(2007)
All’inizio – stiamo parlando dei primi anni ’70 – si chiamavano “monitori”. Li avevamo voluti nell’équipe Infanzia del CIM di Reggio Emilia perché seguissero i bambini e gli adolescenti che tiravamo fuori dal De Sanctis, il reparto infantile del manicomio di Reggio Emilia.
Di mattina operavano in scuola (non c’erano ancora gli insegnanti di sostegno, che verranno nel ’77) e di pomeriggio nei nostri ambulatori o nelle nascenti strutture intermedie che mettevamo in piedi in alternativa alle istituzioni totali.
Bambini disabili o “matti” (a volte disabili e matti!) che fino ad allora erano finiti in quel reparto – il De Sanctis – inviati dai CMPP (Centri Medici Psicopedagogici) che allora erano i luoghi di diagnosi e smistamento nei vari gironi dell’esclusione: classi differenziali, classi speciali in plesso scolastico normale, scuole speciali. Giù, giù fino al De Sanctis e ai luoghi promiscui di cura che ancora sopravvivevano nonostante l’emergere del manicomio.
Subito dopo, mano a mano che gli enti inutili venivano disciolti e chiusi, a quei primi educatori si aggiunsero tutti gli operatori non laureati che in quei luoghi operavano: assistenti, infermieri, maestri speciali, che nel De Sanctis e in tutti quei luoghi erano stati formati per operare a partire da presupposti scientifici e tecnici molto diversi da quelli del CIM.
E noi psicologi fummo chiamati fin da subito, insieme ai NPI e agli psichiatri, ad aggiornarli e a riformarli secondo nuovi principi e metodi di cura basati sull’incontro con l’altro da me, sull’ascolto, sull’inserimento, sulla nascita delle strutture intermedie, insomma: sull’ottica territoriale.
In un secondo tempo la nascente USL N.9 di Reggio Emilia, conscia dell’importanza che questi operatori avevano nel processo di territorializzazione dei servizi, aprì due scuole, dotate di corsi triennali, volte alla formazione degli infermieri e degli educatori della riabilitazione, guidate dagli operatori territoriali. Scuole che, per circa un decennio, furono frequentate da coloro che poi diventeranno i membri della seconda generazione degli operatori territoriali.
La scuola educatori – guidata dall’amica Yvonne Bonner, psicologa – vide al proprio interno come docenti il fior fiore degli operatori territoriali reggiani della prima generazione; il che pose le basi per un raccordo intergenerazionale molto fecondo di ulteriori sviluppi.
Poi, con la nascita delle lauree brevi l’università di Bologna chiese ed ottenne dalla Regione Emilia e Romagna che le scuole delle UUSSLL fossero chiuse e istituì le lauree brevi presso le facoltà di scienze della formazione, e no presso psicologia!
A partire da questa discontinuità la terza generazione degli educatori professionali non è stata più formata in ambito sanitario, ma neanche in quello pedagogico poiché nel frattempo la crisi del welfare[1] e la sua sostanziale riallocazione presso il privato profit e no profit ha prodotto nuovi canali di assunzione: clientelari, per niente preoccupati della qualità dei servizi.
Canali che su queste basi assumono come educatori di tutto e di più. Persino psicologi alle prime armi che così sono destinati a diventare educatori della riabilitazione sottopagati, immessi in servizi spesso non all’altezza, in cui non hanno diritto di parola, senza alcun tempo non dico per la formazione, ma neanche per la riflessione, insieme a tutti gli altri operatori in appalto.
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