Erwin Schrödinger, Science Theory and Man, Dover, New York 1957.
Mathematical reasoning can be done, and often should be done, in mechanizable formal logic.
Andrew W. Appel, Alain Turing’ Systems of Logic, 2012
Sono quasi sicuro che la maggioranza di chi ha aperto questo post, magari stimolato dal titolo bizzarro, ha trovato la questione peregrina, forse addirittura impensabile, poiché chi si interessa alle cose psi non si pone problemi così astratti. Non pensa alla possibilità di pensare in altro modo, per esempio meccanicistico, perché difronte a ogni situazione clinica pensa già nel rassicurante modo idealistico (v. il post di Ferragosto Due modi di pensare http://www.psychiatryonline.it/node/6379). Forse qualcuno si scandalizza per il termine “meccanicistico”; a costui offro, allora, il termine di riserva “pragmatista”, che è più morbido, e spiego cosa intendo.
Da Platone in poi il pensiero idealistico presuppone che le idee vengano prima delle cose e le rappresentino senza incertezze o imprecisioni. In generale, dove si rappresentano rappresentazioni, lì abita l’idealismo in versioni più o meno forti. Dal punto di vista idealistico le cose confermano le idee con certezza assoluta come se i fatti fossero già fatti dalle idee. Per altro, essendo innate e indipendenti dall’esperienza, le idee dell’idealismo non hanno neppure bisogno di essere confermate. In senso psicopatologico le idee innate sono deliri. La fenomenologia husserliana, che tanta parte ha nella psichiatria non organicista, è oggi la versione più perfezionata dell’idealismo platonico. Lungi dall’estendere il dubbio cartesiano, come pretende il suo autore, l’epoché di Husserl introduce surrettiziamente il soggetto al mondo delle idee a priori, le quali precedono le cose, che sono semplici apparenze, cioè fenomeni delle idee innate. Si potrebbe dimostrare che tutta la filosofia idealistica – fenomenologia in testa – si riduce al mito della caverna (v. Blumenberg), che rappresenta la verità di Platone.
L’idealismo è strettamente dicotomico: distingue tra opinione (doxa) e dottrina, che chiama “scienza” (episteme), la prima falsa, la seconda vera. Il pragmatismo meccanicista trasforma quella dicotomia, spostando le lancette dall’asse vero-falso all’asse certo-incerto: l’opinione diventa congettura né vera né falsa ma falsificabile; la dottrina diventa sapere non dogmatico, cioè sapere par provision non ancora falsificato. La scienza moderna o galileiana si inscrive così nel registro dell’incertezza; suo emblema è il dubbio cartesiano. L’incertezza si radica poi nell’incompletezza. L’idealismo presuppone la completezza del sapere, che può venire a sapere tutta la verità. Viceversa, presupporre la completezza introduce in territorio idealistico. Invece la scienza moderna, essendo pragmatica e meccanicista, è strutturalmente incompleta. Al suo fondo esiste una “rimozione originaria”, direbbe Freud, che non sarà mai del tutto cancellata. Le colonne d’Ercole del sapere moderno sono i teoremi di incompletezza sintattica e semantica, rispettivamente di Gödel e di Tarski.
Visto con occhi scientifici, l’idealismo è un pensiero autoreferenziale che pensa solo sé stesso in modo tautologico. L’idealismo è facile da pensare come “A è A” sulla base del principio di identità; non concepisce la variabilità, quindi neppure la probabilità, tanto meno la possibilità di farci sopra dei calcoli. Nel caso, le lacaniane “scienze congetturali”[1] del soggetto (“A può essere B”) non rientrano nell’idealismo psicoanalitico. Perciò Lacan passò per eretico. L’ortodossia idealistica non ama le novità e si adagia comodamente nella ripetizione dell’identico. La freudiana pulsione di morte, intesa come causa della coazione a ripetere lo stesso evento traumatico, è un artefatto dell’identità idealistica: A ritorna sempre come A, non potendo essere diverso da sé stesso.
Nella psicoanalisi freudiana funziona paradigmaticamente in modo idealistico la metapsicologia che pone le pulsioni sia sessuali sia di morte dalla parte delle idee a priori. In verità non importa l’ortodossia di partenza: nel campo psicoanalitico ci sono molte ortodossie, ognuna eretica rispetto alle altre ma tutte di stretta osservanza idealistica. In psicoanalisi eretici e ortodossi pensano tutti formalmente allo stesso modo, anche se con riferimenti ideali diversi, quindi sempre in modo non scientifico. C’è chi pensa le pulsioni, chi gli archetipi, chi i significanti, tutti pensano idealità infalsificabili in base all’esperienza clinica, le quali offrono solo conferme all’interno di un setting concettuale precostituito. In campo psi vigono esclusivamente dottrine che si possono solo confermare. La pratica scientifica della falsificazione delle ipotesi di lavoro non vi ha ancora preso piede – forse non può prendervi piede.
Contrariamente a quello idealistico, il pensiero meccanicistico non presuppone entità a priori certe ma opera pragmaticamente solo su congetture. Il meccanicismo immagina elementi materiali in movimento che interagiscono localmente tra loro per contatto (tipicamente per collisione e separazione), senza escludere la possibilità che l’interazione si manifesti in forma differita (nachträglich, direbbe Freud) a distanza dal luogo dove gli elementi hanno effettivamente interagito (v. delocalizzazione o entanglement quantistico). Il meccanicismo formula modelli in base ai quali deduce previsioni globalmente incerte, mai predizioni. La previsione dei fenomeni può essere falsificata dall’esperienza, la predizione solo confermata, come l’oracolo edipico testimonia in modo esemplare.
