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Dottore, perché non parli!?

18 Mar 14

A cura di Luigi D'Elia

Si narra che Michelangelo, appena terminato il suo Mosè, avesse percosso con un martello il ginocchio della statua chiedendogli “perché non parli?”.

Questo aneddoto o leggenda è quanto mi sovviene ogni volta che, incontrando un nuovo paziente già transitato da altri colleghi mi racconta una storia che oramai penso di aver collezionato nel mio repertorio di psicoterapeuta almeno un centinaio di volte, se non di più. Sembra inverosimile quanto sto per riportare qui, ma vi assicuro che è quanto mi capita con una certa sistematicità.

Ho avuto qualche remora nel raccontare quanto segue, anche perché da un vertice concorrenziale il mio è un assoluto autogol, ma alla fine non ho resistito.

Il dialogo avviene più o meno secondo le seguenti coordinate, sempre alla prima seduta.

Lei è già stato da altri colleghi?

Si, ho provato una volta tempo fa con la Dr.ssa/il Dr. Tizio, ma dopo qualche seduta ho lasciato, non mi sono trovata/o bene (in alcune varianti, il racconto parla di periodi anche più lunghi, di mesi e a volta anche di 1-2 anni).

Posso chiederle come mai non si è trovata/o bene?

Be’ si, io parlavo, ma la Dr.ssa/il Dr. non parlava e non interagiva mai. Ad un certo punto mi sono sentita/o a disagio e ho mollato.

In genere l’espressione della/del paziente nel descrivere questi fatti è sempre la stessa: tra lo stupito e il rassegnato, come a dire: boh, chissà che gli passa per la testa ad uno che si comporta in questo modo. Spesso il loro pensiero successivo è: sicuramente sono io che non ho capito come funzionava, ma poi questa auto colpevolizzazione non è sufficiente (per fortuna) ad evitare la fuga.

In alcune varianti questa risposta si articola con particolari inquietanti.

La Dr.ssa/il Dr. mi chiedeva al massimo qualcosa della mia famiglia. Oppure: La Dr.ssa/il Dr. mi diceva che dovevo parlare di certe cose e non di altre. Oppure: La Dr.ssa/il Dr. non alzava lo sguardo dal foglio sul quale scriveva. Oppure: La Dr.ssa/il Dr. mi ha fatto fare solo dei test.

L’ultimissimo caso proprio di ieri riguarda una ragazza di 22 anni che mi racconta alla prima seduta della precedente esperienza durata solo 3 incontri, tutti uguali, nei quali lei aveva parlato solo del rapporto con sua madre (la dottoressa aveva chiesto solo quello), ma non era riuscita a dire nulla della fine recente di una relazione, della difficoltà di gestione della propria omosessualità di cui nulla sanno i genitori, della propria condizione di prostrazione dovuta al blocco depressivo, della difficoltà a cercare e mantenere un lavoro, del silenzio assoluto verso un padre periferico, della presenza di pochi e recenti amici e della perdita degli amici del passato, etc., etc., etc., tutte informazioni raccolte nei primi 15 minuti primi del primo incontro a seguito di una usuale esplorazione conoscitiva di un primo colloquio clinico di un terapeuta minimamente interessato alla storia personale del proprio paziente, e tutte informazioni che la precedente dottoressa non aveva raccolto.

Poiché resoconti del genere con drop out sistematici (o perdite di tempo e denaro di mesi) oramai sono la regola la mia domanda è la seguente: possiamo risolvere questa bizzarra aneddotica derubricandola solo nella differenza di stile terapeutico, di teoria della tecnica, di approccio teorico o al limite di palese impreparazione oppure esiste un problema di antiquariato modellistico-culturale della psicoterapia o per meglio dire un problema reale di prossimità e di capacità di intercettazione delle domande di cura?

Un mio caro amico e maestro raccomanda sempre nelle sue supervisioni, sornionamente: ricordatevi è sempre la seconda, anzi la terza domanda quella che conta… quella che nessuno ha mai fatto. Ma per formulare questa terza domanda occorre alzare lo sguardo, incrociarlo con quello della persona che hai di fronte, interessarsi alla sua storia, coglierne gli aspetti più personali e particolari, cogliere il dolore dei suoi annodamenti, occorre semplicemente interloquire. Sembra banale e forse anche triste ribadirlo, ma si rende necessario, purtroppo.

