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Dott.ssa M. V. Miotti, Dott. G. Merlin: ALLEANZA TERAPEUTICA E “CASI DIFFICILI” NELLA PSICOTERAPIA BREVE DELLA CRISI EMOZIONALE

28 Nov 12

Di FRANCESCO BOLLORINO

 

Introduzione

In questo lavoro cercheremo di delineare le difficoltà che possono insorgere nell’instaurare e nel mantenere una buona relazione terapeutica nel campo di cui ci occupiamo, dal punto di vista clinico e della ricerca, da più di un decennio prima come terapeuti e poi come supervisori: la psicoterapia breve della crisi emozionale (Pavan 1993).

Nell’intervento di Psicoterapia breve della Crisi Emozionale (PCE), lo psicoterapeuta ricerca attivamente l’alleanza terapeutica per aumentare la motivazione del paziente alla terapia, per rendere agile e fattiva la comunicazione, per ottenere una conclusione soddisfacente.

Trattandosi di una funzione alquanto complessa che comprende elementi di tecnica ma anche elementi strettamente caratteristici dello psicoterapeuta, la sua realizzazione e le sue funzioni sono subordinate alla realizzazione di una dualità molto particolare corrispondente all’unicità di ogni singolo caso trattato. L’indispensabile neutralità dello psicoterapeuta non può essere messa in discussione ma chi ha esperito, come terapeuta, una qualsiasi forma di psicoterapia sa quante insidie all’alleanza terapeutica possano nascondersi anche nei casi apparentemente più semplici. Giordano Fossi ad esempio, sintetizzando un concetto espresso anche da Eugenio Gaddini, afferma : "è illusorio ritenere che una valutazione, per quanto realistica, si sottragga all’influenza del passato personale di chi la pratica".

L’alleanza terapeutica è costituita dagli aspetti di empatia di cui entrambi i soggetti della coppia psicoterapica sono capaci.

E se il terapeuta deve essere consapevole di questa funzione è pur vero che il paziente ha un ruolo determinante nella capacità di descrivere l’autenticità del suo disturbo.

L’alleanza terapeutica migliora la qualità del trattamento e i risultati, rende il paziente più sicuro e lo psicoterapeuta più soddisfatto, anche indipendentemente dall’avere conseguito uno scopo inizialmente prefisso.

La letteratura ci presenta una grande varietà di descrizioni e considerazioni sull’alleanza terapeutica che vanno dal pragmatismo statunitense del "come ottenere" questa alleanza fino alle raffinate considerazioni psicoanalitiche sul significato della "compassione" (Lopez) nella relazione con il paziente.

 

ALLEANZA TERAPEUTICA nella Psicoterapia breve della Crisi Emozionale (PCE) : difficolta’ e opportunita’ legate all’urgenza e alla precocita’ dell’indicazione terapeutica

Il lavoro terapeutico nella crisi si sostanzia essenzialmente in una relazione di aiuto , in cui paziente e terapeuta condividono inizialmente il sentimento di empasse, di vicolo cieco : il paziente come dolorosa esperienza personale , il terapeuta attraverso un sentimento di partecipazione empatica . Lo svolgimento del processo terapeutico ha la funzione di permettere al paziente , attraverso il sostegno e la comprensione della situazione psicologica attuale , di aprire una prospettiva di evoluzione , alla luce anche della storia personale precedente ..

Dal punto di vista tecnico cio’ che la caratterizza rispetto alle altre psicoterapie brevi , con le quali condivide i due aspetti fondanti della brevita’ e della focalizzazione , e’ il proporsi come una indicazione terapeutica in situazioni connotate dall’ urgenza ( Miotti , 2004 )

Ne discendono alcuni aspetti peculiari quali :

1-assenza di lista d’attesa ,

2-assenza di una richiesta specifica di psicoterapia da parte del paziente ,

3-scarsa a volte assente percezione da parte del paziente della componente psicologica nel disagio attuale ,

4-aspetti peculiari nell’assetto psicologico del paziente .

 

Il primo incontro col terapeuta non e’ quindi preceduto da un processo decisionale e motivazionale da parte del paziente , come avviene in genere nelle altre psicoterapie .

Questo comporta che il terapeuta , già inizialmente possa trovarsi in una situazione "difficile" ’, nei casi clinici che presenteremo ne proporremo tre delle tante possibili :




  1. quella di confrontarsi con una domanda non esplicita e di dover costruire insieme al paziente una motivazione prima ancora di un’alleanza terapeutica ;
  2. all’opposto quella di trovarsi di fronte ad una persona che richieda soluzioni salvifiche in una condizione di totale passivita’ ;
  3. quella di trovarsi di fronte ad una persona che lotta potentemente negando un bisogno di aiuto .

Si tratta di situazioni che possono sollecitare emotivamente il terapeuta al punto di provocarne un ritiro difensivo dalla relazione autentica col paziente , privando cosi’ paziente e terapeuta , dello strumento conoscitivo e terapeutico essenziale ( Roveroni, 2004) : l’incontro partecipe e significativo di una persona con le vicende vitali di un’ altro essere umano .

Le Risposte Difensive che il terapeuta puo’ mettere in atto, e che possono minare la possibilita’ di costruire una prospettiva di lavoro col paziente in crisi , sono:




  1. atteggiamenti di tipo operativo-efficientistico ( eccesso di attivita’)
  2. atteggiamenti di tipo oblativo ( difetto di attivita’ )
  3. tecnicismo ( con un’attenzione piu’ rivolta alla patologia che alla persona )
  4. rimandare ad altri operatori

Il grado di sostegno che il terapeuta della crisi e’ in grado di fornire , tenendo conto che la metà dei pazienti presenta un disturbo di personalita’ ( Marchiori , 2003 ) e che quindi , anche una volta avviata la terapia e superata la fase iniziale, si tratta comunque di pazienti " difficili" riguardo alle dinamiche relazionali , dipende da alcune variabili anche personologiche del terapeuta quali :






1-la capacita’ di provare un sentimento di vicinanza emotiva verso pazienti gravemente sofferenti ma anche regrediti o verbalmente aggressivi e svalutativi, mantenendo una calda partecipazione in seduta

2- dalla personale capacita’ di tollerare la frustrazione , l’attesa , il sentimento di inutilita’

3- dalla fiducia nella terapia , pensata anche in termini di condivisione , partecipazione e testimonianza , soprattutto quando il peso degli eventi e’ particolarmente grave.

Andremo ora a proporvi tre casi clinici con l’intento di stimolare la discussione su tre situazioni problematiche che possono presentarsi a seguito di un invio nell’urgenza .

