che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo 'l pasto ha più fame che pria».
Dante, Inferno, v. 99
Nell’ultima settimana piovosa di novembre 2019, tutti i giornali italiani hanno titolato, chi più chi meno, “La Liguria isolata dei viadotti crollati e chiusi”. Il giornalista Antonio Padellaro a “Tagadà” (26/11/2019) il programma televisivo italiano condotto da Tiziana Panella su LA7, ha parlato degli omessi controlli delle strutture autostradali, il classico “tiriamo a campare”. Il vergognoso sport nazionale fino al prossimo incidente, per massimizzare il profitto di chi dovrebbe prendersi cura del bene avuto in concessione dalla Stato Italiano. Tutti hanno convenuto col dire che fortunatamente nell’ultimo crollo, quello savonese, non c’erano stati morti, dunque la cosa in sé, già doveva sollevarci, è stato il non detto mediatico tanto allusivo, quanto ammiccato. E ci mancherebbe!
Chi viene dalla riforma sanitaria del 1978, la storica legge 833 del 1978 che ha fatto seguito alla chiusura dei manicomi, sa bene che i morti che pesano maggiormente sulla coscienza – posto che ve ne sia qualcuna ancora attiva in giro – sono quelli derivanti dalla omessa prevenzione. Ricordate la trilogia? Prevenzione, cura-presa-in-carico, riabilitazione.
Dopo il crollo del “Morandi” a Genova, “custodito”, si fa per dire, dal Gruppo Atlantia dei Benetton, sempre in Liguria è venuto giù anche il Viadotto "Madonna del Monte", sulla Torino-Savona, della “Società Autostrada dei Fiori”, in capo al Gruppo dei Gavio che l’avrebbe dovuta, sempre per modo di dire, “manutenere”. Questo per limitare al minimo e circoscrivere alla sola viabilità da e per Genova, l’elencazione dei dissesti idrogeologici che hanno funestato il “Belpaese” dalla cinta alpina alle isole, in quest’ultimo scorcio di 2019.
D’accordo sulla eccezionalità degli eventi atmosferici, ma se la manutenzione/prevenzione non viene fatta mai, o peggio, vien data per fatta fraudolentemente, con mentitori compiacenti e prezzolati, perchè i casellanti son troppo occupati a staccar biglietti, mentre i padroni ingordi corrono a dividersi i profitti e a curare la azioni di borsa, ecco che allora accadono i quarantatrè morti del Morandi, avvengono i dissesti e la Città della lanterna rimane completamente strangolata. Da Levante, da Ponente e dall’entroterra per/da Tortona e per/da Ovada. Rebus sic stantibus, le notizie sulle puntuali e circostanziate indagini della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Genova circa gli accertamenti delle cause e la caccia ai responsabili, lascia ben sperare sulle future punizioni. Nessuna pena, in ogni caso, può emendare la morte, ma sapere che qualcuno smetterà di contar profitti per contare anni di carcere (ammesso che cessi la vergogna della “prescrizione” per i più potenti) potrà valere da esempio. E nessuno può dubitare che esista alcunché di più pedagogico di una pena esemplare.
Il Brooklyn “de noantri”. Lavori fatti bene, tenuti male, sorvegliati peggio.
Nessuno di noi ha la sapienza di Gilberto Quarneti, (Venezia 1941) il maestro veneziano cha ha insegnato al MIT. Nessuno ha quella di Antonio Maria Michetti (Roma, 1927-2010), superbo discepolo di Pierluigi Nervi, ma ci si può avvicinare in modo da averne un’idea approssimativa ascoltando testimonianze di chi gli ha lavorato vicino per sette anni e per oltre trenta ha insegnato a generazioni di architetti di Roma “La Sapienza” a Valle Giulia. Era un ingegnere che parlava agli studenti col suo bonario intercalare da “mezza cucchiara” erudito e sapiente. «Ma come se faaa!!!», oppure, ragionando sul Pantheon, «Ma com’hanno fattooo??? Io me ce so impazzito pe capììì!!!», o ancora «… a forza de di’, ma perchè stanno tutti appiccicati così? … è diventata scienza, scienza delle costruzioni!». «Matematica e geometria, strumenti operativi… calcoli geometrici … ». Tipico, didattico e incalzante, si diceva, l’intercalare «D’accordo questo qui?», «Giustooo?». «È chiaro il discorso? Ohh!». La tenerezza che sprigionava con quel suo «Una struttura che nasce è come un bambino…». Il personaggio Michetti ha insegnato e affascinato tutti, raccontando come un pinnacolo, un arco, un plinto, anche il più ardito, potesse (e dovesse) stare dritto in piedi se i calcoli delle armature erano fatti bene, i ferri, la malta, l’impasto miscelato a regola d’arte e via dicendo. Se l’architettura è forma, ossia spazio e struttura destinata a coprire lo spazio, non significa che sia come un diamante, ossia… per sempre! Come probabilmente hanno pensato i gestori del “Morandi. A parte che la “gemma” deve essere limpida, cioè non deve avere “inclusioni”, ogni tanto gli va data una ripulita per farla brillare. Un ponte va curato bene, perchè come diceva Michetti, se all’inizio “è un bambino”, col passar degli anni potrebbe divenire un vecchietto malato, dunque pericoloso. Pare che la procura di Genova abbia cominciato a gettare l’occhio anche dentro le gallerie della rete autostradale e forse aperto entrambi gli occhi su tutto quanto il resto.