Quanto meccanicismo adotta la cosiddetta “psicodinamica”? Non molto, in pratica nulla. In questo post mi chiedo: non sarebbe di competenza del meccanicismo trovare simmetrie psicodinamiche per certi bizzarri fenomeni di transfert, chiaramente registrabili in clinica, che attraversano più generazioni come particelle entangled da un capo all’altro dell’universo?
Macché. Per il suo modo di procedere meccanicistico – o cosiddetto riduzionista – la scienza galileiana è la bestia nera del pensiero idealistico, quindi del pensiero psicodinamico, che di dinamico e di scientifico ha ben poco. Gli esempi non mancano, le fallacie neppure. Un certo freudismo identifica la scienza alla medicina, cioè equipara la libera attività di ricerca alla mera applicazione tecnica di principi prestabiliti (una fallacia freudiana). Un certo lacanismo identifica la scienza alla conoscenza (una fallacia illuministica) e la conoscenza scientifica alla paranoia (una fallacia di scuola lacaniana). Queste fallacie hanno una radice comune: la suddetta dicotomia tra opinione e “vera” scienza, che sarebbe la dottrina della corrispondenza “giusta” tra idea e cosa. La scienza galileiana esorbita da questa dicotomia: poiché, da una parte, è congetturale, cioè priva di riferimenti dottrinari incontrovertibili e, dall’altra, non si considera un’opinione definitiva sul reale ma una semplice ipotesi da elaborare ulteriormente, eventualmente da falsificare.
Tutte le dottrine che battono il campo freudiano, anche se diverse, hanno in comune un tratto ideologico negativo: sono forme codificate e ratificate di volontà di ignoranza – oggi gli psicologi la chiamano curiosità negativa. Detto alla Freud, sono meccanismi di difesa, non meccanicismi. Qualunque forma di ignoranza va bene per difendere la dottrina professata; non si vuol sapere d’altro che potrebbe mettere in crisi le consuetudini di pensiero e la conseguente attività professionale. In campo psi la forma più diffusa di volontà di ignoranza ha come oggetto proprio la scienza galileiana, discorso “altro” per eccellenza, non riducibile a nessuna ortodossia e addirittura allergico a riferimenti ideali, ma non per questo pura opinione. Poi si giustifica la volontà di ignorare la scienza con un diffuso luogo comune di ascendenza fenomenologica, genericamente antipositivista; la scienza sarebbe oggettiva, quantitativa, deterministica e quindi estranea, se non contraria, alla “scienza del singolo”, quale sarebbe la psicoanalisi, che pratica una forma di pensiero soggettivo, qualitativo e libero.
A “meccanico”, cioè al secondo significante principale del discorso scientifico dopo “materiale”, si attribuisce il significato riduttivo di “schematico”, “prevedibile”, “scontato”, nel migliore dei casi “preciso” e “positivo”, quindi inadatto a recepire le fluttuazioni metaforiche delle “libere associazioni” del paziente.[2] L’ideologia corrente è che la psicoanalisi sia una scienza sui generis: la scienza del singolo e delle narrazioni singolari, nel contesto di una fenomenologia ermeneutica, fondata su due principi metafisici, chiaramente individuati da Leibnitz, necessari a formalizzare l’ontologia parmenidea:
a) il principio di identità degli indiscernibili, che vieta l’esistenza di due individui uguali; se esistono, è lo stesso individuo con due nomi diversi. Secondo Goethe il singolare è il vero universale, a maggior gloria dei complessi, degli archetipi, delle eredità arcaiche, delle genealogie, ecc.;
b) il principio di ragion sufficiente, che garantisce per ogni fenomeno l’esistenza di una causa specifica.
I manuali di filosofia dimenticano di precisare che il principio di identità degli indiscernibili è la condizione necessaria per applicare il principio di ragion sufficiente, il quale esclude che la stessa causa possa avere due o più effetti diversi, tipicamente il dado che cadendo può produrre ben sei effetti diversi. In altre parole, se decade il principio di identità degli indiscernibili decade anche il principio di ragion sufficiente.
Oggi in fisica non si parla più di ontologia ma di statistica. Nel caso più assimilabile all’ontologia parmenidea dell’essere che è e del non essere che non è si parla di statistica secondo Maxwell-Boltzmann. È la statistica che tratta la distribuzione di particelle distinguibili tra stati energetici distinguibili. È opportuno ricordare, tuttavia, che nessuna misura fisica effettiva corrisponde alla statistica (multinomiale) di Maxwell-Boltzmann. È come dire che l’ontologia parmenidea, con le sue propaggini fenomenologiche, non ha esistenza reale ma solo filosofica, cioè immaginaria. Nel discorso scientifico si danno individui diversi che non si distinguono da altri individui; in psicanalisi si chiamano sosia, in fisica protoni, neutroni, elettroni, fotoni. Di questa peculiarità, che suppone l’esistenza di individui ontologicamente diversi ma epistemicamente indiscernibili va tenuto conto teorizzando il soggetto collettivo. È molto probabile che su un’altra galassia, da qualche parte nell’universo, per esempio nella vicina Andromeda, esista un oggetto con gli stessi miei elettroni, quindi indistinguibile da me. Tutto quel che posso dire è che i miei elettroni non sono veramente miei; la mia vita non è solamente mia, se penso in termini meccanicisti. Nel meccanicismo la nozione di vita non ha nulla di categorico.
Insomma, nel migliore dei casi la psicoanalisi non scientifica, se non fosse attività medica, orientata alla ricerca delle cause e alla determinazione delle identità singolari, sarebbe letteratura, un po’ enigmistica (vedi il post http://www.psychiatryonline.it/node/6483), un po’ poliziesca, tutto tranne che meccanicistica. Il contesto in cui si muovono le teorie psicanalitiche idealistiche non può, tuttavia, non suscitare il sospetto che si tratti di riflessi del narcisismo dello psicoanalista, che proietta “teoricamente” sul paziente le peculiarità della propria storia, i propri complessi, i propri sintomi. Sono scherzi dell’idealismo freudiano i complessi di edipo e di castrazione con cui i nostri analizzanti tentano di analizzarsi. Sono scherzi relativamente innocui nel singolo caso, che tuttavia devitalizzano il freudismo in generale rispetto alla sua portata sovversiva anti-idealistica.