La prima esemplifichera’ le vicende di un primo colloquio : in cui il terapeuta si trova a confrontarsi con la mancanza di una richiesta esplicita da parte del paziente .

La seconda propone un primo colloquio : in cui il terapeuta si confronta con una richiesta di aiuto , formulata nel "linguaggio" di una paziente borderline .

La terza presenta le vicende riguardanti una terapia focalizzata su una problematica di copertura.

Il primo colloquio e’ un momento importante per saggiare se sara’ possibile e su quali basi avviare un progetto condiviso . Questo e’ preceduto dalla fase di attesa che , seppur breve , e’ sufficiente a creare delle aspettative e mobilitare delle difese , da ambo le parti .

La relazione terapeutica si rappresenta nella mente del terapeuta come una relazione di aiuto , l’aspettativa e’ quella di trovarsi di fronte una persona sofferente.

Cosa accade , a livello emozionale , nel terapeuta quando questa aspettativa viene disattesa?

Cosi’ racconta , in supervisione , il suo primo contatto con un paziente una terapeuta , alle prime esperienze di PCE :

" Massimo , 25 anni , inviato dal Pronto Soccorso per un Disturbo d’Attacco di Panico, entra nel mio studio , facendo un cenno di saluto con la mano , impegnato in una conversazione al cellulare , che continua anche una volta entrato , e che lo costringe ad una serie di contorsioni per liberarsi dal giubbotto. Vestito in modo curato, adeguato all’eta’, sembra scoppiare di salute. Mi propone un sorriso accattivante, forse di scusa; ma tradisce una certa ansieta’ e un imbarazzo, mascherati dall’affacendamento. Si siede lontano dalla scrivani , finche’ finisce la sua conversazione, poi si avvicina dicendo che: la madre preoccupata lo chiama spesso, per informarsi della sua salute. Racconta brevemente del DAP occorso due giorni prima, dicendo che l’hanno mandato da me quelli del Pronto Soccorso. Si chiede perché, dopotutto e’ passato, quella che loro hanno chiamato ansia, a lui e’ sembrato un infarto ed e’ per questo che si e’ spaventato, e, in fondo, lo e’ ancora. Tutti gli esami clinici sono negativi, gli hanno detto che non e’ niente di grave, non sa proprio cosa dirmi, non capisce perche’ l’abbiano inviato e mi chiede cosa ho da dirgli .

Una volta che ha passato la palla a me, scompaiono l’ansieta’ e l’imbarazzo, ed emerge una certa sfrontatezza nella mimica facciale. Si mette comodo, appoggia accuratamente il giubbotto sulle ginocchia e depone il cellulare sulla mia scrivania. L’atteggiamento e’ di chi, assolto il suo compito, e’ in attesa di cio’ che gli spetta."

La terapeuta confida in supervisione : " Lei lo sa che io finora ho lavorato con pazienti depressi o ospedalizzati , non mi e’ mai capitato di venire trattata in questo modo, come puo’ un paziente, che chiede il tuo aiuto, mostrarsi così indifferente, quasi sfrontato? Cosa potevo fare io per lui se non stava male? Chiedeva a me cos’avevo da dirgli…

Mi sentivo tesa, imbarazzata, impotente ed arrabbiata. Sono riuscita a tenere la palla in mano il tempo sufficiente per accorgermi, che si trattava di una situazione inaspettata, inusuale. Non mi veniva in mente niente, neanche delle letture fatte, mi sentivo spaesata e incompetente. Pensai che avrei potuto parlarne con lei e questo mi tranquillizzo’. Così non rilanciai, mi tenni la palla per tutta la seduta, e anche dopo che se ne ando’. In quel colloquio riuscii a raccogliere i dati anamnestici e le circostanze della vita precedenti l’attacco, riuscendo a concordare con lui gli altri due colloqui di valutazione. Ci congedammo con una certa difficoltà, perché , nella parte finale del colloquio, Massimo tendeva ad implementare le notizie che mi aveva fornito con sempre nuovi dati che, secondo lui, avrebbero potuto essermi utili. Mi trattava come se io avessi bisogno del suo aiuto. Alla fine mancava una sua pacca sulla mia spalla e il gioco era fatto: i ruoli invertiti ! " ( e , Io pensai, le rispettive identita’ sfumate ).

Vediamo come in questa vignetta clinica , quella che potremmo definire con Greenson ( 1978 ): "un’inibizione passeggera e specifica dell’empatia del terapeuta a prognosi benigna", si sia realizzata, laddove, la negazione del paziente ha inibito la valenza riparatoria della terapeuta, che, fino a quel momento, aveva rappresentato un buon parametro interno per valutare la sua competenza professionale. Si e’ manifestata cosi’ una collusione di un problema relativo all’identita’.

La vignetta ci aiuta a comprendere due diversi modi di risolvere la sofferenza relativa alla messa in discussione dell’immagine di se’.

Il paziente tende a negare la sofferenza e il bisogno dell’altro, tutto inizia e si conclude in quel DAP, il passaggio della palla, come l’ha definita la terapeuta, rappresenta l’espellere parti di se’ intollerabili, percio’ non riconoscibili come proprie, per poi ritrovarle nel mondo come altro da se’: e’ la mamma che si preoccupa per la sua salute, e’ la terapeuta che ha bisogno di dati per esprimere un responso. Tutto cio’ crea quei legami funzionali tra la persona e il mondo esterno, che non permettono una reale percezione di separatezza e di alterita’, impedendo una autentica dimensione relazionale.

La terapeuta , di fronte alle emozioni negative e’ in grado di contenerle, assume un atteggiamento di fiduciosa attesa, con l’aspettativa di capirne di piu’. Ma il contatto emotivo col paziente viene inibito e l’atteggiamento diventa operativo-efficientistico, non c’e’ scambio relazionale e non e’ possibile alcuna restituzione al paziente.

Concludendo possiamo dire che: se la relazione su un piano formale appare corretta, tuttavia l’interazione rimane superficiale, tecnicistica, emotivamente distaccata. Potremmo dire che c’e’ stato un incontro non significativo sul piano terapeutico.

A questo proposito mi sovvengono le parole della Turilazzi Manfredi ( 1994 ) che, a proposito del cambiamento, dice: "… e’ importante per il cambiamento che venga attivata una rappresentazione di se’ che era latente, e cio’ puo’ avvenire per l’azione di un’altra persona. Di questa categoria di incontri catalizzatori la psicoterapia sarebbe nient’altro che un caso particolare" e ancora "…per poter cambiare l’individuo deve avere la sensazione che qualcosa in lui rimane costante..": cio’ che non cambia, che rimane costante, sarebbero (secondo l’autrice ) i nuclei organizzatori del cambiamento stesso, fondanti il sentimenti di identita’.

