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Elogio dell’equipe territoriale

16 Mar 14

A cura di dinange


In ambito socio-sanitario al concetto di “territorio” non corrisponde una entità geografica, ma un insieme di servizi sanitari, educativi e sociali che prima dell’avvento del welfare o non c’erano, oppure rispondevano a logiche che poi i “servizi territoriali” misero in crisi.
E’ noto che in Italia il welfare nacque intorno al ’68. Meno noto è il fatto che immediatamente il welfare italiano si biforcò: definendosi da una parte (nelle regioni bianche) come welfare dei sussidi; e dall’altra (specialmente nelle regioni rosse) come welfare dei servizi. Cioè da una parte con la distribuzione a pioggia di provvidenze individuali; dall’altra con la creazione di servizi che, al contrario dei sussidi, rimanevano sul territorio, lo punteggiavano di servizi d’igiene mentale, di nidi e di scuole per l’infanzia, etc.; e perciò sedimentavano nel tempo una vera e propria “cultura dei servizi”, i cui depositari erano gli operatori di questo secondo tipo di welfare.
Ebbene all’interno di questo secondo tipo di welfare uno degli elementi di fondo, che ritroviamo in varie forme e sotto vari nomi un po’ dappertutto in quegli anni era il lavoro di equipe che vedeva gli operatori territoriali disporsi in luoghi “parzialmente orizzontali”, cioè in luoghi che – anche negli anni iniziali in cui si predicava "l'interscambio dei ruoli", e molto più ponderatamente dopo, nel momento della maturità – coniugavano il dato della orizzontalità, e cioè della discussione e della programmazione fra pari, con quello della verticalità, che rimandava alla necessità che dopo la discussione si passasse ad una decisione: che all'analisi seguisse una sintesi; che la riflessività si coniugasse con l'operatività.
In questo modo era possibile far crescere una nuova generazione di operatori più riflessivi e critici di quelli che lavoravano nelle istituzioni totali, che operavano in base ad un modello gerarchico, funzionale al mantenimento della disciplina (nell'ospedale psichiatrico, così come in ogni altra istituzione totale).
 
Mi è venuto di ripensare a questo tipo di organizzazione nelle settimane scorse, allorché mi è capitato di supervisionare situazioni problematiche, segnalate da psicologhe operanti nella scuole dell’obbligo, dalle quali emergeva – con una “monotonia” almeno ai miei occhi sconcertante – il dato di uno scollamento crescente fra istituzioni scolastiche, sociali e sanitarie. E, all’interno di ogni istituzione, fra singoli professionisti, che ai miei occhi sono apparsi solo come portatori di istanze “specialistiche”, fra l’altro erogate con avarizia, solo nella propria sede, e quasi sempre dopo aver sottoposto i cittadini ed i colleghi delle altre istituzioni coinvolte a esasperanti, e spesso costosi “giri” burocratici. In cui almeno all’apparenza si passa dal pubblico al privato convenzionato in base a criteri che, più che ad esigenze di tipo programmatorio, sembrano dettati dalla sorte “cinica e bara”.
Tutto ciò risulta deleterio in età evolutiva: dove uno stretto rapporto fra sociale, formativo e sanitario è decisivo sul piano dell’efficacia del lavoro di tutti. Faccio un esempio: una equipe territoriale era in stretto rapporto con nidi, scuole per l’infanzia e scuole dell’obbligo del territorio in cui operava. Ciò faceva si che in ognuno di questi servizi – essi stessi operanti secondo una logica “territoriale” – gli operatori sapessero bene quale era lo psicologo o il NPI cui potersi rivolgere. Idem accadeva per i cittadini che, oltretutto, sapevano che quegli operatori e quei servizi potevano facilmente essere raggiunti. E – cosa ugualmente importante – ciò faceva si che anche lo psicologo e il NPI finissero col conoscere ogni operatore degli altri comparti del welfare di quel territorio. Si definivano spesso luoghi comuni d’incontro, di discussione e, quando ciò aveva senso, perfino di formazione.
Certo, il rischio era quello del “controllo sociale”: cioè che l’insieme di queste istituzioni territoriali – o qualcuna di esse – assumesse un atteggiamento occhiuto e pedagogico nei confronti di taluni gruppi sociali (a Reggio Emilia uno di questi gruppi era quello dei nomadi) o dei singoli cittadini. Ma oggi il rischio, se non la certezza, è quello di uno scollamento, di una mancata conoscenza reciproca fra operatori, di un chiudersi da parte di molti in uno “specialismo” che vorrebbe essere capace di avere una visione precisissima dei problemi, ma che in effetti, rinunciando ad una visione d’insieme, ed in base ad una sorta di voyeurismo dell’esattezza[1], perde letteralmente i connotati del problema, e lo trasforma in un enigma indecifrabile che rimanda sempre ad ulteriori approfondimenti, ad ulteriori visite specialistiche, ad ulteriori fermate lungo l’infinita via crucis della "diagnostica".
E non è vero che quel lavoro delle origini escludesse a priori l’esigenza di approfondimenti specialistici: anzi! ogni operatore (e non solo gli "apicali"), a fianco al lavoro territoriale di base, svolgeva – almeno nel momento della maturità delle equipe territoriali – anche un lavoro specialistico, e dedicava una parte del suo tempo alla formazione ed al lavoro d’equipe. Solo che il lavoro specialistico era definito in base ad un criterio di complementarietà; e la formazione in base alle priorità imposte dall’analisi attuale delle esigenze del territorio.
In base al mio ricordo – almeno qui a Reggio Emilia – le equipe territoriali furono chiuse a partire da esigenze  che i primi Direttori Generali definivano “di risparmio”; ma che in effetti da una parte erano esigenze di avere a disposizione operatori flessibili, da spostare di qua o di là in base ad esigenze manageriali, più che di cura. Dall’altra quella di potere più facilmente spacchettare il welfare locale per affidarne quote crescenti al privato sociale, che costa meno non solo perché paga meno i propri operatori, per lo più precari; ma anche perché non li forma, e tantomeno sembra disposto a concedere loro il tempo e il denaro occorrente per riflettere in equipe sui casi e sui problemi attuali del territorio.

 



[1] la bella immagine non è mia, ma di Baudrillard. Cfr: Baudrillard J.: La società dei consumi, Il Mulino, Bologna, 1976

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