpo può arrivare al “divorzio” tra i due. Questo ha spesso carattere difensivo, avendo lo scopo di circoscrivere alla sfera somatica uno sconvolgimento che, altrimenti, comprometterebbe anche la mente, in tutte le sue componenti. Ne abbiamo un’illustrazione ne: “La morte di San Narciso” di T. S. Eliot. Qui troviamo preziosi suggerimenti riguardo al modo in cui si produce una grave alterazione dell’esperienza corporea, e riguardo ad anacorési e ascetismo come tentativi di auto-guarigione.
Per quali motivi Eliot scelse una figura poco nota come Narciso da Gerusalemme? Quali furono le caratteristiche di questo santo che colpirono la sensibilità del Poeta? Della vita reale di Narciso disponiamo di poche notizie, spesso confuse col mito. Da fonte ecclesiastica [3] apprendiamo che “fu il trentesimo Vescovo cristiano di Gerusalemme, nato verso il 96, quando nella città erano ancor fresche le rovine della distruzione di Tito. Per quasi un secolo, egli vide la città di David faticosamente risorgere e ripopolarsi, ospitando, accanto agli Ebrei, una vasta comunità cristiana… Nonostante gli anni, fu Vescovo energico, tanto da attirarsi l'odio dei corrotti e dei disonesti, i quali si sentirono minacciati dalla sua severità. Per difendersi, pensarono di attaccare, diffondendo una terribile calunnia sul suo conto. La storia non ci dice quale fosse questa calunnia, ma ricorda che fu confermata da solenni giuramenti da parte degli accusatori… Per evitare ogni scandalo il vecchio Vescovo, benché innocente, preferì lasciare la città”. Un’altra fonte [12] ci precisa che “accusato da un detrattore di un crimine non commesso, Narciso decise di ritirarsi nel deserto per darsi alla vita anacoretica”. La sua storia, nella narrazione ecclesiastica, è a lieto fine. Vi si legge che i calunniatori “furono colpiti da terribili castighi [di Dio], finché qualcuno rivelò la menzogna. Tutti pensavano però che il Vescovo, ormai riabilitato, fosse morto nel frattempo, perciò un altro fu eletto a succedergli, e dopo di questo, un altro ancora. Alla morte del secondo, San Narciso ricomparve a Gerusalemme, e i fedeli lo riportarono con grande onore sulla Cattedra vescovile. Vi restò ancora molti anni…Da una lettera del suo coadiutore, che fu Sant’Alessandro, conosciamo le ultime notizie sul conto del longevo Vescovo di Gerusalemme: “Narciso vi saluta, – si legge. – Ha compiuto centosedici anni, e vi esorta, come me, a mantenere la concordia”…”.
Dall’eccezionale longevità del personaggio, come ci viene narrata, dobbiamo desumere che la sua salute fisica sia stata a lungo eccellente, ed il suo rapporto col corpo sufficientemente buono da consentirgli una cura adeguata delle sue necessità materiali. Diversa, e tragica nel suo esito, fu la vicenda creata dall’immaginazione poetica di Eliot [5, pag. 42 e seg.]. Lo capiamo fin dai primi versi:
Come under the shadow of this gray rock
Come in under the shadow of this gray rock And I will show you something different from either Your shadow sprawling over the sand at daybreak, or Your shadow leaping behind the fire against the red rock: I will show you his bloody cloth and limbs And the gray shadow on his lips.
(Venite all’ombra di questa roccia grigia / entrate all’ombra di questa roccia grigia, / e io vi mostrerò qualcosa di diverso / dall’ombra vostra che all’alba si stende sulla sabbia, / dall’ombra vostra che balza oltre il fuoco sulla roccia rossa: / vi mostrerò la sua veste e le membra insanguinate / e l’ombra grigia che sta sulle sue labbra).
