Così conclude il suo, come sempre profondo e raffinato intervento, Gilberto Di Petta, commentando la storia di un incontro terapeutico, accaduta in un Pronto Soccorso durante la notte, conclusosi con la morte del paziente, sopravvenuta, per motivi non conosciuti , cinque ore dopo la sua dimissione dall’ospedale. Ciò ha dato avvio alla sempre complessa macchina giudiziaria per risalire alle responsabilità di quanto avvenuto, dando naturalmente per scontato che quanto avvenuto debba trovare una risposta e una responsabilità conseguente in chi si è occupato di questo paziente durante l’accesso al pronto soccorso.
Augurando naturalmente a Gilberto, di cui ben conosco la serietà e la profondità culturale e professionale, che questa vicenda si concluda rapidamente (cosa auspicabile ma come ben sappiamo molto difficile) e senza nessuna conseguenza per lui e per gli altri colleghi che durante quella notte si sono prodigati per comprendere quanto succedeva al paziente, ritengo utile porre l’attenzione su alcuni aspetti più generali che una vicenda come questa può introdurre nella discussione, ormai penosamente impoverita, sul destino della psichiatria italiana, sul significato che la società attuale sta dando all’intervento dello psichiatra, sul senso che invece molti psichiatri, voglio sperare la maggioranza, continuano a dare ai loro incontri con centinaia di migliaia di persone che ogni giorno affollano tutte le strutture a ciò deputate all’interno delle Asl, ancorché inadeguate e incapaci di accogliere in modo dignitoso il mondo della sofferenza psichica.
Faccio queste osservazioni dopo una lunga carriera passata all’interno del servizio pubblico (37 anni), che mi hanno visto ricoprire negli ultimi 24 anni, prima del mio attuale pensionamento, un ruolo di direttore dell’unità operativa complessa e di dipartimento.
Ma soprattutto mi ripenso, ancora molto giovane, appena laureato, iniziare questo lavoro che continuo a ritenere straordinariamente gratificante, interessante, umanamente sempre coinvolgente, sull’onda della appena approvata legge 180, che doveva aprire, almeno sulla carta, gli occhi della società civile sul mondo degli internati in OP, chiamando tutti ad un’assunzione di responsabilità per fare propria una nuova modalità di assistere e curare i malati mentali, non più basata sulla separatezza e sulla discriminazione; la legge sembrava poter portare ad una nuova capacità di organizzare i servizi in base ai bisogni delle persone, tenendo in alta considerazione la loro fragilità, gli aspetti di vulnerabilità, gli aspetti legati ai possibili agiti, partendo però da una considerazione fondamentale riguardante la necessità di operare nel rispetto delle persone e senza ricorrere alla violenza.
Forse, molti anni dopo, potremmo dire che la legge 180 portava con sé, pur senza averne né i mezzi,né la possibilità concreta, il flusso importante della società civile che negli anni 60- 70 aveva assistito al dibattito sui manicomi, sulla loro inutile e assurda separatezza dal mondo della vita, sulle infinite tragiche storie che al loro interno si erano dipanate, e che non riguardavano solo gli ammalati mentali, ma una parte ben più considerevole di persone gravate solo dal peso della marginalità, dell’isolamento sociale, della povertà.
Ma certo noi giovani psichiatri, già allora influenzati dalla ricchezza straordinaria della psicopatologia soprattutto di orientamento fenomenologico, dalla psicodinamica, e da un reale interesse verso il mondo della sofferenza psichica, pensavamo che da tutto questo, cogliendo la grande occasione della riforma, potesse effettivamente nascere una psichiatria pubblica diversa, capace di affrontare quotidianamente le difficoltà legate ai complessi interventi che dovevano essere effettuati tutti i livelli (di prevenzione secondaria, di cura, di attenzione al significato della riabilitazione).
Forse questo spirito ha avuto fino agli anni ‘90 una sua qualche logica, essendo difeso e portato avanti non solo agli specialisti, ma anche da una parte importante del mondo politico, che, almeno sulla carta, aveva contribuito a scrivere dei progetti obiettivo sulla tutela della salute mentale che, come spesso purtroppo accade nel nostro paese, rimasero poi solo sulla carta.