Le incognite sono molte e le trascuratezze, diciamo così, si annidano dappertutto. Ricordo, una trentina d’anni addietro, che un fidanzatino di mia figlia Giovanna – l’architetto, delle tre – lavorava in una società di subappalto impegnata con le Ferrovie dello Stato. Doveva stendere una lunga fettuccia di calcestruzzo per la posa in opera di binari per l’alta velocità nel Lazio. Auto-strada e strada-ferrata, non dovrebbe fare molta differenza. Ebbene, il giovanotto ci raccontava che i controlli erano frequenti, ma a quelli cui lui aveva assistito, alla prova del “Cono di Abrams” [01] (il secchio colmo di calcestruzzo ribaltato), l’impasto versato dalla betoniera si squaquaraquava in rivoli d’acqua come un budino senza farina. Il controllo si limitava all’osservazione e la cosa finiva lì. Una catena lunghissima di custodi ciechi sordi e muti, che si snodava da subito dopo l’approvazione del progetto fino all’ultimo dei manovali. È possibile che la “catena” di comando fosse senza “maglie”, una lunga collezione di “monadi” di Leibniz. Ma nessuno deve sentirsi giustificato. D’accordo che le ferrovie non sono le autostrade ma è troppo facile per il padrone che incassava la “gabella”, dire che ignorava tutto, perchè gliela facevano dietro le spalle. Ma proprio tutto, ignorava! Come il “pastore delle maraviglie”, or che siamo a Natale e il pensiero corre a San Gregorio Armeno dove stanno le statuine di terracotta del presepio. Nessuno gli crederà, al padrone dei gabellieri. Intanto i giudici hanno accertato tutte le verità, sbugiardando tutti! Si spera che i 43 morti, almeno, abbiano giustizia.
Custodire i custodi. Autostrade per l’Italia, un dono IRI.
Autostrade per l'Italia S.p.A. è una società per azioni italiana, nata originariamente come società di proprietà pubblica facente capo all'IRI, ma privatizzata nel 1999 e poi costituita nella forma attuale nel 2003.
A partire dal Governo Prodi (1996/1998), fu avviata la progressiva concessione a privati della gestione dei 5900, e dispari, km di autostrade italiane (compresi i trafori autostradali internazionali) amministrate dall’ANAS. I beneficiari furono soprattutto con due grandi Gruppi monopolistici, “Atlantia” e “Gavio” fino al 2030 e fischia. Il motivo della privatizzazione era che la spesa di manutenzione risultava troppo onerosa per l’ANAS, cioè per lo Stato. Beata ingenuità di Prodi, D’Alema, Berlusconi e tutti gli altri capi di governo che vennero dopo! Ma davvero pensavano che i Gruppi del pedaggio si sarebbero impegnati a mantenere i controlli che avevano sottoscritto?
Bisognava anche vigilare, dunque, su un bene dello Stato ricevuto in affidamento, affinché funzionasse meglio, perchè lo Stato è un bene di tutti, una res-publica, e si sa che purtroppo, qui da noi in Italia, spesso si è portati erroneamente a pensare, anche furbescamente, che se una cosa è di tutti in fondo non è di nessuno! Eterno, ancorché bellissimo, paese dei Guelfi e dei Ghibellini, dei Palii, delle stracittadine, “giardin de lo ‘mperio” (Dante. Purg, v. 105) in eterna attesa che si avveri la dantesca predizione virgiliana sulla sorte della “lupa”, ossia sulla persistenza della cupidigia “infin che'l veltro / verrà, che la farà morir con doglia” (Dante. Inf, v.102). Appunto perchè privatizzato, personalizzato, ‘sto viadotto Polcevera dell'autostrada A10, chiamato dai genovesi orgogliosamente e affettuosamente “il ponte di Brooklyn italiano”, era da custodire con la massima cura, ma non fu fatto! Tutti gli allarmi restarono inascoltati!