A me sembra che cio’ che Massimo presenta alla terapeuta , in questo primo colloquio , sia , cio’ a cui non puo’ rinunciare , sono gli aspetti fondanti il suo senso di identita’ , che mette in scena , in modo cosi’ massiccio e difensivo , dopo che l’esperienza del panico e la paura della morte che l’accompagna ne avevano minacciato la perdita’ .

Percio’ , benche’ il rispetto delle difese , qualunque sia l’assetto in questa fase iniziale , sia una condizione preliminare a qualunque altro intervento , e’ pero’ importante spendere coi pazienti in crisi una parola di incoraggiamento e di fiducia in vista di una comprensione della situazione, piuttosto che assumere un atteggiamento passivamente neutrale. Ricordiamo infatti che la demoralizzazione , anche se non manifestata , e’ il sentimento comune nei pazienti che chiedono un colloquio e questa non puo’ che acuirsi in un contatto freddo , che non apra una prospettiva verso il futuro .

La funzione di contenimento ( in senso Bioniano ) e’ la prima funzione che il terapeuta della crisi e’ chiamato a svolgere presentandosi nella sua umana e interessata partecipazione, sia che si tratti di una richiesta esplicita del paziente , sia che si tratti di una richiesta negata , sia che si tratti di una richiesta agita .

  1. Assenza di richiesta : il caso di Massimo
  2. Richieste regressive-salvifiche : il caso di Maddalena






Nel versante opposto , a quello preso in considerazione , troviamo quei pazienti che manifestano una cieca fiducia nel trattamento , ben aldila’ di quello che possono , ragionevolmente , attendersi . ( …o meglio : proprio per potersi avvicinare all’altro , che sentono come "potente" , e che percio’ temono , hanno bisogno di aderire ad una cieca fiducia ) .

Cosi’ racconta il primo colloquio di una paziente borderline una terapeuta in supervisione.

" Maddalena 27 anni , impiegata , nubile , scolarita’ media , si presenta su indicazione dello psichiatra che , da circa tre anni , la segue per la terapia farmacologia . L’unico , a suo dire , che sia riuscito ad aiutarla per un tempo cosi’ lungo . Dall’eta’ di 20 anni infatti, epoca del suo primo tentativo di suicidio , e’ passata attraverso le cure di vari operatori dei servizi , sempre per tempi brevi , che via via cambiavano . La motivazione della richiesta attuale e’ che , avendo ormai provato tutti i farmaci in commercio , e , avendo sviluppato un’intolleranza fisica per le sostanze chimiche , il medico che l’ha tanto aiutata e che lei adora , le ha proposto , aggiunge , non sapendo piu’ che pesci pigliare , di affrontare i suoi problemi con "altri strumenti" . L’adorazione che prova nei confronti del medico , per proprieta’ transitiva , sente di averla anche per me , visto che il mio nome le e’ stato suggerito dallo stesso . Non ha dubbi sulla mia competenza , ma , si raccomanda , di tener conto che la sua e’ una patologia particolarmente difficile e delicata da trattare . Poi inizia a snocciolare i nomi ( moltissimi ) degli psichiatri che si erano occupati di lei tacciandoli di insensibilita’ , incompetenza , fino ad arrivare alla vera e propria inettitudine tanto che l’avevano portata a tentare il suicidio ben otto volte , di cui l’ultima un anno prima .

Alla richiesta di che cosa si attendesse dalla terapia , anche alla luce delle esperienze precedenti , risponde con un sorriso sarcastico ma tragico : " molto semplicemente lei e’ l’ultima spiaggia , mi aspetto che mi faccia star bene , io comunque non voglio piu’ soffrire ,percio’ , se lo faccio di nuovo , non sara’ uno scherzo…"

In supervisione la terapeuta porto’ tutti i fondati motivi che la orientavano ad escludere la possibilita’ di un trattamento breve .

La richiesta salvifica della paziente , l’idealizzazione del terapeuta e la svalutazione dei trattamenti precedenti , il rifiuto dei farmaci , i numerosi tentativi di suicidio , la mancata focalizzazione su un problema specifico , l’uso strumentale della minaccia di suicidio erano tutti elementi che , a detta della terapeuta , indicavano come piu’ indicata una psicoterapia a lungo termine con un terapeuta esperto . ( Io pensai che molti dei terapeuti che aveva nominato erano colleghi conosciuti e di indubbia esperienza nel trattamento di pazienti borderline e che lo psichiatra che aveva inviato la paziente aveva una familiarita’ con la PCE tanto da aver fatto finora invii appropriati ) .

Quando chiesi alla terapeuta come si sentiva durante la seduta e che impressione avesse di questa giovane donna : ebbe una certa difficolta’ a portarne un’immagine reale . Descrisse pero’ , con una certa dovizia di particolari significativi , soltanto il momento iniziale della seduta , dicendo che : si trattava di una bella ragazza , vestita in modo elegante , molto curata anche nel viso e nei capelli , con un bel fisico , forse un po’ troppo magra. Si era presentata in modo un po’ trionfale ma caldo , con una forte stretta di mano . Era entrata nell’ambulatorio ostentando una certa sicurezza anche nel portamento . Aveva lasciato , nella sala d’attesa , una donna piuttosto minuta , modestamente vestita , dimessa , probabilmente la mamma per la familiarita’ con cui la trattava . Si era presentata fornendo spontaneamente i dati di prassi , senza che fosse necessaria una richiesta della terapeuta , dall’inizio alla fine aveva monopolizzato la seduta . Ricorda dei brevissimi momenti di pausa , dopo le affermazioni piu’ forti emotivamente nel suo racconto , in cui la paziente si poneva in un atteggiamento fugace di ascolto , quasi a tentare di cogliere le reazioni della terapeuta , la quale esausta concluse la seduta fissando un nuovo appuntamento , orientata pero’ a non prendere in carico la paziente .

" Adesso che ne parlo " afferma la terapeuta in supervisione " sembra che mi abbia ipnotizzata , mi rendo conto che non le ho chiesto nulla dei fatti piu’ recenti e di quello che l’ha realmente condotta qui , praticamente e’ come se mi avesse letto una cartella clinica , ho incontrato la sua malattia non lei. "

Qualche commento viene speso dalla terapeuta anche riguardo alla figura in sala d’attesa , che le aveva suscitato un sentimento di pena e compassione . L’aspetto era quello di una donna svuotata , rassegnata , ripiegata su di se’ , in completa balia della figlia .