Ma voglio ricordare quanto scriveva il grande A. Tatossian alla fine del suo indimenticabile lavoro sulla fenomenologia delle psicosi: “… Se l’umanità non sceglie le sue malattie mentali, essa sceglie la sua psichiatria, poiché questa riflette “lo spirito dell’epoca" e “la sua antropologia latente".
Dobbiamo riconoscere che lo spirito dell’epoca attuale non è più quello che favorì, pur se in modo affrettato e quasi obbligato dall’urgenza di evitare un referendum, la approvazione della legge 180 che, pur essendo di fatto una legge che riguardava essenzialmente le modalità con cui dovevano essere eseguiti i trattamenti sanitari obbligatori, comunque portava con sé un diverso concetto antropologico riguardo al destino dei malati di mente.
L’impoverimento progressivo del dibattito all’interno della psichiatria “ufficiale”, la forzata negazione della ricchezza della ricerca psicopatologica, quasi sconosciuta all’interno degli insegnamenti universitari e portata avanti con difficoltà in questi ultimi vent’anni soprattutto da un piccolo gruppo di colleghi, capeggiati da figure di grande rilevanza ( quali A. Ballerini, B. Callieri, G.Gozzetti ,E. Borgna ) e di cui G. Di Petta è una delle figure attuali di riferimento, ha di fatto contribuito ad una separazione della modalità con cui la disciplina psichiatrica si è via via posta nei confronti della società civile, attraverso un tentativo (mimetico della psichiatria di origine angloamericana) di scivolare sempre di più verso un modello biomedico, tralasciando conseguentemente ogni bisogno di riflessione filosofica sugli aspetti metodologici e non solo sui contenuti del lavoro psichiatrico.
Così che oggi si dice , in molte riunioni operative all’interno delle Asl, che la psichiatria deve occuparsi “solo degli aspetti essenziali", tralasciando il resto alla cooperazione sociale o alle cliniche private.
Ci si chiede naturalmente quali siano questi “aspetti essenziali" e naturalmente ancora una volta è chiaro che si intende riferirsi alla necessità di operare un attento controllo sociale, di essere in grado di intervenire su ogni aspetto di patologia del comportamento, di dover comunque e in ogni caso sentirsi chiamati in causa ogni qualvolta vi sia una problematica che abbia a che fare con persone sofferenti, o presunti tali, di una malattia mentale.
Sofferenti o presunti tali: ciò che sembra sempre più paradossale è che la psichiatria, così impegnato a ritagliarsi uno spazio interno al mondo medico, è trascinata di nuovo in una situazione in cui altri decidono chi sono i pazienti di cui gli psichiatri devono occuparsi.
Imprigionati tra questo rischio, e la progressiva riduzione delle risorse, in primis degli psichiatri stessi, nonché di tutti gli altri operatori che con loro dovrebbero quotidianamente condividere il lavoro, di nuovo in modo esteso su tutto il territorio nazionale gli psichiatri tornano ad essere i protagonisti dell’urgenza, i novelli vigili del fuoco “capaci” di spegnere, o di sedare, qualsiasi situazione acuta, non potendo essere implicati nella gestione di quelle situazioni, non potendo decidere in che modo quei pazienti dovrebbero essere seguiti prima e dopo l’urgenza, ma dovendo limitarsi a chiudere in modo definitivo gli aspetti critici, permettendo al mondo “cosiddetto sano" di poter continuare nelle quotidiane vicissitudini, senza essere disturbato dal rumore di sottofondo costituito da persone affidate a ogni tipo di comunità, o gestite solo attraverso interventi spot, gli unici permessi alle reali possibilità dei servizi, rumore che comunque non deve mai superare una soglia che progressivamente si fa sempre più bassa.
È in questo panorama di senso che si deve scrivere la vicenda di cui ci ha parlato G. Di Petta, che oggi lo ha visto coinvolto e che domani potrebbe coinvolgere molti altri psichiatri ugualmente gravati da richieste di interventi a-progettuali, del tutto disincarnati dalla realtà dei pazienti, ma che devono comunque far fronte ad un fatto compiuto, ad una situazione di sofferenza, ad una situazione di gravità, che non può avere, come ben sappiamo nel nostro campo, solo una risposta nel qui ed ora e che necessita sempre di una comprensione più ampia, che non privi lo psichiatra né della capacità di conoscere il contesto, nè di poter operare al suo interno.