Compare, qui, un cadavere insanguinato. Si tratta, quindi, di una morte violenta, ben diversa dalla fine naturale a tarda età descritta più sopra. Lo scenario è quello delle rocce desertiche: il San Narciso di Eliot non ritorna a Gerusalemme, riabilitato e onorato, ma muore in esilio e l’esperienza di anacorési termina con la fine della sua vita. Eliot non menziona la grave offesa che costrinse Narciso a scegliere l’esilio, tuttavia descrive acutamente le conseguenze che tale ferita narcisistica ebbe sulla sua mente, in particolare sul suo vissuto corporeo:
He walked once between the sea and the high cliffs When the wind made him aware of his limbs smoothly passing each other And of his arms crossed over his breast. When he walked over the meadows He was stifled and soothed by his own rhythm. By the river His eyes were aware of the pointed corners of his eyes And his hands aware of the pointed tips of his fingers.
(Una volta camminava tra il mare e le alte scogliere / quando il vento lo rese consapevole delle sue membra che soavemente / oltrepassavano l’una l’altra / e delle proprie braccia incrociate sul petto. / Camminando sui campi / fu trattenuto e lenito dal suo ritmo. / Vicino al fiume / i suoi occhi divennero coscienti degli angoli appuntiti dei suoi occhi / e le sue mani divennero coscienti / delle punte appuntite delle dita)
L’attenzione di Narciso si concentra bizzarramente su dettagli particolari del suo aspetto e dei suoi movimenti spontanei, come se li scoprisse per la prima volta. È evidente, qui, che egli cerca di contrastare l’incipiente estraniazione dal suo corpo. Notiamo che questo sforzo di ristabilire un’unione con se stesso è favorito dal contatto con Madre Natura: il mare, il vento, i campi, il fiume. All’opposto, la vicinanza dei propri simili (coloro da cui si è sentito tradito) non fa che peggiorare la situazione:
If he walked in city streets He seemed to tread on faces, convulsive thighs and knees.
(Se camminava per le vie della città / sentiva di calpestare volti, cosce, e ginocchia convulse)
In contrasto con l’intimità vivificante del contatto con la Natura, la vicinanza degli esseri umani è vissuta da Narciso come promiscuità tormentosa e distruttiva: come egli è stato “calpestato” nella sua dignità dai propri simili, ora si sente costretto, a sua volta, a “calpestarli”. È chiara, qui, la reificazione della metafora, e lo spostamento del conflitto da una dimensione spirituale ad una materiale e corporea. La contrapposizione tra materia e spirito, tra umano e divino, diviene netta:
Struck down by such knowledge He could not live men’s ways, but became a dancer before God
(Colpito da una tale conoscenza / non poté vivere al modo degli uomini, ma divenne danzatore avanti a Dio) So he came out under the rock
(Così venne sotto la roccia)
Allontanarsi dagli uomini, dal loro modo di vivere, e soprattutto dalla dimensione corporea della loro esistenza, diviene condizione necessaria, per Narciso, per rifugiarsi nella vita spirituale e da essa trarre la possibilità di medicare le ferite inflitte alla propria vita interiore dai suoi simili. Egli lo fa divenendo “danzatore avanti a Dio”. Proviamo a tradurre quest’espressione religiosa in termini laici, ossia descrittivi di ciò che è osservabile (termini che lasciano alla scelta individuale la decisione se ciò che è descritto è o non è inquadrabile anche in una dimensione trascendente). Qui, trattandosi di realtà interiore, lo strumento d’osservazione non può che essere la nostra capacità di comprensione introspettivo-empatica. Ciò che i credenti chiamano “Dio”, nella realtà terrena della psicologia del profondo, corrisponde a (o è espresso da) un “Oggetto Arcaico” idealizzato ed interiorizzato. Esso è il principale sostegno della vita interiore, così come lo fu la madre all’inizio della vita. A questo rapporto di tipo arcaico si può ritornare occasionalmente, soprattutto in caso di crisi delle risorse abituali, in una sorta di “emotional refueling” adulto. Ciò avviene nel corso di esperienze d’ispirazione creativa, di rapimento di fronte a manifestazioni di bellezza e grandiosità, di estasi mistica [10]. Ma perché “danzatore” avanti a Dio? Danzare vuol dire esibirsi, ossia veder rispecchiati nell’Oggetto Arcaico la propria esistenza ed il proprio valore, ed è questa la fonte principale del nostro sentimento d’esistere e di valere. [8, pag. 434].