( Forse come avrebbe potuto ridursi la terapeuta se avesse accettato di prendere in cura la paziente , mi venne da pensare ).

In questo caso si e’ trattato di comprendere con la terapeuta se la sua rinuncia e " il rimandare ad altri piu’ esperti …" potesse essere considerata una risposta difensiva , sopraffatta dalla modalita’ relazionale della paziente , o se l’inopportunita’ di avviare un trattamento discendesse da una realistica impossibilita’ di aiutarla con un intervento breve nelle circostanze attuali , probabilmente una delle tante situazioni critiche che avevano disseminato la sua vita .

Non e’ mia intenzione in questa sede , commentare questo caso nei suoi sviluppi ulteriori.

Diro’ soltanto che : la paziente aveva sviluppato un pattern relazionale secondo il quale soltanto situazioni di alta’ drammaticita’ e pericolosita’ le garantivano una vicinanza emotiva , un’attenzione da parte degli altri che altrimenti , nelle sue attese , le sarebbe stata negata .

Quello su cui vorrei soffermarmi e’ il fatto che i pazienti borderline ( per definizione difficili ) sono in grado piu’ di ogni altro di suscitare nei terapeuti una gamma di risposte difensive di polarita’ opposte , proprio perche’ sembrano particolarmente attrezzati e allenati a cogliere nell’interlocutore stati emotivi e reazioni di allarme alle loro comunicazioni ; riproducendo nella relazione terapeutica , quella che e’ la loro percezione dell’altro come di qualcuno che passa tutto il tempo alla ricerca delle fragilita’ del paziente per poi colpirlo o umiliarlo.

Percio’ le risposte difensive del terapeuta possono spaziare da




  1. un franco rifiuto di prendersi cura di un tale fardello , ripiegando , quando non gli fosse possibile sottrarsi , su una relazione terapeutica normativa e di controllo svuotata del calore relazionale ; con un’attenzione focalizzata nel far rispettare i limiti ; fornendo un eccesso di frustrazioni , non bilanciate dall’affettivita’ , di cui questi pazienti hanno estremo bisogno , per non sentirsi abbandonati o rifiutati
  2. all’opposto reazioni di tipo salvifico : in cui i limiti non vengono piu’ rispettati e le richieste di sollecitudine aumentano costantemente di portata e qualita’ , riducendo il terapeuta come quella mamma in sala d’attesa
  3. ancora , reazioni di tipo competitivo : in cui il terapeuta si cimenta col paziente , accettando una sorta di sfida alla guarigione , in cui pero’ il premio in gioco e’ la vita stessa del paziente

 






Percio’ in questo caso , come in altri in cui si abbia a che fare con pazienti cosi’ esigenti , a me sembra che proporre un intervento cosi’ , se vogliamo , modesto ma che proponga una vicinanza negoziata in un momento difficile , vada nel senso di avviare , anche rispetto ai bisogni incontenibili , una sorta di possibile negoziazione , un accesso se vogliamo all’area dell’ambivalenza ( Miotti e Pavan , 1997 ) .




 

  1. Focalizzazione su una problematica di copertura : il caso di Mario






Questa e’ una difficoltà non infrequente in un intervento breve e urgente , che può richiedere una modificazione del focus concordato col paziente , alla luce di nuove acquisizioni in itinere , e una completa rivalutazione del caso.

Mario viene descritto dal terapeuta che lo ha in trattamento da un mese e mezzo in questo modo : " E’ un’ uomo fisicamente imponente di 50 anni , coniugato , con una figlia di 14 anni , lavora in una struttura ospedaliera . E’ stato inviato dal suo superiore perche’ , da circa otto mesi , la sua situazione lavorativa si era progressivamente degradata , essendo prima un dipendente solerte e generoso . Tutto inizia con una certa resistenza ad eseguire il suo mansionario , con polemiche su questioni poco rilevanti . La sua riluttanza inizia a mettere in difficolta’ i colleghi , che si trovano a sostituirlo sempre piu’ spesso o per vere e proprie assenze o perche’ , pur in servizio tende a passare il tempo intrattenendosi al cellulare o assorto in questioni personali , comunque ad evitare i suoi compiti lavorativi e il contatto con gli altri.

A detta di tutti : quella che prima era una persona coscienziosa , generosa e responsabile , si era progressivamente trasformata in una persona fatua e inaffidabile ."

Nel corso del primo colloquio , si era presentato al terapeuta come depresso . " L’aspetto era dimesso , ripiegato su di se’ , tormentato , diceva di essere spesso in preda ad uno sconforto profondo di cui non si dava ragione . Anche il sonno era disturbato , si svegliava in preda all’angoscia per incubi che non ricordava ; aveva cominciato a fare dei pasticci anche coi farmaci recentemente : seguiva una terapia con ipoglicemizzanti orali , che avrebbe potuto usare a scopo suicidario , perche’ ne conosceva bene gli effetti e le dosi necessarie . Il pensiero di farla finita c’era ma non l’avrebbe mai messo in pratica , si dichiarava profondamente credente e non avrebbe mai offeso Dio con questo peccato . Si sentiva spesso confuso e demoralizzato , passava le sedute a compiangersi , cosi’ come faceva quando si trovava a vagare senza meta in moto o in macchina per la citta’."

Col terapeuta avevano concordato come focus : il ripristino delle usuali abilita’ lavorative , con l’aiuto anche di una terapia farmacologia antidepressiva , interpretando in un quadro depressivo tutto cio’ che gli stava accadendo.

Le sedute si svolgevano regolarmente ma tutte uguali . Il paziente si lamentava che , a causa della sua bonta’ e generosita’ , le persone si approfittavano di lui . Sollecitato ad individuare le circostanze piu’ recenti , che potevano averlo fatto precipitare in questo sconforto , e che potevano aver suscitato in lui il sentimento di venire sfruttato : riferisce che l’anno precedente il cognato gli aveva chiesto un cospicuo aiuto economico : somma che non aveva ancora restituito . Si lamento’ che la moglie , solitamente molto critica rispetto alla sua generosita’ , in quell’occasione , per aiutare il fratello , appoggio’ la richiesta . Le conseguenze sono state che , da qualche mese , ha dovuto accendere un mutuo per onorare gli impegni per la ristrutturazione della casa , cosa che lo preoccupava molto .

Ma le lamentazioni riguardavano un po’ tutti e tutto . Si sentiva ignorato dall’unica figlia , con la quale diceva di aver sempre avuto un rapporto speciale , tanto che lui si sentiva il suo punto di riferimento per qualunque questione dalla scuola , alle amicizie , allo sport ; da un po’ di tempo , ormai cresciuta entrata nell’ influenza della madre , non e’ piu’ affettuosa con lui anzi , la sente coalizzata con la moglie e critica nei suoi confronti .