L’enfasi dell’ascolto che è spesso sotteso in certi modelli e stilemi clinici e camuffato per rispetto della soggettività dell’altro finisce per essere un’espressione del disinteresse umano ancor più saturante del chiacchiericcio del terapeuta egocentrico e invadente, che ne è in qualche modo il suo polo opposto e simmetrico.

Le storie che colleziono grazie ai miei pazienti dicono invece qualcos’altro, dicono di colleghi distanti, impauriti, arroccati, istituzionalizzati, talora solo inesperti e impreparati, ma più spesso invece senili e coattivi, abituati ad una catena di smontaggio di fatto resasi indifferente al dolore umano che i loro presidi clinici continuano a ricevere senza poterlo mai accogliere.

Un’altra domanda che mi faccio è la seguente: che tipo di selezione naturale svolgono questi colleghi con la popolazione dei loro pazienti? Quale idea del mondo, del loro operato e della realtà ne derivano da tale drastica e inconsapevole selezione?

Una seria ricerca sul drop-out nei presidi pubblici e privati dovrebbe essere il primissimo step di un percorso di consapevolezza e trasformazione delle nostre più comuni pratiche cliniche a partire dal primissimo colloquio.


L’alternativa altrimenti diventa quella di dotare i nostri pazienti del martello di Michelangelo che consenta loro di chiederci: dottore, cazzo, perché non parli!?

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2 Commenti

  1. simonetta.putti

    Non raramente la capacità di
    Non raramente la capacità di ascolto diventa coazione ad ascoltare…mentre – soprattutto nei primi incontri – la domanda è sostanziale, sia per mettere a fuoco la storia / esperienza del paziente, sia per dare all’Altro il segno di un nostro interesse attento.

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  2. kharban@virgilio.it

    Ottima domanda, sulla quale
    Ottima domanda, sulla quale ci sarebbe da discettare per ore. Perché c’è una ragione seria e importante all’origine del silenzio dell’analista: quella di consentire alle libere associazioni di fluire spontaneamente, riducendo al minimo qualsiasi elemento che le possa influenzare; questo, almeno, ci è stato insegnato. Ma in tale insegnamento vi è qualcosa che si incaglia irrimediabilmente, perché la condizione di “totale pulizia del campo” è molto teorica e pochissimo pratica. Solo quegli analisti che si siano trovati a sperimentare l’esperienza contraria, vale a dire l’incontro con pazienti totalmente e perfino ostinatamente silenziosi, sanno la condizione di disagio, e, almeno per quanto mi riguarda, di rabbia, solitudine, frustrazione, cui ci costringe il silenzio dell’altro, quando non abbiamo alcun appiglio, se non le nostre tempestose emozioni, che non sempre sono comunicabili, anche da parte degli analisti più favorevoli alla self-disclosure.
    Sempre più spesso, mi capita di incontrare persone reduci da precedenti esperienze terapeutiche interrotte perché, a loro dire, “il terapeuta stava sempre zitto”. Ciò naturalmente riguarda maggiormente coloro che hanno incontrato terapeuti giovani e alle prime armi, ma non solo, almeno per quanto mi risulta.
    Il problema alla base di tutto è, a mio parere, da ricercarsi nella natura assoluta e religiosamente autoritaria che sta alla base dell’insegnamento della psicoanalisi, una dottrina che ha una lunga storia non esente da poderose ostilità ambientali, ma anche da problemi di ortodossia, eterodossia, eresie, scismi e scomuniche. Ciò che rimane in eredità di tale storia, pur sempre nobile e grandiosa, è l’impossibilità di apprendere, se non in forme traumatiche, una totale autonomia e una libera capacità creativa, essendo la creatività soffocata, come sostiene Kernberg, dal l’insegnamento stesso. Ma senza creatività non si raggiungerà mai alcuna condizione “senza memoria e desiderio”, laddove la memoria di ciò che si è appreso è troppo ingombrante e condizionante. E con la proteiforme espressività della mente umana, non c’è che l’ispirazione, sia pure “pazza” o scandalosamente irrituale.

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