Dunque sulla questione “Autostrade” italiane, il pericolo ponti/viadotti è andato aumentando progressivamente, per oltre 15 anni, compresa l’ingravescente fatiscenza dei guardrail arrugginiti. A Genova, in particolare, il disastro del “Morandi” è stato clamoroso e, allo stato, appare sempre più evidente che si è venuti meno all’impegno assunto. Una cupidigia di gruppi concessionati elevata a sistema criminoso. A catena di sfruttamento. Improprio, ingiusto, colposo fino alla strage. Anzi alle stragi, se si aggiunge quella di Avellino del 2013 dove il bus precipitato da un viadotto della A16 per la mancata tenuta del guardrail corroso, fece 38 vittime.
Viene attribuita al frusinate Decimo Giunio Giovenale (55/60-135/140), poeta satirico di Aquino, la proverbiale frase “quis custodiet custodes?” Satire. VI, 48-49 («chi custodirà i custodi?»). Platone oltre quattro secoli prima, espresse un concetto analogo nella sua opera più importante «sarebbe certo ridicolo che il custode avesse bisogno d’un custode» (Repubblica, III, 13). Sia che volesse usare un tono genericamente leggero, invece di uno più sentenzioso, il filosofo ateniese colpiva nel segno, riguardo alla correttezza e alla moralità di chi ha specificamente compiti di sorveglianza e custodia.
Pedaggio per la morte. Il rincaro annuale è automatico.
Se non ci fossero di mezzo i 43 morti, dirupati nella Valpolcevera dal “Morandi” il 14 agosto 2018, sarebbe, o potrebbe essere, ironicamente istruttivo, citare il Film Non ci resta che piangere, scritto, diretto e interpretato da Roberto Benigni e Massimo Troisi (Italia, 1984, 107 m’). La sequenza, come icona della cupidigia di tutte le Società Autostradali Italiane, avrebbe per titolo “Un fiorino!”. La cifratura simbolica del taglieggio. Entrambi, scena e dialogo, che trascriviamo fedelmente, raggiungono il parossismo convulsivo della ottusità più bieca.
Benigni e Troisi su un carro di mercanzie si apprestano a passare una dogana. Ambientazione medioevale. Si verrà poi a scoprire che il Gabelliere è cieco, ma non muto, nè sordo, scemo non è da escludere.
G – Ehi? … Chi siete?
T – Siamo due che…
G – Cosa fate?… Cosa portate?
T – Niente robaa…
G – Si ma quanti siete?
T – Due! siamo io e lui dietro port…
G – Un fiorino!
T – Si paga?
G – Un fiorino!
Pagano e si avviano superando il posto di gabella. Cade un sacco dal carro.
B – Oh, ferma, ferma… scusi, il sacco doganiere …
T – Scendo io…
B – Lo posson portar loro…
Scende Troisi e si avvia a prendere il sacco.
G – Ehi? … Chi siete?
Troisi si gira interrogativamente verso Benigni e poi risponde
T – Quello ch’ è passato adesso … col carro … c’è caduto il sacco quà …
G – Cosa portate?
T – Niente, quelli di prima, ma siamo passati proprio adesso… stavamo qua e … c’è caduto proprio il sacco…
G – Si, ma quanti siete?
Troisi si gira intedetto verso Benigni e poi gesticolando
T – Uno! Ma … due siamo stati, quando siamo passati … mo’ io vado a prendere il sacco…
G – Un fiorino!
T – c’era caduto il sacco e iooo…
G – Un fiorino
T – Grazie…
Troisi paga, raccoglie il sacco e si avvia verso il carro
G – Ehi? Chi siete?
T – Quelli di prima so’ venuto a prendere il sacco…
G – Cosa portate?
T – Ulive, caciotte pane… un po’ di…
G – Si ma quanti siete?
T – Unooo! Io! … so’ entrato e sto uscendo….
G – Un fiorino!
T – Si, uno entra esce… si paga sempre un fiorino… uno, due, tre… sempre un fiorino, tenete, grazie, arrivederci.
Mentre Troisi riguadagna il carro salendovi Benigni gli fa cenno che c’è a terra un altro oggetto. Troisi lo zittisce e scende furtivamente finché non viene fulminato dall’implacabile urlo del gabelliere.
G – Ehi? … Chi siete?
T – Ma vaff…
Il territorio ligure. La montagna, gli Appennini.