Se mi pongo una domanda tanto peregrina quanto quella che intitola questo post c’è una ragione “singolare” ed è perché da almeno vent’anni, grazie alla formazione scientifica ricevuta da giovane, sono riuscito a uscire dall’idealismo psicoanalitico e dalle scuole che lo coltivano. Oggi ritengo che sia possibile inaugurare una scienza psicoanalitica meccanicistica, non necessariamente riduzionista e meno arcaica di quella che mi hanno insegnato a praticare, da cui ho da tempo preso le distanze. Con qualche ragione immagino che sia possibile pensare una psicoanalisi più materialistica di quella ispirata all’improbabile freudo-marxismo in voga ai miei tempi, doppiamente idealista. Il marxismo fu infatti un idealismo, non un materialismo, filosoficamente non molto diverso dal freudismo. Ma so fin troppo bene che in generale non è facile smantellare l’idealismo. In particolare, quello duro della psicoanalisi resiste a ogni tentativo di decostruzione, arroccato com’è in istituzioni psicoterapeutiche e difeso dagli indottrinamenti ortodossi, riconosciuti e avallati per legge, magari in nome della difesa del soggetto debole, nel caso il paziente.
Per procedere, dirò due parole per dire, primo, in cosa consiste l’idealismo di Freud, padre di tutti gli idealismi postfreudiani; secondo, come riconoscerlo ed eventualmente uscire dalla sua presa.
Per l’idealismo freudiano spiegare un fenomeno significa trovarne la causa specifica, essendo garantito dal principio di ragion sufficiente che essa esiste sempre. Trovarne la causa significa “salvare il fenomeno”, come pretendevano gli antichi greci che agli astronomi chiedevano di giustificare i celesti vagabondaggi dei pianeti.[3] L’assunto di base del pensiero eziologico è platonico, cioè vero a priori: le cose sono belle perché partecipano dell’idea di bellezza,[4] che è la vera causa dell’essere bello.
Questa è la premessa generale della mia esegesi del freudismo: come per gli antichi, per Freud la scienza era scire per causas e le cause erano sempre cause ideali. Nel caso freudiano le cause si chiamano pulsioni. Come l’idea del bello causa la bellezza della cosa, come l’oppio fa dormire, perché ha la virtus dormitiva,[5] così la pulsione sessuale produce soddisfazione sessuale perché è sessuale. Il vero idealismo è o tautologico o superstizioso.
Essendo idealistica, la "scienza" freudiana è pregalileiana. In tutte i suoi scritti Freud non cita mai Galilei; non riconosce l’approccio scientifico galileiano, che analizza la caduta dei gravi a prescindere dalle sue cause. Freud non usa modelli meccanici, dove singole parti materiali agiscono localmente su altre parti, che a loro volta reagiscono su quelle producendo effetti globali, in generale incerti; non concepisce molecole che interagiscono tra loro generando o interrompendo dei flussi, per esempio termici – come propongono Deleuze e Guattari nel loro Anti-Edipo; non considera il caso interessantissimo di processi localmente regolari ma globalmente caotici, cioè imprevedibili, affrontato ai suoi tempi da Poincaré. Freud non era aggiornato sulla scienza contemporanea; nella sua psicodinamica Freud formula considerazioni molari, cioè generiche, intorno alle essenze ideali dei fenomeni psichici – direbbero ancora gli stessi autori.
Poi Freud connette tra loro le essenze psichiche con un principio universale di razionalità eziologica, il principio di ragion sufficiente, pura superstizione per Wittgenstein (v. Tractatus 5.1361). L’impostazione idealistica porta Freud a tratteggiare un quadro metapsicologico tendente al paranoico, dove con le sue rappresentazioni sessuali l’inconscio perseguita il conscio, che si difende censurandole e rimuovendole. In seguito, dopo la svolta del 1920, alla persecuzione dell’Io si aggiunge la pulsione di morte, che ripresenta all’Io sempre lo stesso evento traumatico. La verità prima e ultima di Freud è che la vera malattia mentale è la paranoia, perché la mente, se esiste, è strutturata come sistema delirante persecutorio. La personalità è paranoia, ho imparato alla scuola di Lacan. Nel freudismo la paranoia è la malattia mentale “naturale” o “originaria” dell’Io. Sulla sua base si innestano nevrosi, perversioni e psicosi.
La diffusione delle tesi complottiste sul web sembra estendere la struttura paranoica dall’apparato psichico individuale a quello collettivo. La responsabilità degli eventi sociali negativi, dai crolli in borsa ai danni delle vaccinazioni, è sistematicamente ricondotta a qualche potenza ostile, regolarmente straniera. Sembra che pensare in modo paranoico sia immediato e alla portata di tutti. Dall’idealismo alla paranoia il passo è breve e non difficile. Se esistono idealità, tutto ciò che le contrasta giustifica la paranoia. (Per il paranoico ogni evento conferma il proprio delirio).
L’idea di causa è il baricentro del pensiero idealistico. Nell’Uomo Mosè e il monoteismo (1938) Freud dichiara di aderire al principio di ragion sufficiente ottemperando a un “imperioso bisogno di causalità”,[6] imperioso perché a priori e oggettivo, in verità metafisico. Così il punto è assodato: l’assetto del discorso freudiano è idealistico. “Edipo, è la svolta idealistica”, affermano Deleuze e Guattari senza mezzi termini.[7] È la svolta paranoica, si potrebbe dire con più forza. Nel 1910 Freud scriveva a Ferenczi: “Sono riuscito dove il paranoico fallisce”. Si sbagliava; benché passasse le notti a phantasieren, übersetzen, erraten (“fantasticare, tradurre, tirare a indovinare”. Lettera a Fliess del 25 maggio 1895), Freud non si rendeva conto che la paranoia era già materializzata in forma latente nella propria dottrina delle cause pulsionali.