L’ unica consolazione rimasta era quella di " tirare su’ " i suoi ragazzi al centro parrocchiale , attivita’ volontaristica che svolgeva dalla giovinezza e che ancora lo faceva sentire importante .

Ultimamente si era molto interessato delle sorti di una ragazzina dell’eta’ della figlia , che veniva maltrattata in famiglia soprattutto dal padre insensibile , ingeneroso e despota . Poiche’ la ragazzina soffriva molto , lui cercava di starle vicino "come puo’ fare un padre" . Spendeva molto tempo in questa attivita’ , a volte le dava rifugio a casa sua per offrirle un clima familiare e un pasto caldo , con l’accordo della moglie . Affermo’ anche di averla "salvata" dalle attenzioni di un coetaneo non adatto a lei , concludeva dicendo : " I genitori non dovrebbero mettere al mondo dei figli per poi abbandonarli alle insidie della vita ! "

Il terapeuta chiese una consultazione perche’ si sentiva in una situazione di stallo , anzi il paziente era progressivamente peggiorato . Si stava astenendo ora , quasi completamente dal lavoro , e continuava a ventilare la possibilita’ di un gesto suicidario , che il terapeuta sentiva come una possibilita’ molto realistica . Durante la terapia si era gia’ verificato un comportamento parasuicidario . Il paziente , dopo aver mischiato benzodiazepine e alcolici per stordirsi , aveva avuto un incidente in moto senza gravi conseguenze , mentre vagava per la citta’ senza meta. Nella relazione il paziente era sempre piu’ fatuo e le argomentazioni povere .

Convenimmo sul fatto che la situazione era effettivamente grave , che anzi si era aggravata nel corso della terapia . Discutemmo se l’interpretare tutto il quadro alla luce di una depressione , che pure c’era , avrebbe potuto produrre una regressione maggiore , una sorta di deresponsabilizzazione riguardo alla parte che il paziente poteva assumere nel migliorare la sua condizione .

Comunque questa lettura non aveva aggiunto alcun elemento significativo alla comprensione del caso . Avevamo delle notizie , dei fatti , delle emozioni che stavano tutte sullo stesso piano e questo non consentiva di articolare alcuna ipotesi .

Per quanto riguarda il focus il terapeuta affermava che , dopo essere stato accolto e condiviso dal paziente in un primo momento come un fattore che sicuramente l’avrebbe risollevato , fu immediatamente abbandonato , posto sullo sfondo . Il paziente si era sempre piu’ ripiegato su di se’ e utilizzava le sedute come contenitore delle sue lamentazioni e occasione per esprimere i suoi assunti moralistici . Non utilizzava alcunche’ di cio’ che il terapeuta gli rimandava .

Convenimmo sul fatto che la personalita’ del paziente poteva rientrare in quei disturbi del carattere che la Mc Williams ( 1999 ) definisce come "masochismo morale" ; l’averlo trattato in terapia come un depresso poteva aver complicato la situazione , un atteggiamento terapeutico sollecito e oblativo non fa che peggiorare queste situazioni . Fu concordato di spostare il focus sulle relazioni , in modo particolare di cercare di comprendere meglio l’unico rapporto che in questo momento il paziente salvava : quello con l’adolescente in parrocchia . Con l’intenzione di favorire anche attivamente l’espressione dei sentimenti che provava per questa ragazza . L’ipotesi era che poteva trattarsi di un interessamento non propriamente paterno .

Questo spostamento del focus apri’ una prospettiva completamente nuova , non senza qualche sgomento da parte del terapeuta . Egli ricordo’ infatti che , in una seduta iniziale , il paziente gli porse un foglietto , con la trascrizione di uno dei messaggi telefonici , che regolarmente mandava alla ragazza , per farle sentire la sua vicinanza . Il terapeuta ricordo’ di averlo reputato molto ambiguo : riportava frasi estrapolate da una poesia d’amore , ma , poiche’ l’inadeguatezza era l’ aspetto prevalente delle comunicazioni del paziente , il terapeuta ammise di non aver prestato particolare attenzione a questo fatto .

I colloqui successivi alla supervisione , attraverso lo spostamento del focus , chiarirono le dinamiche in atto . La realta’ dei fatti si impose in tutta la sua gravita’ , quando la moglie del paziente contatto’ il terapeuta per esprimere la sua preoccupazione riguardo al fatto che : il padre della ragazza si era presentato a casa per chiedere che il marito si astenesse da qualunque forma di contatto con la figlia . Disse anche che , essendo a conoscenza delle condizioni in cui si trovava il marito , si sarebbe astenuto per il momento dal procedere per via legale . La ragazza era molto provata , stava male da molto tempo e sarebbe stata ricoverata di li a poco in un reparto di neuropsichiatria infantile .

Il paziente in seguito mantenne una negazione sui dati di realta’ , che aveva pero’ assunto i caratteri della minimizzazione . Fu molto aiutato dal terapeuta in questa fase , dal quale si sentiva sostenuto , nonostante che la inevitabile confrontazione con i dati di realta’ avesse peggiorato il suo malessere . Abbandono’ l’atteggiamento fatuo e collaboro’ col terapeuta nell’ accettare un ricovero , che sembrava la cosa piu’ adatta nell’immediato rispetto al vagare disperato senza meta .

Sarebbe stato necessario per lui in seguito un lavoro piu’ approfondito , per permettergli una maggiore comprensione degli eventi e per ripristinare un’immagine di se’ che , al momento , era schiacciata da sensi di colpa e di indegnita’ .

Per quanto riguarda il terapeuta fu necessario riconoscere che l’atteggiamento ablativo — difensivo non gli aveva permesso di accedere a quella forma di ascolto che permette di aprire le prospettive piuttosto che chiuderle . Per lui fu un’esperienza formativa molto significativa e a noi adesso un’occasione per discutere e approfondire.

 

Osservazioni conclusive

Gli esempi clinici riportati fanno parte di un’ampia casistica che , in circa un decennio di attivita’ di supervisione , abbiamo potuto raccogliere con medici in formazione . E’ possibile che per un terapeuta esperto questi casi esemplifichino anche alcune difficolta’ legate all’inesperienza . Noi pensiamo , tuttavia , che nella Psicoterapia breve della Crisi Emozionale si verifichino delle situazioni terapeutiche che hanno una loro peculiarita’ e delle difficolta’ specifiche : e per la precocita’ della indicazione , che pone la PCE nell’area degli interventi volti alla Prevenzione Secondaria , e per il fatto che si svolge in una Struttura Pubblica .