Il mio giudizio è velato da ragioni affettive [02] ma stento a credere che l’antica terra dei Liguri fosse un impasto di fango umido pronto a sbriciolarsi in un’immenso vomito limaccioso, pronto e diretto a guadagnare il mare ad ogni scroscio di pioggia con la velocità della folgore. Sicuramente così ci è diventata. Anzi così l’hanno ridotta gli uomini. Forse i lontani discendenti di quei liguri? C’è da dubitarne! Certo che nella preistoria quei territori erano molto più sicuri, ricchi e attrattivi. Erano pochi quelli che dimoravano a livello del mare, e giusto il tempo per pescare. Era meglio in alto, sulle creste appenniniche, più sicuro l’abitare. Come, fin dalla preistoria, siano giunti ad occupare quell’area che va grosso modo dal Rodano all’Arno, se da occidente, la Spagna, o da nord, scesi dal Centr’Europa, dall’oltre Po, verso sud-ovest, verso il mare, coi Celti, i Boi, non è dato sapere, ma ci stanno lavorando gli archeologi [03]. Dalle poche tracce rinvenute, sappiamo dell'amore che i Liguri preistorici nutrivano per le montagne, dalle quali ricavavano faticosamente da vivere. Montagne che veneravano, adorandone le cime. Sappiamo che preferivano i percorsi di crinale i tragitti in cresta appena sotto la cima, sentieri battuti in costa, con lievi saliscendi, attraversamento di prati di culmine, ombreggiati dagli ultimi boschi di faggi, vie per la transumanza, il sommeggio, il trasporto delle merci, il commercio e quant’altro. Dunque itinerari di comunicazione, ecologici, controllati, vigilati, che allo stesso tempo custodivano la salute boschiva di quelle montagne, ritenute vitali per lo sviluppo e la prosperità delle antiche tribù liguri.
Non amavano “scrivere” o lasciare “incisure rupestri” di loro, nè della loro fierezza, ma codesti Liguri antichi erano parenti stretti dei “Cro-Magnon” (paleolitico superiore). Il rude giudizio del reatino Marco Terenzio Varrone (116-27 a.C.), su quelli che vennero successivamente, fu il seguente: Ligures Montani Piratae, qui Alpium Asperrima colunt. (I Liguri sono predoni dei monti, che abitano i luoghi più inaccessibili delle Alpi). Ci sono reperti protostorici custoditi in musei specializzati [04]. Pare detestassero l’alterigia e la colonizzazione dei Romani, per cui nelle Guerre Puniche si arruolarono sia con Annibale che con Asdrubale. Tutti sanno che i Cartaginesi, nella seconda guerra punica, traversarono le Alpi Cozie (Colle delle Traversette), ma senza i Liguri non avrebbero saputo scendere al momento opportuno e presentarsi in forma alla battaglia sul fiume Trebbia. Come sanno anche, che dettero filo da torcere ai capitolini, aiutati per l’appunto dai Liguri, i quali, però, subirono la stessa sorte finale dei Cartaginesi. Ma poichè non erano scemi, i Liguri, scesero a patti coi Romani. Entrambi ne trassero benefici. Sta di fatto che alla fine di tutta questa storia, si giunse a una specie di “ritiro” entro i confini di cui s’è detto sopra. Da quì fors’anche l’adagio «sun zeneise risu reu parlu pocu ma parlu ceo».
Molti storici, geografi e poeti importanti dell’antichità hanno parlato dei Liguri in termini diversi a seconda che fossero Greci, oppure Romani. Il giudizio dei primi, storicamente precedenti, era indifferente, dunque il più scevro da pregiudizi. Quello dei secondi, invece, in buona sostanza i vincitori della lunga contesa coi Cartaginesi coi quali i Liguri avevano combattuto, non era certo sereno e obiettivo, come normalmente è la storia scritta dai vincitori. Infatti le voci dei Romani ci raccontano di un popolo ribelle, che rifiutò più di ogni altro di piegarsi alla potenza dell'Urbe e sta a noi tradurre la malvagità in spirito indomito, la sedizione in desiderio di libertà. Per maggior chiarimento s’è pensato, in fondo, di pubblicare un’Appendice. Chi, però, fra i lettori di Pol.It. Psychiatry on line Italia, fosse interessato ad approfondire questa vicenda – qui solo appena accennata e anche disordinatamente come avviene quando si rievocano le memorie personali più antiche – può visitare il Museo di archeologia ligure allestito all'interno della villa Durazzo-Pallavicini, direttamente a Genova nel quartiere di Pegli.
Il tratto caratteriale ligure
A parte le dicerie e le origini incerte, i Liguri, a quanto par di capire, furono generalmente ritenuti, malgrado tutto, gente pacifica (se gli si concedeva il diritto di mugugno), curiosa, socievole, ospitale, poliglotta, interessata al commercio più che alla letteratura. A meno chè non si fosse trattato della lingua etnica loro propria, il zeneise, alla quale sono a tutt’oggi molto affezionati dedicandovi numerosi vocabolari e raccolte di modi di dire.