Un esempio più “leggero”? Il caso della dimenticanza a due: “io non ricordo, quindi tu dimentichi”, citato nella Psicopatologia della vita quotidiana;[8] a Freud sfugge la natura dell’interazione sintomatica tra elementi dello stesso collettivo perché non trova la causa ideale che dall’alto, in termini superegoici, regoli le transazioni tra due soggetti posti sullo stesso piano. Dell’interazione interindividuale, del rapporto tra soggetto individuale e soggetto collettivo Freud non sa che dire. Più in generale, come Davide Radice mi fa notare, là dove Freud usa termini con il prefisso Ur, da Ursache (“causa” o “cosa che viene prima”) a Urhorde (“orda primitiva”), da Urvater (“padre primitivo”) a Urverdrängung (“rimozione originaria”), lì affiora nel medico di Vienna l’idealismo latente nella lingua tedesca, che salva i fenomeni presupponendo una causa “a monte”.
L’idealismo si riconosce dalle credenziali essenzialistiche. Ha la pretesa di andare all’essenza delle cose, dichiarando di andare “verso le cose stesse”.[9] In realtà la fenomenologia non va alla cosa ma all’essenza della cosa, cioè all’idea. L’essenza è la proprietà globale del fenomeno, al di là dei dettagli locali, considerati contingenti. Con l’essenza l’idealismo punta al molare, dimenticando il molecolare nel senso di Deleuze e Guattari, che ripresero una distinzione già abbozzata nel 1896 da Boltzmann nella termodinamica dei gas (teorema H).
Ecco una considerazione meccanica semplice ma esplicativa. Una mole di sostanza, qualunque sia la sostanza, contiene circa 602.200 miliardi di miliardi di molecole, senza considerare errori di conteggio dell’ordine di non meno di 776 miliardi. La mole diventa un tutto ideale al cui interno si trascurano le singole interazioni tra molecole, che sono esponenzialmente più numerose delle molecole stesse. Il macrostato (molare) prevale sul microstato (molecolare), come si dice in termodinamica, che “dimentica” le interazioni molecolari interne al macrostato. Dovendo approssimare i microstati, definiti dalle posizioni e velocità di tutte le molecole, con macrostati, definiti dai valori delle variabili di stato (pressione, volume e temperatura) e comprendenti tutti i microstati che la precisione sperimentale non arriva a distinguere, la termodinamica stessa non sfugge a un certo idealismo;[10] per esempio, stima interazioni molari tra stati attraverso misure globali di entropia, integrando i trasferimenti di calore tra macrostati a una certa temperatura, nell’ignoranza delle singole interazioni molecolari; coordina poi il tutto sotto un mitico principio di causalità finalistica, per esempio l’aumento incondizionato dell’entropia, dimenticando le reali interazioni molecolari entro stati. Questa sommaria ignoranza idealistica decade in meccanica quantistica, che reintroduce correlazioni molecolari “sotto” quelle molari. Schrödinger (1935) le chiamò entanglement o Verflechtung, segnalando una funzione epistemica affine a quella che nel 1974 Lacan chiamerà “sapere nel reale”.[11] Schrödinger – ricordo – ebbe chiara l’intuizione che energia ed entropia fossero solo misure statistiche, e quindi ideali, di grandezze indeterminate (ma non perciò irreali).
(Non si creda. Anche nella fisica più dura ha a lungo prosperato l’idealismo deterministico inaugurato e consolidato da Newton. Per buona parte del XIX secolo gli energetisti, capifila Ostwald e Mach, al loro seguito Planck, negarono addirittura l’esistenza degli atomi, propugnando nozioni come materia continua e fluido calorico. Probabilmente Boltzmann si suicidò per la loro ostilità al meccanicismo. Poi Planck cambiò idea.)
Il riferimento alla termodinamica mi autorizza a segnalare un recente raffinato approccio idealistico alla psichiatria, mascherato da scientificità, giocato sui ben noti rapporti tra termodinamica e teoria dell’informazione. Parlo di Giulio Tononi, che da buon fenomenologo idealista pretende superare l’approccio riduzionista ricorrendo a un ben noto trucco. Invece di ridurre la fenomenologia della coscienza alla fisica, Tononi percorre il tragitto inverso dalla fenomenologia alla fisica, affidando l’operazione a un “coscienzometro”, l’indice Phi, sostanzialmente una misura di entropia. Phi tiene conto in modo sincrono dell’integrazione/differenziazione dei sistemi neurali implicati nei fenomeni di coscienza, a prescindere dai singoli neuroni.[12] Si tratta, direbbero ancora Deleuze e Guattari, di un grossolano indice molare e non molecolare, idealistico e non realistico, costruito in grande e non in piccolo. Per altro basterebbe il primato accordato ai fenomeni della coscienza per riconoscere in tali operazioni l’idealismo psichiatrico, una vecchia conoscenza dai tempi di fenomenologi della stazza dei Binswanger, Jaspers e Minkowski.