Augurando naturalmente a Gilberto, di cui ben conosco la serietà e la profondità culturale e professionale, che questa vicenda si concluda rapidamente (cosa auspicabile ma come ben sappiamo molto difficile) e senza nessuna conseguenza per lui e per gli altri colleghi che durante quella notte si sono prodigati per comprendere quanto succedeva al paziente, ritengo utile porre l’attenzione su alcuni aspetti più generali che una vicenda come questa può introdurre nella discussione, ormai penosamente impoverita, sul destino della psichiatria italiana, sul significato che la società attuale sta dando all’intervento dello psichiatra, sul senso che invece molti psichiatri, voglio sperare la maggioranza, continuano a dare ai loro incontri con centinaia di migliaia di persone che ogni giorno affollano tutte le strutture a ciò deputate all’interno delle Asl, ancorché inadeguate e incapaci di accogliere in modo dignitoso il mondo della sofferenza psichica.
Faccio queste osservazioni dopo una lunga carriera passata all’interno del servizio pubblico (37 anni), che mi hanno visto ricoprire negli ultimi 24 anni, prima del mio attuale pensionamento, un ruolo di direttore dell’unità operativa complessa e di dipartimento.
Ma soprattutto mi ripenso, ancora molto giovane, appena laureato, iniziare questo lavoro che continuo a ritenere straordinariamente gratificante, interessante, umanamente sempre coinvolgente, sull’onda della appena approvata legge 180, che doveva aprire, almeno sulla carta, gli occhi della società civile sul mondo degli internati in OP, chiamando tutti ad un’assunzione di responsabilità per fare propria una nuova modalità di assistere e curare i malati mentali, non più basata sulla separatezza e sulla discriminazione; la legge sembrava poter portare ad una nuova capacità di organizzare i servizi in base ai bisogni delle persone, tenendo in alta considerazione la loro fragilità, gli aspetti di vulnerabilità, gli aspetti legati ai possibili agiti, partendo però da una considerazione fondamentale riguardante la necessità di operare nel rispetto delle persone e senza ricorrere alla violenza.
Forse, molti anni dopo, potremmo dire che la legge 180 portava con sé, pur senza averne né i mezzi,né la possibilità concreta, il flusso importante della società civile che negli anni 60- 70 aveva assistito al dibattito sui manicomi, sulla loro inutile e assurda separatezza dal mondo della vita, sulle infinite tragiche storie che al loro interno si erano dipanate, e che non riguardavano solo gli ammalati mentali, ma una parte ben più considerevole di persone gravate solo dal peso della marginalità, dell’isolamento sociale, della povertà.
Ma certo noi giovani psichiatri, già allora influenzati dalla ricchezza straordinaria della psicopatologia soprattutto di orientamento fenomenologico, dalla psicodinamica, e da un reale interesse verso il mondo della sofferenza psichica, pensavamo che da tutto questo, cogliendo la grande occasione della riforma, potesse effettivamente nascere una psichiatria pubblica diversa, capace di affrontare quotidianamente le difficoltà legate ai complessi interventi che dovevano essere effettuati tutti i livelli (di prevenzione secondaria, di cura, di attenzione al significato della riabilitazione).
Forse questo spirito ha avuto fino agli anni ‘90 una sua qualche logica, essendo difeso e portato avanti non solo agli specialisti, ma anche da una parte importante del mondo politico, che, almeno sulla carta, aveva contribuito a scrivere dei progetti obiettivo sulla tutela della salute mentale che, come spesso purtroppo accade nel nostro paese, rimasero poi solo sulla carta.
Ma voglio ricordare quanto scriveva il grande A. Tatossian alla fine del suo indimenticabile lavoro sulla fenomenologia delle psicosi: “… Se l’umanità non sceglie le sue malattie mentali, essa sceglie la sua psichiatria, poiché questa riflette “lo spirito dell’epoca" e “la sua antropologia latente".