La stranezza e la singolarità dei Liguri – a mio avviso – è quella di essere la personificazione di una radicale contraddizione umana. Infatti sono allo stesso tempo montanari che vanno per mare e marinai di montagna con un insanabile sentimento di nostalgia. Hanno la bussola in testa, guardando il sole e le stelle. Impugnano con pari destrezza l’alpenstock come il timone.
Non c’è dubbio sulla stramberia curiosa, come cantano Bruno Lauzi e Paolo Conte in Genova per noi « Con quella faccia un po' così / quell'espressione un po' così / che abbiamo noi prima di andare a Genova / e ben sicuri mai non siamo / che quel posto dove andiamo / non c'inghiotte e non torniamo piu' / Eppur parenti siamo un po' di quella gente che c'e' lì / che in fondo in fondo è come noi selvatica / ma che paura che ci fa quel mare scuro / che si muove anche di notte / non sta fermo mai …».
Sulle montagne dei Liguri, ha perfettamente ragione il Mario Cappello della celebre canzone, nel passaggio «… Ma se ghe penso allôa mi veddo o mâ / Veddo i mæ monti e a ciassa da Nûnsiâ / Riveddo o Righi e me s'astrenze o chêu / Veddo a lanterna, a cava, lazû o mêu …»
Delle quattro repubbliche marinare – Amalfi, Genova, Pisa e Venezia – le prime due sono quelle che possono rivaleggiare circa la penuria di arenili. Ma non sull’incanto delle scogliere che le incoronano, di cui vanno giustamente famose. Genova, però, non ha praticamente entroterra, sospinta dalle Alpi appenniniche, come s’è detto già. Per dirottare le merci scaricate al porto devi per forza forare le montagne e costruire viadotti. Il Morandi era il più celebre, ma tornerà!
Certe volte mi sorprendo a pensare … ‘sti zeneisi, non erano andati tutti nelle “Americhe di sotto” per insegnare agli Spagnoli come si fanno le cose fatte bene, come si commercia, come si risparmia e si lavora invece di ballare il tango. Come si fabbrica la vera stoffa genovese per fare i calzoni giusti per tutte le occasioni. Da lavorare per terra e per mare, d’estate e d’inverno, da passeggio, da festa, sempre! Insomma quelli blu di tela grossa e forte, indistruttibile, che sono stati venduti in tutto il mondo francese col nome di blue-jeans, bleu de Gênes, ovvero blu di Genova, anche se la mercanzia veniva da Chieri nel Monferrato, un po’ più su, prima di arrivare giù a Caricamento per l’imbarco. Parafrasando il “Fortebraccio” del tempo andato, avvertirei i lorsignori dell’intrallazzo e delle tre carte, di prestare la massima attenzione, perchè stiamo parlando di Liguri, montagne, mare, navi, Genova, roba e gente forte, appunto!
Il dialetto ligure, il zeneise, la lingua.
Sul linguaggio usato dai migranti ci sarebbe molto da dire. Specialmente di quello rioplatense tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento. Per fare un esempio elementare si può dire che, lo spagnolo parlato in Argentina e in Uruguay è molto lontano da quello della lingua originale e tante parole hanno mutato significato o forma semantica, riguardo al vocabolario da cui erano state prelevate. Più o meno la stessa cosa si pò dire dei dei dialetti italiani. Pensate forse che si siano mescolati prima tra loro e poi con le lingue altrue, come inglese, francese, portoghese, gallego, amerindiano, tipo la lingua quechua o il guaraní? No! Niente affatto! L’impasto è avvenuto con le stesse reticenze, sospetti e diffidenze di gruppi stranieri contro stranieri. Non c’erano italiani contro altri non italiani venuti da altri paesi per trovare lavoro o scappare da situazioni peggiori. Ciascuno era per sé, e doveva negoziare convivenze nuove, una ad una, secondo le convenienze: uno contro tutti gli altri. Un risultato poteva essere il lunfardo, un lessico. Tra i linguaggi rioplatensi, oltre al lunfardo (che dovrebbe derivare da lombardo) citiamo il cocoliche, invenzione teatrale di un’attore comico che una sera usò una esilarante interlocuzione estemporanea di due operai genovesi che parlavano con Coccolicchio, un loro connazionale calabrese. Il pidgin è un altro idioma derivante dalla mescolanza di lingue di popolazioni differenti, venute a contatto a seguito di migrazioni, colonizzazioni, relazioni commerciali. Un bel crogiuolo di parlate quello del Rio de la Plata dove prevale uno spagnolo, argentino e uruguagio, profanato, fecondato e imbastardito da altre lingue europee e dialetti italiani come il genovese, il piemontese o il napoletano, tipici del luogo
Appendice
Compendio breve di storia dei Liguri in forma di epitome.