Operata l’idealizzazione molare, l’idealismo procede applicando certe presunzioni universalistiche come il principio di causalità, per cui ogni fenomeno ha una causa. Come Freud, Tononi parla tous court di “potere causale”.[13] L’idealismo non ammette fenomeni senza causa; la scienza sì: il moto inerziale, il decadimento radioattivo, le mutazioni biologiche, la deriva genetica, sono alcuni fenomeni che si salvano da soli anche senza salvagente eziologico. La presunzione eziologica, di marca ippocratica, è superstizione;[14] giustamente non ha più corso nella scienza galileiana. Praticando l’eziologia, come il medico o il mago, il fenomenologo e il suo cugino psicoanalista – Husserl e Freud scolaretti sui banchi dei seminari viennesi di von Brentano – perdono ogni possibilità di analisi scientifica e ricadono nell’idealismo, magari addirittura in versione empirista, per il ruolo determinante assegnato alla conferma empirica.
(Un prossimo post su pol.it, magari scritto da un autore diverso dal sottoscritto, andrebbe dedicato al superamento dell’idealismo linguistico di Chomski, che presuppone una grammatica universale ideale in base alla quale il parlante selezionerebbe la grammatica della propria lingua a fronte degli esempi linguistici correnti nel proprio ambiente. Mi limito a segnalare in proposito l’articolo di Paul Ibbotson e Michael Tomasello, Un nuovo modo di vedere il linguaggio, in “Le scienze”, 581, gennaio 2017, p. 60. Il nuovo modo è quello pragmatista, che riconduce l’apprendimento del linguaggio all’uso linguistico collettivo, regolato da un sapere diffuso ma concretamente espresso nelle interazioni individuali.)
In particolare, tornando a Freud, l’idealismo freudiano si articola in un doppio movimento di va e vieni. In andata, dalle idee alle cose, si basa sul principio di ragion sufficiente, per cui ogni cosa ha alle spalle almeno una causa ideale (nelle lingue neo-latine “causa” è l’etimologia di “cosa”[15]). Al ritorno, dalle cose alle idee, convoca l’interpretazione, o l’ermeneutica, che attribuisce all’effetto la propria causa “specifica”, che l’effetto retroattivamente conferma. In entrambi i passaggi si ignora la dimensione dell’oggetto o della kantiana “cosa in sé”.[16] Freud tenterà di indebolire il secondo passaggio, ma mai il primo; per esempio, nel tardivo Costruzioni in analisi (1937), pone in secondo piano l’interpretazione rispetto alla costruzione di modelli interpretativi allargati addirittura fino al delirio (ma mai modelli meccanicisti). Dall’ermeneutica idealistica Freud non uscirà mai del tutto. I suoi epigoni, meno scientifici di lui, ci rientreranno ancora di più.
Le due topiche freudiane sono un esempio paradigmatico di idealismo psichico. L’apparato psichico freudiano consiste in macrocomponenti (“molari”, direbbero ancora Deleuze e Guattari) tra loro connesse da frontiere, in pratica da dogane che esercitano funzioni di censura e rimozione sui transiti di informazioni da una componente all’altra. È così tra preconscio e inconscio nella prima topica o tra Es e Io nella seconda. L’organizzazione dell’apparato psichico individuale sembra modellata su una struttura pubblica, burocraticamente governata da un’amministrazione statale o parastatale, nel caso il Super-Io. In realtà per Freud non era esattamente così ma piuttosto l’inverso. L’elucubrazione idealistica freudiana, infatti, era orientata a modellare il collettivo sull’individuale, posto come originario. La massa – reviviscenza dell’orda primitiva – era per Freud una somma di individui non interagenti tra loro, ma tutti identificati allo stesso oggetto d’amore e odio: l’Uno, il Führer. Oggi la proposta politica freudiana di un soggetto collettivo indifferenziato e cumulativo si chiamerebbe populismo; nel secolo breve ebbe nomi meno nobili. La sua discutibile nobiltà risale a Hobbes: il popolo si costituisce come unità politica solo attraverso la sovranità indiscussa dell’Uno cui tutti si assoggettano. Si assoggettano “volontariamente”, secondo Etienne de la Boétie (v. Il contro uno, 1576, postumo), rinunciando alla propria libertà. Il tema sarà ripreso ai nostri giorni da Foucault, per il quale non c’è soggetto senza potere che lo assoggetti.
Le componenti dell’apparato psichico, le cosiddette istanze psichiche, essendo idealistiche, si scambiano rappresentazioni. Di cosa? delle forze pulsionali, mitiche forze costanti che non esistono in biologia ma solo nella narrazione freudiana, dove prendono il posto degli istinti ma, non essendo fattori biologici, senza subire la selezione naturale. L’apparato psichico freudiano è idealistico nel senso che metabolizza rappresentazioni pulsionali, dette rappresentanti della rappresentazione (Vorstellungsrepräsentanzen); l’energia che ne alimenta il funzionamento è una particolare energia psichica; Freud la battezzò “libido”, un fattore quantitativo non misurabile [sic].[17]
Essere psicologie della rappresentazione è il tratto idealistico comune a tutte le varianti di teorie psicoanalitiche vigenti, anche se tra loro in conflitto. Quella che forse più si scosta dall’idealismo, supponendo particelle elementari (o “molecolari” direbbero sempre Deleuze e Guattari), quali sarebbero i significanti del godimento, che producono un sapere che non sanno di sapere, è forse proprio la variante lacaniana. Lacan tuttavia torna a essere idealistico nel momento in cui ammette che i significanti siano anch’essi dei rappresentanti: non rappresentano l’oggetto ma il soggetto per un altro significante, sostiene Lacan, affermando categoricamente che non c’è altra definizione di significante.[18] Lacan parla di oggetto in termini di oggetto a,[19] chiamandolo ancora idealisticamente “causa” del desiderio. Tale oggetto, “originariamente perduto”, abita l’intersezione vuota dei tre registri della soggettività: reale, simbolico e immaginario. È proprio di ogni forma di idealismo, in particolare di ogni fenomenologia, “abitare la distanza” dall’oggetto (abitando la vicinanza alle essenze ideali). Di conseguenza, l’idealismo funzione da efficace – forse il più efficace – meccanismo di difesa dalla sessualità.
