“The man that wasnt’ here”: è il capolavoro assoluto dei Coen. Girato in un nitido bianco e nero riversato dal colore, che, nella forma apparente di un noir anni ’50, propone un’accorata, poetica, ma anche sarcastica riflessione sull’imprevedibilità del destino, sull’impossibilità di trasformare l’esistenza in identità autentica, sul bisogno di trascendenza che non trova un contenuto, ma anche una riflessione su come si fa il cinema “psichico” giustapponendo in modo semi-onirico su sfondi realistici personaggi grotteschi, eventi narrativi improbabili e fantasie non meno bizzarre, anche se all’epoca altamente condivise (dischi volanti e extra-terrestri).
La maestria del film è dato principalmente dalla capacità delle bellissime immagini e delle situazioni di coinvolgere in profondità la mente dello spettatore portandola costantemente sui piani esistenzial-ontologici, ma anche stupendola con l’erraticità imprevedibile della trama.
Ed è caratteristicamente una personalità schizoide, apparentemente glaciale, in realtà un “passionale”, come con un intuito tutto femminile gli dice la ragazzina Birdy: un freddo con una profondità affettiva insondabile. Il volto scolpito di Ed, magistrale interpretazione di Thornton, richiama per la sua impassiblità quello di Buster Keaton, ma dietro i suoi occhi si intuisce la ricchezza del suo mondo interiore. Freddy Riedenschneider è un prototipo assoluto di narcisista istrionico, con la sua estrema attenzione per l’aspetto fisico, l’eleganza, l’elevatissima autostima, l’indifferenza con cui si propone agli altri con la maschera più conveniente, senza alcun rispetto per la realtà effettiva. Tutta la vicenda della difesa di Riedenschneider è un film nel film da mostrare come uno degli esempi più clamorosi di personalità narcisistica al cinema. Celebre è divenuto il sostegno della sua filosofia giuridica mediante la grossolana citazione idiosincrasica della teoria dell’indeterminazione di Werner Heisenberg: “Più si guarda un fenomeno da vicino e meno lo si capisce”. Il personaggio di Birdy, grande esordio della Johansson, richiama quello della Lolita di Kubrick, ma in veste buona ragazza di famiglia. La breve apparizione della vedova di Big Dave può essere considerata esemplificativa di una psicosi paranoidea da lutto.
La citazione del misterioso principio di Heisenberg fa da trait d’union tra questo film e “A Serious Man” (USA, 2009) altro testo filmico complesso, che di “L’uomo che non c’era”, ripropone i temi esistenziali, sia pure collocati in un’altra epoca (i tardi ’60 e non più ’50), in un’altra area (la provincia del Midwest e non più della California), affrontati dal lato religioso e non filosofico e all’interno di un contenitore “comedy” e non più “noir”.Che si tratti fondamentalmente dello stesso film, una profonda riflessione sul destino dell’uomo e sulla sua inconoscibilità e indeterminabilità non solo a priori, ma anche a posteriori del senso della vita e dei destini individuali, ce lo dicono l’imprevedibilità ironica del plot, la sua irridente deriva e il riferimento strutturale al “principio di indeterminazione di Heisenberg, che qui è oggetto di una lezione, insieme all’altro celebre paradosso quantistico del “gatto di Schrödinger”, tenuta dal protagonista di questo film, l’insegnante di fisica, precario, Larry Gopnik (Michael Sthlbarg), un uomo serio, appunto. Nel film c’è un terzo riferimento “scientifico”, il misterioso “Mentaculus”, il libro folle sulla teoria delle probabilità che il fratello di Larry, un po’ matto e giocatore d’azzardo scrive, e che nei suoi ghiribizzi assomiglia in modo impressionante alle immense lavagne piene di formule che Larry riempie nelle sue perfette dimostrazioni logico matematiche: come dire, il passo tra certa scienza e la follia è veramente minimo, e comunque irrilevante quando la posta sono la conoscenza del reale e la capacità di previsione.
Tutt’intorno a questo nucleo tematico c’è la maestria dei Coen-autori di puro cinema: la perfetta ricostruzione ambientale, la profonda descrizione, dall’interno, delle religiosità ebraica (con tanto di un prologo yiddisch), il trionfo strutturale del grottesco nel quotidiano, infine veri colpi di teatro quali le stridenti associazioni tra la colonna sonora (Jimi Hendrix) ed alcune delle numerose storie nelle storie dentro il film, oppure i due o tre sogni degni di Buñuel, che tormentano le notti del povero Larry. A quest’uomo più serio e perbene del barbiere di “L’uomo che non c’era”, anch’egli maciullato da una sceneggiatura implacabile, i Coen fanno capitare di tutto, com’era peraltro già successo ad un altro loro protagonista, Barton Fink (“Barton Fink”, USA, 1991); ma quando il suo destino sembra segnato, tutto sembra rimettersi sulla giusta strada per lui e i suoi familiari; ma è solo un momento perché nubi (letteralmente) ben peggiori si profilano all’orizzonte.
L’uomo serio, l’ebreo Larry, è stato educato dal libro di Giobbe ad accettare senza protestare le prove durissime che gli riserva il destino, nonostante le percepisca come ingiuste, e senza neppure aspettarsi per questo una ricompensa: è forse questo il fil rouge dell’ebraismo (che ha trovato la prova più tragica nella Shoah), ma forse l’apologo che prelude al film ci mostra come le donne, sia pure ebree, siano un po’ meno remissive e rassegnate di quanto non siano i loro menschen.
“A serious man” è un film così ricco di dettagli di ogni genere da pretendere una revisione ed uno studio da molti punti di vista e si candida come modello di cinema che coniuga opera d’arte e riflessione filosofico-scientifica-religiosa senza perdere nulla della sua capacità di comunicare alle platee più vaste e di divertirle.
0 commenti