Esiodo (VIII-VII a.C.), il mitico poeta epico greco antico di Ascra, il geografo e storico Ecateo di Mileto (550-476 a.C.) ed Eschilo (525-456 a.C.) il celeberrimo drammaturgo di Eleusi, sono i primi autori greci che danno notizia dei Liguri antichi come dei “primi abitanti dell'Italia”, e della stessa Liguria. Più o meno quella di oggigiorno, se si fa eccezione per Ecateo che pensa possano essere al massimo Provenzali, spostando di poco la provenienza.
Il giudizio di Marco Porcio Catone Maior detto il Censore (234-149 a.C.), castellano di Tuscolo, morto ottantacinquenne, invece, è livoroso. Conobbe i Liguri alla battaglia della Trebbia (218 a.C.), vicino Pesaro-Urbino. Erano “nemici”, per lui, arruolati con Asdrubale Barca, fratello di Annibale. Li declassò indistintamente a livello di “mercenari celtici”, però quella battaglia coi Cartaginesi, la perse. Disse stizzosamente che neppure i Liguri sapevano da dove provenissero, per quanto a tutt’oggi resti un mistero ancora parzialmente insoluto per storici e archeologi, così come le loro migrazioni preistoriche. Comunque Catone, non ne aveva una grande considerazione, definendoli “bande di rozzi montanari”. Ma si può capire come al celebre tribuno militare dell’altrettanto famoso “tormentone” «Cartago delenda…», quella sconfitta fosse andata di traverso.
Concordano nel definire i Liguri come il popolo che più creò problemi agli eserciti romani, Strabone (60-22/24 a.C.), Plutarco (46/48-125/127), Diodoro Siculo (90+30 a.C.) e l’epitomatore latino nato in Africa Lucio Anneo Floro (70/75+130). Il mantovano Virgilio (70-19 a.C.) e il padovano Tito Livio (59 a.C.-17 d.C.) ci tramandano i Liguri come genti rozze, incuranti dell'arte, della cultura e della loro stessa storia, sebbene il secondo menzioni il dato che un tempo dominavano l'intera valle del Po. Ma si sa che il loro endorsement verso Roma era senza pari.
È comprensibile che la narrazione storica dei romani verso l’antica stirpe dei Liguri – ripetutamente accusati di doppiezza infida, malvagia e sediziosa – ci tramandi negativamente le gesta di un popolo indomito, amante di libertà e dunque ribelle, che rifiutò di piegarsi alla potenza dei Quiriti. Scilace di Carianda (VI-V sec a.C.), il comasco Plinio il vecchio (23-79 d.C) e Festo Avieno (301-400 circa) li dissero iberici, mentre Plutarco (46/48-125/127) – l’autore di Vite parallele – li classificò come Celti. Dionigi d'Alicarnasso (60-7 a.C.) ricorda che si favoleggiava dei Liguri identificandoli coi mitici Aborigeni, finitimi degli Umbri, senza alcun fondamento tranne che la prossimità.
Per la tesi che vuole i protoliguri come tribù “protoarie” (protolingua dei popoli indoiraniani), cioè giunte in Europa dall’Asia con le immigrazioni primitive, Ernesto Curotto cita il Muellehof. Allo stato, restano ignoti i territori che attraversarono, i vari flussi migratori scesi dall’Est-Europa, ma si può congetturare che, nel corso dei secoli, i primi appresso ai successivi, siano saliti verso il Nord Europa, per poi piegare a Sud/Ovest, incalzati da nuove popolazioni. La letteratura antica non è chiara, ancorchè copiosa. Pochi sono gli storici coevi delle vicende narrate, dunque spesso c’imbattiamo in citazioni di autori precedenti. Strabone, per esempio, cita Eratostene che lo precedette. Tucidide cita indirettamente i Liguri – che poi erano i Sicani cacciati dalla costa spagnola dai Liguri, finchè giunsero in Sicilia (Sikania anticamente, prima di Trinakria) – addirittura alle guerre del Peloponneso. Diodoro Siculo, li descrive come nemici assai temibili, pur non essendo particolarmente imponenti dal punto di vista fisico. La forza, la volontà e la tenacia, faceva di loro dei guerrieri più pericolosi dei Galli. A riprova di ciò, sosteneva come i guerrieri liguri fossero molto ambiti in qualità di mercenari. Più volte le potenze mediterranee andarono in Liguria a reclutare eserciti per le loro spedizioni: le truppe d'élite di Annibale erano costituite da un contingente di Liguri.