Ci sono diverse ragioni per prendere le distanze da siffatti idealismi. Elenco le principali per me.
Menziono per prima la più importante per me, data la mia formazione scientifica dura: il rifiuto dell’antropomorfismo implicito in ogni idealismo, dove un piccolo uomo dentro l’uomo, un homunculus, si rappresenta le cose con le loro idee. All’antropomorfismo è correlato il vitalismo: un piccolo uomo “vive” dentro l’uomo e lo muove. Classicamente si chiama “anima” o “psiche”; l’approccio animistico si avvale dell’altisonante nome greco di antropopoiesi. Nel Fedro Platone rappresenta l’anima come auriga che guida una biga con due cavalli discordanti, uno che tira verso l’alto, l’altro verso il basso. Ragioni più formali per rifiutare l’idealismo sono il tecnicismo e lo scolasticismo, condimenti in salsa epistemica di ogni idealismo.
L’antropomorfismo pensa un piccolo uomo dentro l’uomo – dicevo – che rappresenta il mondo con idee innate, preesistenti all’esperienza, la quale si limita a selezionarle;[20] poi, in funzione delle loro rappresentazioni, il soggetto agisce. Essere nel mondo significa rappresentarlo in modo trascendentale e agire di conseguenza. L’antropomorfismo è palese in Freud. Dentro l’uomo, nell’apparato psichico freudiano, coabitano addirittura tre omuncoli: l’Io, l’Es e il Super-Io, in perenne lite tra di loro e con il mondo esterno, come i due cavalli platonici. Il vitalismo è ultimo avatar dell’idealismo, nella forma che presuppone l’essenza vitale; esso è sempre stato presente nella metapsicologia freudiana sotto forma di pulsioni di vita, prima come pulsioni di sopravvivenza dell’Io e poi addirittura rovesciate in quelle di morte.
Oggi in filosofia la corrente vitalistica gode di grande favore; sfocia nella bio-politica, che viene fatta risalire alla distinzione aristotelica tra bios e zoe. Al fondo c’è una coerenza storica: Aristotele fu degno discepolo di Platone; fu l’allievo che diede corpo all’idealismo del maestro, soprattutto con la sua partizione delle cause in materiali, formali, efficienti e finali. Nella Quadruplice radice del principio di ragion sufficiente (1813) Schopenhauer riprenderà tale tetrapartizione, ponendola a fondamento delle quattro rationes idealistiche: fiendi (o del divenire, orientato dalla causa finale), cognoscendi (regolata dalla causa formale), essendi (fondata sulla causa materiale) e agendi (regolata dalla causa efficiente).[21] Senza citarlo Lacan, in questo poco freudiano, ricalcò Schopenhauer, quando pose la causalità alla base della psicoanalisi (con la causa materiale o significante), della scienza (con la causa formale), della magia (con la causa efficiente) e della religione (con la causa finale).[22] Già tempo prima Lacan aveva optato per l’idealismo, ponendo la catena significante al posto della catena causale. Con tale mossa l’idealismo lacaniano divenne logocentrico.
L’esperimento è facile. È facile mostrare empiricamente che l’idealismo porta alla tecnica, non alla scienza. Si scorrano gli indici dell’Internationale Zeitschrift für Psychoanalyse dal 1913 al 1941, reperibile sul web. Si troverà “tecnica psicoanalitica”, non “scienza psicoanalitica”. Il primo seminario di Lacan è dedicato agli scritti tecnici di Freud, non agli scritti scientifici. La ragione è ovvia. La psicoanalisi nasce come dottrina concepita e posta in pratica da un unico maestro. È lui con il proprio insegnamento a stabilire la corrispondenza giusta, cioè ortodossa, tra le idee e le cose; è lui, quindi, a stabilire come agire in pratica in modo tecnicamente corretto. In psicoanalisi si pensa come vuole il maestro e si opera professionalmente secondo le sue direttive e con la coscienza a posto. Così si fa della tecnica e non della scienza.
Sto dicendo che in psicoanalisi non si fa scienza per congetture e confutazioni, ma si applicano procedure tecniche prestabilite e certe, per lo più eziologiche, essendo il calco psicanalitico ricalcato su quello medico. Era così nella scuola originale di Freud; è così in tutte le scuole che da quella sono derivate per scissione ed eresia. Non stupisce: nelle scuole vale ovunque e comunque lo schematismo idealistico delle idee prestabilite da applicare in pratica perché giuste o ortodosse e come tali difese da ogni digressione dai geronti della scuola. Il risultato non è scienza ma tecnica. Il tecnicismo psicoanalitico non tollera perturbazioni dell’ortodossia vigente e va di conserva con lo scolasticismo.
La storia della cosiddetta formazione psicoanalitica dello psicoanalista è un cliché che si ripete uguale in ogni scuola, indipendentemente dall’ideologia che la informa. Il futuro psicoanalista entra in formazione in una certa scuola di psicoanalisi – ce ne sono tante – e ne esce formato nel senso di conformato all’ideale della scuola frequentata, stabilito una volta per tutte dal fondatore (fondatrice, non c’è differenza di genere). E non cambierà più perché il “conformato” ha adottato una dottrina che non ha lo statuto precario della congettura scientifica[23] ma la rigidità del dogma religioso. A quel punto la burocratizzazione delle funzioni psicoanalitiche e dei connessi riti sociali – dai gruppi di studio ai congressi miranti a confermare le dottrine – è inevitabile e la psicoanalisi come “scienza nuova” muore.