Nel primo caso clinico : lavorare sulla motivazione ha permesso al paziente di accedere all’area emozionale negata , di cui il DAP non era che l’ episodio sintomatico piu’ eclatante.

Questo caso esemplifica una situazione che puo’ presentarsi anche nella pratica privata . Non e’ inusuale che un singolo episodio di Panico venga percepito in maniera cosi’ drammatica , da parte del paziente o dei suoi familiari , da richiedere un aiuto specialistico . Questa evenienza richiede comunque una certa capacita’ , da parte del paziente , di mentalizzare una sofferenza ; lo psichiatra percio’ difficilmente si trovera’ difronte ad una negazione cosi’ massiccia , come risulta dall’esempio clinico. In questo caso possiamo cogliere la valenza di prevenzione , che una indicazione in acuto svolge rispetto agli iter usuali che questi pazienti imboccano fino ad arrivare dallo specialista quando la situazione clinica gia’ si e’ complicata con l’evitamento e le conseguenti ricadute sulle performances sociali.

In questi casi l’alleanza terapeutica diventa il focus implicito nella PCE , con una ricaduta sull’evoluzione del disturbo.

Nel secondo caso costruire un’alleanza terapeutica "limitata" allo spazio-tempo della situazione acuta , ma che nella focalita’ e nella durata prestabilita dia il senso di un lavoro svolto all’interno di una relazione significativa , puo’ : svolgere una funzione di sostegno nell’immediato ma anche avere una ricaduta nel modificare la modalita’ di accesso alle cure dei pazienti borderline , con una ricaduta positiva nell’evoluzione del disturbo . Nelle nostre intenzioni infatti la PCE puo’ rappresentare un intervento anche ripetibile per questi pazienti che , pur presentando un disturbo cronico , sono particolarmente soggetti a sviluppare situazioni psicopatologiche acute , in relazione ad eventi interni o esterni vissuti come traumatici. Per la loro peculiare struttura personologica .hanno difficolta’ ad aderire ad una psicoterapia classica e scarsa compliance ai trattamenti in generale , pur essendo grandi fruitori dei Servizi Sanitari . La domanda di cura viene infatti spesso "agita" in una sorta di intermittente situazione di acuzie , che trova generalmente risposte vaghe , parziali , operative , puntiformi e a tampone . L’immagine e’ quella di una domanda formulata in modo da rendere impossibile una risposta , tale da creare una frustrazione circolare tra paziente e operatori che genera aggressivita’ da ambo le parti : esattamente cio’ che , questo tipo di pazienti , generano in ogni relazione significativa . Il paziente borderline tende infatti ad instaurare relazioni "brevi , intense e sofferte " ( Clarking e Kernberg , 1995 ) e ,in termini di relazioni oggettuali tende "ad avvicinarsi all’oggetto per poi distruggerlo" ( Kernberg , 1989 ) . Una risposta terapeutica breve , significativa , centrata sul problema attuale e ripetibile potrebbe rappresentare per questi pazienti "difficili" una terapia meno "difficile" e quindi piu’ accettabile e percorribile di altre terapie tradizionali piu’ ambiziose riguardo agli obbiettivi , ma che necessariamente vengono accettate da un numero limitato di casi .

Il terzo caso ci indica come , all’interno di un lavoro di costruzione di un’alleanza terapeutica , ci si possa avvicinare cautamente al vissuto del paziente anche laddove difese massicce siano in atto nell’eludere alla coscienza dei contenuti drammatici .Nel caso che abbiamo presentato il paziente difficilmente si sarebbe rivolto spontaneamente per un’aiuto specialistico , e ancora , difficilmente una semplice prescrizione farmacologia avrebbe potuto aiutarlo . E’ la relazione terapeutica , per quanto difficile e inizialmente apparentemente sterile e inefficace , che ha permesso in seguito di svolgere una funzione di sostegno dell’Io in una situazione in cui l’ipotesi autosoppressiva si paventava nei comportamenti come l’unica percorribile per il paziente .

In queste situazioni di crisi abbiamo sottolineato come aspetto peculiare la forte sollecitazione emotiva cui il terapeuta puo’ andare in contro in fase iniziale col conseguente pericolo di adottare stili terapeutici difensivi . Abbiamo visto come soltanto la possibilita’ di incontrare il paziente da persona a persona consenta quell’autentica partecipazione alle vicende esistenziali dell’altro , che e’ il presupposto per la realizzazione di un’alleanza di lavoro in questo campo.

 

Pazienti difficili

Volendo esaminare le difficoltà di alcuni casi specifici, intendiamo comunque puntare l’attenzione sulle peculiari caratteristiche di alcuni pazienti che, cercando aiuto in un intervento di PCE , rendono difficile l’attuazione di un’alleanza terapeutica completa a causa della patologica modificazione o immaturità o difetto nel loro stile cognitivo o per circostanze complesse e talvolta addirittura estranee al trattamento in sé.

Che il pazienti attacchi la relazione con il terapeuta in modo intenzionale è un evento piuttosto raro e, di solito, al terapeuta non sfugge che il paziente sia indotto da altri, che su di lui hanno un’autorità, ad affrontare la psicoterapia. Che il paziente cerchi solo vantaggi secondari manipolando l’intervento psicoterapico è un’altra eventualità facilmente identificabile e comunque non mette in discussione né la perizia né la buona fede del terapeuta.

Preferiamo quindi fornire una descrizione di quei quadri o di quelle circostanze che rendono problematica la relazione e, riducendo le potenzialità della psicoterapia, posso portare ad un fallimento non tanto in senso clinico quanto nell’esperienza che paziente e terapeuta fanno, insieme, dell’intervento nel suo complesso.

 

Si descrivono casi di pazienti che non risultano avere, nell’analisi dell’Asse II, un disturbo della personalità definito.