Era più semplice per gli storici antichi, rifarsi alla espansione territoriale delle diverse “tribù liguri”, tuttavia, così facendo, si confondevano le terre di partenza da quelle di approdo, alla fine di una lunga migrazione. La tesi prevalente è che i Liguri si fossero mossi (occupando o lasciando territori) nell’arco tirrenico occidentale fra il tratto iniziale delle Alpi (a cavallo fra Piemonte, Liguria e Francia), la pianura padana e il centritalia. S’è già detto che Eratostene di Cirene (276 circa-194 circa a.C), il matematico greco/libico che misurò il raggio della terra, sulla base del loro idioma, che annovera fra le lingue paleoispaniche, o preromane, individua i Liguri come provenienti dalla penisola iberica, mentre lo stagirita Aristotele (384/383-322 a.C) li colloca in Provenza, la regione francese delle Bocche del Rodano ( Bouches-du-Rhône), come peraltro Ecateo, prima di lui, di cui pure s’è detto sopra.
Polibio (206-118 a.C.) uno storico antico della periferia del Peloponneso sostiene che i Liguri, contrastati ad Est dagli Etruschi e a Nord dai Celti avevano dovuto abbandonare molta parte dei loro territori. In pratica si erano dovuti accontentare (si fa per dire, perchè la zona è vastissima) del tratto di costa che va dal Rodano all’Arno, con annesso il relativo entroterra alpino ed appenninico, nonchè il meridione della pianura del Piemonte.
Si vuole che intorno al monte Ebro (1.700 m.), nel gruppo del Monte Antola (province di Piacenza, Pavia e Genova) tra le dorsali montuose che affacciano sulle valli Borbera, Trebbia, Curone, Staffora e lungo il corso del Tanaro, tra il Monferrato e le Langhe, in epoca preistorica, vivessero i Liguri Euburiati, i quali avrebbero edificato il cosiddetto Castello di Burio (in realtà l’equivalente di un “baglio” del latifondo siculo per la difesa delle derrate dalle incursione dei predoni) e le ben più importanti prime mura di quello che attualmente è il castello di Costigliole, dimora della celeberrima contessa di Castiglione. Le notizie ci pervengono da Tito Livio e da Marco Giuniano Giustino (tra II e III secolo d.C.), storico romano dell'epoca degli Antonini.
Ricerche recenti, rivisitando e confrontando reperti protostorici antichi e nuovi, ci informano che tribù Liguri di stirpe proto-celtica stanziate ad Albenga, siano risalite dalla foce del fiume Tanaro alla volta del Piemonte. Si dice che la fondazione di Alba, il paese delle Lange a bassa quota, e Casale Monferrato, creato dalle tribù degli Stazielli, degli Insubri e dei Libui, abbiano analoga origine. Come pure Pieve d’Albignola in bassa Lomellina, affacciata alla valle alluvionale del Po e Garlasco in Lomellina centro-orientale, dal ciglio del terrazzo su quella del Ticino, sarebbero parimenti di origini liguri. Successivamente, tra il 2000 e il 1000 a.C., importanti migrazioni culturali indoeuropee provenienti dalla Francia, avrebbero determinato una prevalenza etnica in quella zona che sarebbe stata chiamata la “Piccola Occitania Italiana”. Erano i Celti, per l’appunto, anch’essi di cultura Indoeuropea. Si muovevano dalla Francia nord orientale e dal nord Europa, alla ricerca di terreni più riccchi e temperati. Infine i Romani prevalsero su tutti.
Non si esagera se si pensa che la centralità dei Liguri per Annibale e Asdrubale durante tutte le guerre puniche sia stata strategica e fondamentale. I Liguri furono di grande aiuto ai Cartaginesi. Facevano loro da guide alpine, da scolte, li aiutarono a passare dai sentieri giusti a valicare i passi più accessibili. Anche in battaglia li aiutarono in modo concreto. Valga per tutti l’esempio della battaglia della Trebbia. Estinta la potenza nordafricana, i Liguri presero coscienza della nuova realtà politica e scesero a patti coi Romani. Divennero loro alleati e concessero anche combattenti mercenari, ove fosse stato richiesto e verificata la coincidenza d’interessi. I Liguri fecero di più e meglio che coi cartaginesi, essendo cessato l’antico spirito vendicativo. Malgrado qualche sporadica sedizione, i Liguri entrarono stabilmente nell'orbita dell'Urbe. Combatterono valorosamente e lealmente per Roma nella guerra contro Giugurta ed in quella contro i Cimbri e i Teutoni. I Romani, in compenso confezionarono per loro una rete viaria eccezionale come solo i Quiriti sapevano fare per andare in tutto il mondo conosciuto. Basti qui ricordare che la via Giulia Augusta, è la continuazione della via Aurelia, che l'imperatore Augusto fece costruire tra Piacenza (Placentia) e Arles (Arelate), sul fiume Rodano, tra il 13 e il 12 a.C.