Nonostante le sue risorse spirituali, le condizioni di Narciso peggiorano: First he was sure that he had been a tree, Twisting its branches among each other And tangling its roots among each other.
Then he knew that he had been a fish …………………………………………
(Prima fu certo d’essere stato un albero, / con i suoi rami che si contorcono insieme / e le radici che insieme s’aggrovigliano. – Quindi si rese conto d’essere stato un pesce…)
L’attacco al suo Sé psicocorporeo, che aveva mediato i suoi rapporti con gli uomini traditori, fa perdere a Narciso la sua identità umana. Quando, poi, egli cerca di recuperarla, tornando ad identificandosi con i suoi simili, il risultato è ancora più perturbante:
Then he had been a young girl Caught in the woods by a drunken old man Knowing at the end the taste of his own whiteness The horror of his own smoothness, And he felt drunken and old.
(Poi era stato una giovane fanciulla / trascinata nei boschi da un vecchio ubriaco, / e aveva infine provato il gusto della sua bianchezza / l’orrore della sua levigatezza, / e anch’egli si sentì vecchio e ubriaco)
È, qui, evidente la fantasia vivida di un rapporto omosessuale ambivalente, violento, che si risolve in una fusione annientante con l’oggetto: la stessa fantasia che inaugura l’episodio di schizofrenia paranoide nel Presidente Schreber [6]. Lo sconvolgimento nel vissuto corporeo rischia, pertanto, di sconfinare nel territorio della mente, compromettendone la dimensione spirituale. Il corpo vissuto è ormai tropo danneggiato; è divenuto pericoloso, e non basta più mortificarlo col digiuno, occorre sopprimerlo. Solo a questo modo potrà proseguire indisturbata la “danza avanti a Dio”:
Then he became a dancer to God Because his flesh was in love with the burning arrows He danced on the hot sand Until the arrows came. As he embraced them, his white skin surrendered itself to [the redness of blood, and satisfied him. Now he is green, dry and stained With the shadow in his mouth.
(Così divenne un danzatore di Dio / poiché la carne aveva desiderio delle frecce ardenti / danzò sulla sabbia infuocata / finché le frecce giunsero. / E come abbracciava la sua pelle bianca / si arrese al rosso del sangue, e se ne soddisfece. / Ora egli è verde, maculato ed arido / con l’ombra nella bocca)
Nella visione di Eliot, la scelta della vita anacoretica come tentativo auto-terapeutico fallisce completamente; almeno così concluderemmo noi medici, basandoci sulla nostra concezione attuale di “salute” e “guarigione”. Nella versione dei fatti della Chiesa, al contrario, San Narciso ritorna dal deserto completamente ristabilito nell’anima e nel corpo, tanto da poter vivere fino a centosedici anni! Che valore terapeutico possiamo, quindi, attribuire all’anacorési? Vediamo, innanzi tutto, esattamente di che si tratta.