Dobbiamo riconoscere che lo spirito dell’epoca attuale non è più quello che favorì, pur se in modo affrettato e quasi obbligato dall’urgenza di evitare un referendum, la approvazione della legge 180 che, pur essendo di fatto una legge che riguardava essenzialmente le modalità con cui dovevano essere eseguiti i trattamenti sanitari obbligatori, comunque portava con sé un diverso concetto antropologico riguardo al destino dei malati di mente.
L’impoverimento progressivo del dibattito all’interno della psichiatria “ufficiale”, la forzata negazione della ricchezza della ricerca psicopatologica, quasi sconosciuta all’interno degli insegnamenti universitari e portata avanti con difficoltà in questi ultimi vent’anni soprattutto da un piccolo gruppo di colleghi, capeggiati da figure di grande rilevanza ( quali A. Ballerini, B. Callieri, G.Gozzetti ,E. Borgna ) e di cui G. Di Petta è una delle figure attuali di riferimento, ha di fatto contribuito ad una separazione della modalità con cui la disciplina psichiatrica si è via via posta nei confronti della società civile, attraverso un tentativo (mimetico della psichiatria di origine angloamericana) di scivolare sempre di più verso un modello biomedico, tralasciando conseguentemente ogni bisogno di riflessione filosofica sugli aspetti metodologici e non solo sui contenuti del lavoro psichiatrico.
Così che oggi si dice , in molte riunioni operative all’interno delle Asl, che la psichiatria deve occuparsi “solo degli aspetti essenziali", tralasciando il resto alla cooperazione sociale o alle cliniche private.
Ci si chiede naturalmente quali siano questi “aspetti essenziali" e naturalmente ancora una volta è chiaro che si intende riferirsi alla necessità di operare un attento controllo sociale, di essere in grado di intervenire su ogni aspetto di patologia del comportamento, di dover comunque e in ogni caso sentirsi chiamati in causa ogni qualvolta vi sia una problematica che abbia a che fare con persone sofferenti, o presunti tali, di una malattia mentale.
Sofferenti o presunti tali: ciò che sembra sempre più paradossale è che la psichiatria, così impegnato a ritagliarsi uno spazio interno al mondo medico, è trascinata di nuovo in una situazione in cui altri decidono chi sono i pazienti di cui gli psichiatri devono occuparsi.
Imprigionati tra questo rischio, e la progressiva riduzione delle risorse, in primis degli psichiatri stessi, nonché di tutti gli altri operatori che con loro dovrebbero quotidianamente condividere il lavoro, di nuovo in modo esteso su tutto il territorio nazionale gli psichiatri tornano ad essere i protagonisti dell’urgenza, i novelli vigili del fuoco “capaci” di spegnere, o di sedare, qualsiasi situazione acuta, non potendo essere implicati nella gestione di quelle situazioni, non potendo decidere in che modo quei pazienti dovrebbero essere seguiti prima e dopo l’urgenza, ma dovendo limitarsi a chiudere in modo definitivo gli aspetti critici, permettendo al mondo “cosiddetto sano" di poter continuare nelle quotidiane vicissitudini, senza essere disturbato dal rumore di sottofondo costituito da persone affidate a ogni tipo di comunità, o gestite solo attraverso interventi spot, gli unici permessi alle reali possibilità dei servizi, rumore che comunque non deve mai superare una soglia che progressivamente si fa sempre più bassa.
È in questo panorama di senso che si deve scrivere la vicenda di cui ci ha parlato G. Di Petta, che oggi lo ha visto coinvolto e che domani potrebbe coinvolgere molti altri psichiatri ugualmente gravati da richieste di interventi a-progettuali, del tutto disincarnati dalla realtà dei pazienti, ma che devono comunque far fronte ad un fatto compiuto, ad una situazione di sofferenza, ad una situazione di gravità, che non può avere, come ben sappiamo nel nostro campo, solo una risposta nel qui ed ora e che necessita sempre di una comprensione più ampia, che non privi lo psichiatra né della capacità di conoscere il contesto, nè di poter operare al suo interno.