Come cambiare? Il meccanicismo offre una via d’uscita. Come? In due mosse: una negativa, l’altra positiva. La mossa negativa è astenersi dall’imporre al pensiero idee generali (generiche) prestabilite. L’innatismo non rientra nel meccanicismo. La mossa positiva focalizza l’interesse della ricerca sul particolare, inteso topologicamente come fatto locale contrapposto a globale, piccolo a grande. Privilegiando l’analisi degli intorni di un punto, individuando i punti limite di un insieme, la topologia si propone come discorso originariamente meccanicistico alla ricerca di simmetrie locali (non necessariamente euclidee). Ne esistono diverse varianti. In matematica si chiama calcolo differenziale; in fisica si chiamano teorie di gauge o di calibro; sono meccaniciste in senso topologico le macchine di calcolo di Turing con controllo finito (locale) su una memoria potenzialmente infinita (globale).
Curiosamente, la dimensione meccanica del particolare e del locale non mancò all’analisi al suo nascere ai tempi del Progetto per una psicologia (Freud, 1895), ma poi si perse man mano che la dottrina andava consolidandosi e allontanandosi dalla scienza galileiana. Le operazioni di condensazione e spostamento del processo primario inconscio sono in questo senso meccanicistiche, essendo operazioni locali sulla catena dei significanti. Basta rileggere il famoso capitolo VII dell’Interpretazione dei sogni di Freud. Ne segnalò la peculiare topologia lo psicoanalista ungherese, Imre Hermann, molto sensibile ai risvolti psicoanalitici dei fatti della logica e della matematica, in un ponderoso e poco letto articolo intitolato La preferenza per il margine come processo primario.[24] Del resto anche Lacan, quando dichiarava che l’analisi è come la storia una scienza del particolare[25] o che “un’analisi non progredisce se non dal particolare al particolare”,[26] si poneva in un’ottica topologica e meccanicista, purtroppo diventata troppo presto solo metaforica.
Certo, poi il meccanicismo della fisica va oltre la topologia euclidea, per esempio in meccanica quantistica, e a livello locale suppone interazioni o simmetrie energetiche tra particelle elementari, molecole, atomi e particelle subatomiche, che producono complicate architetture globali. La psicoanalisi di Freud ha tentato di battere la strada meccanicista con la teoria quantitativa della libido, un’enigmatica quantità non quantificabile. Si può fare di meglio, evitando l’inquinamento idealistico, che grava sulla teoria degli ideali dell’Io.
Magari si possono sfruttare in senso meccanicistico addirittura suggerimenti impliciti nelle dottrine idealistiche di entrambi i maestri citati. Prendiamo ad esempio la nozione clou dell’idealismo freudiano: la pulsione. Invece di considerarla una formazione ideale, cioè un concetto limite tra somatico e psichico,[27] si potrebbe considerarla un concetto limite tra l’io e l’altro, esito della loro interazione. L’opzione avrebbe perfino una giustificazione filosofica in Spinoza, il quale considerava l’affetto come azione reciproca tra due corpi: il mio e quello dell’altro. La topologia implicita in Spinoza è quella già esposta in questi post, che considera il soggetto come frontiera di uno spazio topologico, in questo caso la frontiera tra individuale e collettivo. La pulsione starebbe nel taglio che divide l’io dall’altro, congiungendoli mentre li separa. Certo la topologia dei tagli che modificano la connessione di una superficie fu suggerita a Lacan dalla mitologia della castrazione, onnipresente nella dottrina di Freud. Noi possiamo sfruttarla in modo più meccanico e meno antropomorfo, per esempio, concependo la frontiera tra individuale e collettivo come luogo di interazioni locali che configurano complessi, spesso imprevedibili, assetti globali.
Per il freudiano autentico superare l’idealismo del fondatore è vitale per conservare la carica sovversiva della démarche freudiana, a costo di potare l’albero freudiano dei rami idealistici.
All’uscita dall’idealismo paranoicamente connotato di Freud, codificato in una psicologia dove l’inconscio perseguita il conscio con rappresentazioni sessuali sgradite, il discorso si dischiude sul soggetto collettivo, che per alcuni utenti di questa rivista è solo una contradictio in adjecto (v. il post precedente http://www.psychiatryonline.it/node/6501).
Per pensare il soggetto collettivo va innanzitutto precisato che l’altro non è un soggetto solitario; non è neppure il Grande Altro, luogo trascendentale dove coabitano legge e verità. L’altro è da subito e originariamente plurale: ci vuole un altro per indicare all’io chi è l’altro, per esempio chiamandolo per nome o presentandolo con un gesto significativo. Secondo Herbert Mead l’altro è “l’altro generalizzato”, luogo di molteplici interazioni, inclinazioni, clinamen direbbe Lucrezio, che si compongono in codici ed eventualmente si scompongono in sottocodici di comportamento, che si estendono dal desiderio al godimento. L’altro generalizzato è l’altro nome di soggetto collettivo, che Freud “individualizza” nell’istanza superegoica.
La psicoanalisi del soggetto collettivo non si trova sui libri né calca le scene dei congressi di psicoanalisi. Qualcosa ne ho detto in Verso la psicoanalisi del soggetto collettivo.[28] Ma è tuttora da concepire in teoria e da implementare in pratica. Per ora mi limito a darle un nome. La chiamerei metaanalisi: l’analisi collettiva della formazione degli psicoanalisti, concepita non come l’acquisizione di dogmi, ma come l’esercizio congetturale collettivo dell’inconscio, per analizzare le singole analisi.
Dovremmo lavorare in direzione di una psicologia delle masse meccanicista considerando gli altri o come particelle elementari o come onde tra cui si stabiliscono simmetrie, specularità e interferenze in funzione delle quali si producono degli effetti – sì, perdonate la cacofonia – e anche degli affetti nel senso spinoziano del termine. Ha provato a battere questa strada, sebbene in modo letterario, sfociando in una serie di metafore discutibili, Elias Canetti; in Massa e potere (1960) concepì la massa come luogo dove agli individui è permesso toccarsi reciprocamente, essendo originario il terrore individuale di essere toccati dall’estraneo.