Note
01. La prova che viene eseguita, sia in cantiere che in laboratorio, utilizzando il “cono di Abrams” prende il nome di slump test o prova di abbassamento al cono, ed è una valutazione della deformazione che un impasto subisce per effetto del proprio peso, quando viene privato del recipiente che lo sostiene.
02. Mia moglie e tutti i suoi, venivano dalla “Lanterna”. Lei parlava un italiano perfetto aveva studiato dizone e recitazione, ma se la cavava benissimo anche col zeneise, come Ada, la sorella più grande. Mia suocera Alba (‘a scià Griffi) usava un dialetto nobiliare infarcito di francesismi. Mio suocero, trilaureato, Vittorio (‘u sciù Vittoriù) sapeva esprimersi con quello dei camalli di caricamento. Entrambi, tra loro, usavano il zeneise nelle due varinati culta e plebea, ma con le figlie si esprimevano rigorosamente in italiano. Poichè erano nate a Roma, a loro giudizio non potevano sentire quel richiamo nostalgico del se ghe pensu. Invece … niente è più desiderato dell’interdetto, col risultato che tutta la nostra discendenza non si è mai addormentata con catilenie e nenie che non fossero del classico repertorio genovese, tipo: Ghega ghegagna / Martin u l’è andetu in Spagna. / Spagna spagneua / Martin u le andetu a scoea. / A scoea nun ghe ve andou / ou cacemmu giù da u mou.
03. Le origini dei Liguri sono controverse e tuttora oggetto di studio. Ci sono almeno due scuole di pensiero: una invasionista e una autoctona continuista. Da un lato c’è chi vuole gli antichi Liguri un gruppo di popoli inizialmente pre-indoeuropei, provenienti dalla Penisola iberica e diffusosi in epoca Preistorica in Linguadoca e nell'Italia Nord-occidentale. Dall’altro vi è chi pensa che i Liguri siano un antico popolo stanziale indoeuropeo diffusosi in tutta l’area tirrenica fin dal II millennio a.C. Successivamente, nel periodo Neolitico, ci furono contatti con altri popoli immigrati per cui avvenne una mescolanza etnica che comportò importanti mutazioni genetiche e aperture culturali. Non tutti gli studiosi, però, concordano. Chi teorizza una pacifica fusione di popoli, chi un ritiro volontario entro confini propriamente liguri, dal Magra al Varo, lambendo il Po. Chi infine pensa ad una guerra feroce con relativa pulizia etnica e … Liguri nuovi di zecca. Nondimeno, c’è ancora chi ritiene che la loro estizione, come antico popolo ligure, sia avvenuta per la loro indole “pacifica”. Questo non contraddice il fatto che in antico, come attività collaterale alla marineria, anche i Liguri esercitassero la pirateria con estrema perizia. Non deve stupire dunque più di tanto che alla sola vista della bandiera con la “Croce di San Giorgio” in campo bianco (si dice, poi, venduta ai legni di Sua Maestà Brtitannica), i malintenzionati se la svignassero velocemente. Se, e quando, lo ritenevano opportuno, assalivano e depredavano le navi in navigazione lungo la costa. Nessuna meraviglia: il primo essere umano comparso sulla terra aveva conobbe presto che il modo più veloce per ottenere beni è rubarli. Del resto le continue scorrerie delle tribù liguri nei territori dei popoli vicini è ben documentato, e costituisce una voce importante nella loro economia.
04. L'"ascia delle rocche del Reopasso", è un reperto protostorico (4000-3500 a.C.) rinvenuto in un insediamento in Valle Scrivia. In val Trebbia, ve ne sono altri nei pressi del Monte Groppo a testimoniare la presenza dell'uomo neolitico (5000-2800 a.C.). Asce e accette in serpentino verde grigio e verde scuro del neolitico, scavate nella zona di Bobbio, sono conservate al museo archeologico di Genova-Pegli.
Appunto bibliografico
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Maria Rita Zibellini e Roberto Rossi. I Liguri nelle fonti romane. “Dove comincia l’Appennino”. Note culturali e naturalistiche sul territorio delle Quattro Province. “Sull'Appennino dalla Preistoria al Duemila” – Il Passato. < redazione@appennino4p.it <redazione@appennino4p.it>
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