Caro Lodovico, ti ringrazio
Caro Lodovico, ti ringrazio di cuore del tuo commento, che trovo prezioso, essenziale, necessario. Prezioso poichè è redatto da un testis temporum, ovvero da un uomo ed un clinico che ha vissuto coevamente tutti i passaggi che ci hanno condotto dal manicomio al territorio, dal territorio al post-territorio. Essenziale perchè sei riuscito a cucire aspetti sociopolitici ed aspetti clinici con punti di sutura solidi ed invisibili. Necessario perchè nulla è più necessario di una radura quando si cammina in un bosco e si è smarrito il sentiero. Di una radura per riorientarsi. Ma, soprattutto, per alleggerirsi da un senso di colpa. Qual è il senso di colpa? Il senso di colpa che le generazioni post basagliane portano dentro, di non essere state all’altezza del mandato che avevano ricevuto. Era un mandato impossibile, utopico, delirante? Forse. Forse no. Era un mandato che prevedeva ci si muovesse insieme, tutti, dentro un campo di trasformazione antropologica, culturale, sociale. Forse baluginava, in quella riforma, l’utopia filantropica di Pinel. Credo che in quegli anni, che tu hai vissuto, il Geist fosse molto prossimo al Geist dell’onda riformista e rivoluzionaria che ha animato Pinel, i cui echi umanistico-filantropici sono indovati nelle fondamenta della psichiatria come scienza storica, e guai a chi lo dimentica. Tuttavia le utopie, come i deliri, hanno vita corta nello spazio della realtà, se non trovano o, meglio, se perdono la capacità di interloquire con la realtà. Questa capacità noi abbiamo perduto. Nello scambio ferrioviario che la psichiatria ha attraversato, da scienza storica a scienza medica, la capacità di sentire l’odore del mondo è andata perduta. Siamo progressivamente rimasti soli. I nostri presidi si sono trasformati da avamposti sulla frontiera a fortini di retrovia, dove si conduce una guerra di difesa e di resistenza, una scaramuccia di retrovia, per l’appunto, e non si sferra mai un attacco in grande stile. Il passaggio da scienza storica a scienza medica ha fatto perdere alla psichiatria non solo la sensibilità al mondo, ma anche la dimensione clinica. Nel generale schiacciamento che la dimensione clinica ha subito nella medicina, la psichiatria, con la clinica, ha perso tutto ciò che aveva. rimanendo flatus vocis, ovvero post-verità. La psichiatria mainstream, quella che ascoltiamo nei convegni ufficiali, quella che viene erogata dalle cattedre nelle scuole di specializzazione, altro non è che post-verità. La psichiatria che si pratica invece ogni giorno, quella del real world, altro non è, come tu dici, che spegnifiamma, a vario grado di intensità. Noi siamo gli estintori. Noi estinguiamo la follia. I suoi focolai. L’errore originario, il peccato originale dell’onda rivoluzionaria, negli anni settanta, fu non includere, nelle sue fondamenta, le carte nautiche della psicopatologia. Sembravano inutili. Allora. Poi ci siamo perduti. Dunque una rifondazione della psichiatria come scienza storica oltre che scienza medica, si pone non come auspicabile, ma come elemento chiave della rinascita. Non solo fondi, non solo risorse, non solo operatori : cultura e trasformazione umana, consapevolezza storica e capacità semeiotico-cinica saranno i tratti istitutivi dello psichiatra che verrà. Se, come capita nella storia ai fenomeni di costume, la psichiatria non scomparirà del tutto. Qualcuno presto potrebbe accorgersi che “il re è nudo”, ovvero che esiste una disciplina medica che non ha alcun fondamento anatomopatologico, le cui predicate nosografie non hanno alcuna validità e attndibilità. Dunque credo che siamo ad uno snodo. Questo snodo, per noi che ci siamo sentiti sempre piccoli di fronte ai padri che hanno cambiato il mondo, è la nostra possibilià di dare uno statuto ad una disciplina, come la psichiatria, che, nel bene o nel male, ha legittimato la sofferenza di chi, dalla fine del Settecento in poi, non ha avuto piu’ posto nell’organizzazione del mondo : i folli. Estinti i quali, nessuno si interrogherà più sul senso del nostro esistere come esseri pensanti.