L’anacorési è definita come la scelta di chi, di chi “abbandonando la vita attiva e il consorzio degli uomini, si ritira nel deserto a pregare e digiunare” [9, pag. 585]. Riconosciamo, qui, tre aspetti essenziali: 1) l’interruzione di ogni rapporto diretto e attivo coi propri simili 2) la mortificazione della carne (il digiuno) 3) il contatto esclusivo con Dio (la preghiera). Nella sua trasfigurazione poetica della storia di Narciso, Eliot chiarisce il senso di questi tre aspetti, ed il nesso che esiste tra di essi. Narciso è stato gravemente calunniato e offeso: il mondo degli uomini ha “calpestato” il suo onore. Egli deve, pertanto, allontanarsene per non sentirsi spinto, a sua volta, a “calpestare” per ritorsione i propri simili. Il suo corpo, come avviene per tutti, ha mediato i rapporti con gli altri esseri umani: avvertendone la presenza, egli ha usato gli occhi per guardarli, le orecchie per sentire la loro voce, la bocca per parlare loro. Il corpo, inoltre, è strettamente legato alla vita pulsionale e, data l’offesa subìta, le pulsioni prevalenti in Narciso sono, in questo momento, prevalentemente di tipo aggressivo: l’impulso vendicativo a “calpestare” chi lo ha “calpestato”. Il corpo, quindi, minaccia la purezza spirituale di Narciso. Egli trova, dapprima, ristoro nel contatto con Madre Natura (l’erede della “environmental mother” invisibile della prima infanzia [13]), ma si tratta di una realtà troppo concreta, corporea. Ciò che può veramente ripristinare la sua purezza spirituale (l’integrità del suo Sé) è divenire “danzatore avanti a Dio”. Per affermare il primato della sua vita spirituale su quella materiale, Narciso, come gli altri anacoreti, deve dimostrare un totale dominio sulla carne, e ciò lo ottiene reprimendo la pulsione corporea più potente e vitale: quella della fame. Da sempre la capacità d’imporsi il digiuno suscita stupore e ammirazione; ne diedero prova molti santi, e ciò contribuì a conferir loro grande autorevolezza e potere, come nel caso di Santa Caterina da Siena [4]. L’aver salvaguardato da ogni interferenza corporea la propria vita spirituale (lo “emotional refueling” ottenuto “danzando avanti a Dio”, ossia il ripristinato “mirroring” da parte dell’Oggetto Arcaico interiorizzato), il rafforzamento dell’autostima, il riconoscimento del suo valore da parte dei propri simili (che, probabilmente, contribuì alla sua riabilitazione): tutti questi fattori spiegano l’esito favorevole e il “lieto fine” della vicenda di San Narciso così come ci viene narrata dalla Chiesa. Fattori dello stesso genere spiegano anche come mai nelle odierne anoressiche (benché qui non esista alcun elevato fine spirituale), la mortalità sia relativamente bassa: il 5% ogni dieci anni [2, pag. 342], a dispetto delle gravi alterazioni somatiche provocate dal digiuno protratto. La ripristinata integrità e la maggior saldezza della vita interiore rendono meno minaccioso il corpo: l’individuo può, così, ritornare a prendersene cura.
Diversa e tragica è, come abbiamo visto, la vicenda di San Narciso come immaginata da Eliot. Credo che il Poeta, più che quelli del II° secolo, avesse presente gli uomini del suo e del nostro tempo. Oggi si attribuisce meno valore (o non se ne attribuisce affatto) alla vita spirituale. Un anacoreta, ai nostri tempi, avrebbe meno possibilità di trarre dalla sua scelta un motivo per rafforzare la propria autostima, ed otterrebbe con meno probabilità un riconoscimento (un “rinforzo positivo”, o conferma narcisistica) dai propri simili. C’è, qui, un fatto, a mio avviso, di capitale importanza: l’affermarsi di una cultura laicista, privando di valore la religione, ha finito per svalorizzare anche le esigenze della vita interiore. Per capire la gravità di questo fatto non è necessario essere credenti: Feuerbach, il filosofo dell’ateismo, non sostenne mai che i concetti religiosi fossero sciocchezze; egli riteneva che le dottrine religiose descrivessero verità della vita interiore proiettate in una presunta dimensione trascendente. Avendo perso il linguaggio della religione, l’uomo moderno ha perso anche le parole per descrivere il mondo interno. Unica eccezione: la psicoanalisi (soprattutto nei suoi sviluppi kohutiani) che, tuttavia, è svalutata dal pensiero laicista di tipo materialista o relativista.