  1. Personalità gravemente immatura con marcata adesività al pensiero di gruppo. Il paziente presenta uno stile cognitivo fortemente condizionato da stereotipi appartenenti al proprio gruppo di appartenenza. Si tratta, spesso, di soggetti di livello culturale molto modesto che tendono ad aderire ad uno stile cognitivo basato su assunti del tutto superficiali, di tipo categorico, non condivisi dal terapeuta. Caso Clinico: operaia di 38 anni che chiede l’intervento di crisi per la reazione emotiva (ansia, depressione) provocata dalla decisione del marito di andarsene di casa. La paziente si confronta continuamente con due colleghe ritenute donne di maggiore esperienza traendo dalle loro considerazioni un’immagine confusa della coppia, ispirata alle dinamiche surreali dei talk-show e dei teleromanzi. Il terapeuta tende ad annoiarsi per la lunga serie di stereotipi elencati dalla paziente e si sente frustrato perché, invece di entrare nel merito della propria dimensione personale, la paziente continua a descrive il "come dovrebbe essere" ostacolando la possibilità di una concreta elaborazione degli eventi. La risposta iniziale del terapeuta, in questo caso, è stata di tipo "operativo-efficientistico" attraverso interventi ed osservazioni che, nelle prime sedute, hanno messo in difficoltà la paziente. Discutendo il caso in supervisione si è cercata soprattutto una mediazione sul linguaggio, studiando modalità che potessero aiutare la paziente ad essere meno passiva rispetto agli assunti delle colleghe. Al terapeuta è stato suggerito di mostrarsi più disponibile rispetto alle descrizioni senza perdere di vista alcuni elementi centrali, più pertinenti agli aspetti di narcisismo adolescenziale della paziente che alla crisi coniugale in sé. Questo ha permesso un recupero della relazione e lo stabilirsi di un’alleanza terapeutica almeno sufficiente a concludere l’intervento.
  2. Competizione intellettuale. Il paziente accetta di intraprendere il trattamento della CE ma mantiene, nella successione dei colloqui, un atteggiamento di condiscendenza nei confronti del terapeuta che può limitarsi a considerazioni sull’età e sul sesso ma che può arrivare alla competizione intellettuale. Caso clinico: Neo-laureato in Giurisprudenza, 28 anni, con attacchi di panico insorti dopo che gli è stata negata un’opportunità professionale promessa già prima della Laurea. Sin dal primo colloquio il paziente manifesta una competizione verso la terapeuta sottolineando ripetutamente che le osservazioni della terapeuta le ha già pensate prima, che era già arrivato a parecchie delle considerazioni e delle riformulazioni che gli vengono offerte. Sostenuto da un narcisismo implacabile, il paziente non riesce ad entrare nella relazione terapeutica, non ammettendo che qualcuno gli faccia notare gli aspetti cognitivi di narcisismo e immaturità che hanno determinato il disturbo nella gravità attuale. La terapeuta, essendo in formazione, si sente continuamente messa in discussione sia sul livello professionale sia su quello personale, arrivando a dubitare delle sue capacità e ponendo in secondo piano gli aspetti riferibili all’empatia. Nella supervisione si osserva che il principale problema del paziente sta, verosimilmente, proprio in questa sua modalità relazionale, ispirata ad un modello di professionalità irraggiungibile a scapito degli aspetti affettivi della relazione. La terapeuta, in questo caso, è riuscita ad ottenere un’efficace alleanza terapeutica proponendo, nella PCE, un focus centrato sugli aspetti affettivi piuttosto che su quelli sociali, com’era inizialmente intenzione del paziente.
  3. Rivendicazioni impossibili. Anche se sembra ben intenzionato ad elaborare la crisi emozionale e a superarla, il paziente manifesta un inattaccabile bisogno di risarcimento morale o materiale. Questo non corrisponde alla difficoltà di elaborare una perdita ma piuttosto ad elementi di narcisismo associati ad agiti manipolativi che posso facilmente aggredire il terapeuta tacciandolo di impotenza. Caso Clinico: Un’impiegata di 49 anni manifesta ripetute crisi d’ansia con insonnia e grave disappetenza in seguito ad una sentenza che riduce la richiesta (altissima) di risarcimento economico inoltrata dal figlio (22 anni) nel corso di un processo penale . Il ragazzo ha subito un grave incidente, dal quale ha riportate anche alcune lesioni al volto. La paziente, che non ha altri figli, lo definisce "sfigurato" e cerca di coinvolgere il terapeuta nella sua personale battaglia contro l’ingiustizia subita. Nonostante il figlio abbia accettato la somma e non si senta sfigurato, la paziente continua a pretendere risarcimenti, chiede al terapeuta certificati attestanti il suo stato di salute psichica (ininfluenti a fini richiesti) e si mostra molto svalutativa nei confronti delle possibilità di migliorare la propria sintomatologia (" tanto nessuno me lo restituisce com’era prima"). Il terapeuta, nei primi colloqui, tende ad assumere un atteggiamento di tipo oblativo perché ciò che lo colpisce è il sentimento di disperazione che la paziente gli comunica. In seguito, però, realizza che il sentimento della paziente non corrisponde a quello del figlio e che la paziente descrive la precedente "bellezza" del figlio con toni francamente nevrotici. Nella supervisione si discute della vera natura del focus, posto che la paziente insiste nel comunicare sfiducia. Si cerca di proporre alla paziente il vissuto di perdita conseguente all’incidente del figlio in una chiave diversa valorizzando, ad esempio, il fatto che il figlio non ha dovuto rinunciare a nessuno dei suoi progetti nel sociale. Ma la paziente non intende ragione e interrompe il trattamento.
  4. Importanti implicazioni sociali. La storia del paziente è su tutti i giornali locali. Il suo danno subito, causa scatenante della crisi emozionale, è dibattuto da avvocati e giornalisti, forse con implicazioni politiche. Il terapeuta, in questo caso, è sottoposto ad una pressione molto forte che dovrebbe essere valutata considerando la necessità di rimanere neutrale. Caso Clinico: 36 anni, impiegata in una istituzione pubblica, la paziente riferisce di essere stata vittima di molestie sessuali. Poco dopo la denuncia una collega, che si era proposta come testimone, le comunica che non deporrà in sede di processo. I giornali locali si sono già impadroniti del caso, la paziente ha ripetute crisi d’ansia reattive a questa complicazione e all’idea di dover intraprendere un percorso giudiziario. Un’attenzione sociale ed una insistente curiosità della stampa pongono la terapeuta in una situazione molto difficile, tanto più che la paziente , per la particolare natura delle cause dello stato ansioso, teme continuamente di non essere creduta. Il lavoro di supervisione e la discussione del caso nel gruppo aiutano la terapeuta a sentirsi più sicura, condividendo le preoccupazioni relative alla pubblicità. Per lo stabilirsi di un’efficace alleanza terapeutica, in questo caso, è stata fondamentale la disponibilità della terapeuta a discutere dettagliatamente anche la parte legale del problema. In questo modo la paziente si è presentata ad un’udienza importante sufficientemente rassicurata, riuscendo a descrivere gli eventi con calma e ricavando l’impressione di essere stata ascoltata dal giudice. Nelle ultime due sedute, mentre si poteva affrontare con tranquillità l’elaborazione dell’accaduto, la paziente ha espresso riconoscenza alla terapeuta, confermando l’impressione di alleanza e risultato nella relazione.