Il compito non è solo teorico, tuttavia. Per concepire una nuova psicologia delle masse non basta pensarla, bisogna viverla; bisogna cioè creare nuovi legami sociali non identificatori. La mia metaanalisi prevede legami sociali epistemici, basati sull’interesse e sulla curiosità di mettere alla prova ipotesi di lavoro alternative a quelle idealistiche. Insomma, c’è da lavorare in modo extra-scolastico. Il titolo di questo post indica la direzione, supponendo che dove c’è idealismo c’è scuola e, inevitabilmente, dove c’è scuola c’è idealismo. Se proprio si vogliono istituire delle scuole di psicoanalisi, si dia loro come programma la massima di Louis-Victor-Pierre-Raymond, 7° duca de Broglie, premio Nobel per la fisica (1929): “La scuola dovrebbe insegnare la solitudine”. Giusto per andare alle fonti del collettivo al di là delle confabulazioni magistrali.
Da ultimo un warning. Non si entra nel meccanicismo (nel pragmatismo) semplicemente criticando l’idealismo. Non basta criticare, bisogna fare. Per uscire dal recinto sicuro che blinda l’orticello idealistico ci vuole coraggio morale a sostegno di una scelta etica. Schopenhauer criticò Hegel e rimase idealista da quando concepì il mondo come rappresentazione. Marx criticò Hegel e rimase idealista, credendo di aver inventato il materialismo storico – un materialismo ideale, molare senza molecole. Viceversa è facile uscire dal meccanicismo e scivolare nell’idealismo; lo dimostrano molti uomini di scienza quando cominciano a filosofare. La filosofia spontanea degli scienziati è un rigurgito di senso comune – idealistico da millenni. Lo argomentò Althusser nel 1967 in Philosophie et philosophie spontanée des savants.[29] Non dimentichiamolo, se non vogliamo pensare perfino il materialismo in modo cripto-idealistico, concependo la materia come idea e trascurando la meccanica, cioè la simmetria dei movimenti delle sue componenti elementari rispetto a certi invarianti.
In estrema sintesi, l’idealismo è il pensiero autoreferenziale delle idee che pensano sé stesse. Non c’è pensiero etero-referenziale senza materialismo e non c’è pensiero materialista senza meccanicismo. L’idealismo, in conclusione, è la tomba del pensiero. Anche del pensiero psicoanalitico. Il meccanicismo sembra la scialuppa di salvataggio nel mare mosso dagli idealismi imposti dai maestri del momento.
Postilla epistemologica
Comincio a pensare che il concetto di entropia in fisica sia un artefatto idealistico, molare, non molecolare, direbbero Deleuze e Guattari, quindi poco meccanicistico. Forse non è un caso che in meccanica quantistica, che tratta interazioni molecolari, si parli poco di entropia.
Il diavoletto di Maxwell, che valuta le singole molecole e le seleziona in base alla velocità, farebbe diminuire l’entropia, confinando da una parte le molecole veloci e dall’altra le lente e creando così una differenza di temperatura in un fluido a temperatura omogenea. L’entropia sarebbe conseguenza della nostra ignoranza “molecolare”, che si trasferisce alle macchine da noi costruite, le quali non sanno come trasferire calore da una fonte fredda a una calda perché agiscono solo a livello “molare”.
L’entropia si giustificherebbe come misura dell’informazione, cioè della nostra ignoranza. Proprio così la trattò Shannon nella sua teoria dell’informazione del 1949. Forse con il secondo principio della termodinamica (Clausius, 1850) e con il connesso aumento dell’entropia (Clausius, 1865) irruppe nel discorso scientifico il soggetto della scienza con tutto il suo carico di ignoranza. Anche la scienza dura non sarebbe completamente oggettiva, quantitativa e deterministica, come amano ripetere i fenomenologi, ma possiederebbe un tratto soggettivo, qualitativo e indeterministico, che emergerà a pieno solo con la meccanica quantistica. Insomma, anche il meccanicismo più riduzionista può ospitare un po’ di soggettività.
Potrebbe esserci un meccanicismo probabilista? La meccanica quantistica con il suo principio di indeterminismo e la biologia evoluzionista con il suo contingentismo sembrano suggerire con forza l’adozione di qualche forma di probabilità magari addirittura ontologica per trattare quelle che Lacan chiamava scienze congetturali del soggetto. Freud come Hegel non produsse enunciati probabilistici. Sarà stata colpa della lingua tedesca, cui manca essenzialmente il termine per dire “probabilità”? Il tedesco dice Wahrscheinlichkeit, che letteralmente significa “verosimiglianza”. L’idealista tedesco non ha ancora spostato le lancette dall’asse vero-falso all’asse certo-incerto. Rimane ancorato più alla verità del fatto, idealizzato in modo positivista, che alla verità dell’atto, per esempio pragmaticamente inteso come si fa in psicanalisi.
Fall von Paranoia (Dementia paranoides 1911)”, GW, VIII, p. 311.
Eccezionale articolo, che mi
Eccezionale articolo, che mi trova d’accordo su tutti le argomentazioni, anche se ritengo che, a volte, certi aspetti della realtà convenga o si possa essere costretti ad approcciarli in maniera idealistica, se se ne vuole coglier un senso o, ancor più, accettarne il non senso.
Mi chiedo, inoltre, se non sia a volte opportuno, oltre che spostare le lancette dall’asse vero-falso, oltre che a quello certo-incerto, anche a quello funzionale o disfunzionale e obsoleto.
A proposito del concetto di entropia e dell’approccio molare o molecolare, tu mi insegni, che per studiare un sistema termodinamico, molto banalmente una pentola a pressione, è funzionale riferirsi alle grandezze “pressione – volume – temperatura” e non all’energia cinetica delle singole molecole.
Grazie