Un’ultima considerazione riguardo al nome del Santo che colpì l’immaginazione poetica di Eliot: Narciso. Nel documento ecclesiastico citato più sopra leggiamo: “Nella mitologia, Narciso era stato l'infelice giovinetto che, per la sua bellezza, si era innamorato di se stesso, morendo miseramente in una polla d'acqua che, come uno specchio, rifletteva la sua immagine. Il mitologico Narciso è dunque simbolo di amore sterile ed egoista, e di bellezza inutile e senz'anima. Ben diversa, anzi opposta, è – per fortuna – la figura del Santo di oggi, che con il triste giovane della mitologia non ebbe in comune altro che il nome.” C’è qui un’interpretazione del mito di Narciso superficiale e moralistica. Quello del Narciso del mito non è soltanto un amore “sterile ed egoista” per se stesso, è anche e soprattutto un amore tormentoso. Egli cerca di trovare la sua immagine riflessa (e, con essa, il sentimento della propria esistenza e della propria identità) non in una “polla d’acqua” qualsiasi, ma nella fonte di cui la madre Lirìope era la ninfa. Questa rappresenta simbolicamente lo sguardo materno nel cui riflesso egli, come tutti noi in età precoce, cerca una conferma narcisistica di fondamentale importanza. Gli occhi ammirati della madre, tuttavia, possono catturare, come succede all’infelice giovane [11, pag. 24 e seg.]. Nel caso di Narciso, la madre rispecchiante rimanda al figlio un’immagine idealizzata, forgiata in base alle esigenze narcisistiche materne ed incapace di rispecchiare la reale natura del bambino: un’immagine splendida e falsa. In Narciso, anziché un effettivo “mirroring” capace di rafforzare il vero Sé ed il sentimento della propria esistenza e della propria individualità (e quindi favorire una propria vita autonoma), si riattivano istanze fusionali regressive. Nei termini di una disamina recente del delirio: si tratta di un rapporto in cui dominano la “reconnaissance” e la “méconnaissance” ed è assente la “connaissance”; caratteristica, questa, tipica della percezione delirante [7, pag. 750]. Quello di Narciso con se stesso è quindi, più che altro, un rapporto malato: il rapporto di chi ha perso il contatto (o non l’ha mai trovato) con il suo vero Sé. L’individuo può sopperire a questa grave carenza iperinvestendo affettivamente il proprio corpo o la propria mente (come nel narcisismo patologico), oppure cercando un’esperienza spirituale risanante (un “emotional refueling”) come San Narciso e gli anacoreti in generale. San Narciso rientra, quindi, tra quei casi in cui si può rilevare un “potere determinante del nome” [1]. Il nome riflette le fantasie, i desideri e le paure dei genitori proiettati sul bambino appena nato. Esso può, quindi, esercitare una potente influenza sul destino di ogni persona. Nel caso di San Narciso tale influenza facilitò l’estraniazione da quella parte di sé, spesso scomoda per tutti noi, che è il corpo. Contribuì a produrre una vita tormentata e, forse, il suo infelice destino.
Bibliografia
1. Abraham Karl (1911) Sul potere determinante del nome (Abraham Opere Vol. 1 – Boringhieri 1975)
2. American Psychiatric Association (2013) DSM-5 Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders. Fifth Edition (American Psychiatric Association)
3. Archivio parrocchiale (http://www.santiebeati.it/dettaglio/90411)
4. Bell Rudolf M. (1985) La santa anoressia. Digiuno e misticismo dal Medioevo a oggi (Laterza 2002)
5. Eliot Thomas Stearns (1911) Poesie della prima giovinezza (in: Opere, vol. 1 1904 – 1939 – Bompiani 1992)
6. Freud Sigmund (1910) Osservazioni psicoanalitiche su un caso di paranoia (dementia paranoides) descritto autobiograficamente (Caso clinico del presidente Schreber) (O.S.F. Vol. 6 – Boringhieri – 1974)
7. Kapsambelis Vassilis (2013) Interpréter le délire: sens et contre-sens (Revue Française de Psychanalyse Vol. 77, N° 3)
8. Kohut Heinz (1966) Forms and transformations of narcissism (The search for the self. Selected writings of Heinz Kohut: 1950 – 1978 Vol. 1 International Universities Press 1978)
9. Lessico Universale Italiano (vol. 1 – 1963)
10. Nanni Sabino (2014) “Se Dio non esistesse bisognerebbe inventarlo” Oggetto arcaico e delirio (Psychiatry on line, 2014, XX – http://www.psychiatryonline.it/node/5213" \t "_blank)
11. Shengold Leonard (1995) Delusions of everyday life (Yale University Press)
12. Wikipedia (https://it.wikipedia.org/wiki/Narciso_di_Gerusalemme)
13. Winnicott Donald W. (1965) The maturational processes and the facilitating environment (The Hogart Press and the Institute of Psycho-Analysis 1985)
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