  5. Questione morale. Il paziente, nella descrizione della sua storia, richiesta dal terapeuta per comprendere le cause della crisi emozionale, descrive comportamenti che al terapeuta appaiono abbietti. Non è necessariamente detto che si tratti di comportamenti comunemente giudicati immorali. Caso clinico: Una paziente di 44 anni, insegnate in un istituto d’arte e artista, chiede un intervento di PCE per un quadro depressivo a seguito della conclusione di una relazione con un uomo molto più giovane, dal quale è stata minacciata di denuncia. Nella storia personale spicca la decisione di avere un figlio "da un uomo importante"; il bambino (8 anni) è nato fuori dal matrimonio, è mantenuto economicamente dal padre naturale che però non vuole avere contatti né con lui né con la madre perché effettivamente è "un uomo importante" ed ha già una sua famiglia . La paziente vuole continuare a "fare la sua vita" e descrive una serie di situazioni che, alla terapeuta, appaiono come lesive della dignità del bambino e non consone al ruolo materno. Pur avendo un buon funzionamento sociale, infatti, la paziente colleziona amanti molto giovani e vive storie complesse delle quali mette al corrente figlio. Si giustifica sostenendo che il figlio è "straordinariamente" maturo e con tematiche che vanno dalla libertà sessuale della donna, al bisogno di stimoli artistici. La terapeuta, più giovane della paziente, è fidanzata e pensa al suo futuro personale in modo del tutto diverso. Soprattutto pensa ad un modello di madre che non ha nulla a che vedere con quello esibito dalla paziente. Quando la paziente descrive alcune situazioni, cui il bambino ha assistito, la terapeuta prova alternativamente indignazione e disgusto. Questo sembra compromettere in modo irrimediabile qualsiasi possibilità di alleanza terapeutica. La terapeuta, tuttavia, non risponde decidendo di inviare ad altri la paziente perché, in qualche modo, si percepisce come responsabile del bambino, vorrebbe "curare" la paziente ma non riesce a superare i sentimenti negativi. I primi interventi, eccessivamente frustranti per la paziente perché improntati ad un tecnicismo accentuato, mettono a dura prova la prosecuzione della psicoterapia. Discutendo il caso in supervisione, la terapeuta riesce ad elaborare una parte della sua risposta emotiva e riconosce che, talvolta, nelle descrizioni della paziente c’ è una tendenza a descrivere i comportamenti con una modalità esibizionistica, anche quando i fatti non sono particolarmente eccentrici o gravi. Elaborando il suo vissuto iniziale nel lavoro di supervisione la terapeuta riesce a cogliere alcuni aspetti più maturi della paziente e a sentire, ad esempio, come in questa vi sia un’autentica preoccupazione per il suo ruolo materno. Facendo leva su questi aspetti, la psicoterapia riprende un corso più regolare e giunge ad una conclusione discreta per entrambe. Fino al termine tuttavia rimane la percezione di due posizioni molto diverse nel pensare alla maternità, ma nella terapeuta si attenua l’iniziale istintiva tendenza al giudizio.
  6. Grave patologia organica del paziente. Alcune patologie organiche posso risultare ansiogene per il terapeuta e rendere complicato lo stabilirsi di un’alleanza terapeutica. Il paziente porta una situazione psicologicamente traumatica come causa della crisi emozionale, che potrebbe costituire correttamente un focus ma la cognizione della malattia organica, grave nel senso di non guaribile, produce nel terapeuta sentimenti contrastanti che riducono la possibilità dello stabilirsi di un’autentica alleanza terapeutica. Caso Clinico: Una paziente di 39 anni chiede l’intervento di PCE perché è stata licenziata , non riesce a trovare un nuovo lavoro, si sente ansiosa e demotivata. Sin dal primo colloquio riferisce di essere affetta da sclerosi multipla ma affronta questa tematica come secondaria e non connessa al disagio attuale, sostenendo di essere molto ben curata da un Centro specifico e di non voler quindi considerare questo aspetto. Il terapeuta è molto dubbioso sulla possibilità di non confrontarsi su questo tema della malattia ma, allo stesso tempo, si chiede se la paziente non abbia diritto ad una psicoterapia breve per la risoluzione di quello che sembra essere un conflitto sul ruolo sociale. Discutendo il caso in supervisione il terapeuta ammette di sentirsi a disagio durante le sedute perché non riesce a comprendere come possa la paziente evitare un tema a che a lui sembra ben più grave di quello presentato. Nella discussione di gruppo si osservano pareri contrastanti ma, in linea generale, nessuno è dell’idea che si possa affrontare la terapia fingendo che il problema organico non esista ed evitando di parlarne come richiesto dalla paziente. Nel corso delle sedute iniziali la paziente descrive una serie di difficoltà relazionali sia a livello personale, sia a livello sociale che hanno portato al licenziamento. Il terapeuta si convince che la diagnosi infausta abbia condizionato lo stile cognitivo della paziente ed inizia a proporre il tema della malattia. La paziente appare riluttante e manifesta la sensazione che il terapeuta voglia venire meno ad un accordo stabilito. Tuttavia, trattandosi di una psicoterapia breve, entrambi sentono che la determinazione del numero delle sedute è incompatibile con una corretta elaborazione e l’intervento si conclude con l’invio ad altri operatori.

 

Osservazioni conclusive

La soluzione dei casi difficili nella PCE non è sempre possibile. Abbiamo tuttavia a disposizione alcuni interessanti strumenti per affrontarli e modificarne il decorso. Innanzitutto la preparazione del terapeuta: chi ha avuto la possibilità di accedere ad un’analisi personale è certamente avvantaggiato avendo esperito la dimensione dell’alleanza terapeutica anche nel ruolo di paziente ed essendo più attento alle dinamiche e ai tempi della relazione.

Altro strumento decisamente importante è il lavoro di supervisione, presente da sempre nel nostro gruppo di ricerca, e particolarmente utilizzato per l’analisi della relazione e il mantenimento degli scopi dell’intervento.

Tra quelli elencati, alcuni casi hanno comunque trovato una continuità ed una soluzione, altri non sono stati conclusi. In genere, sono la consapevolezza del disagio nel paziente e la capacità di comprensione nel terapeuta a determinare la prosecuzione della psicoterapia nonostante le difficoltà nell’alleanza terapeutica. Se il paziente mantiene una costanza nel setting e il terapeuta sa cogliere l’autenticità della richiesta si possono superare una serie di ostacoli, anche importanti.

 

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