di Davide Mate, ph.d.
Affiliazione: Università degli Studi di Torino
Abstract
La connessione mente-corpo è sempre più una materia di studio interdisciplinare. Fino a non molti anni fa la riabilitazione del corpo seguiva percorsi differenti rispetto al recupero psicologico. Studi recenti dimostrano invece come mente e corpo siano in costante interscambio, l’evento traumatico fisico ha delle ricadute psicologiche importanti e viceversa. Pertanto in ambito sportivo si sta iniziando ad introdurre delle tecniche psicologiche anche per la rielaborazione del trauma fisico. L’E.M.D.R., si presta ad affrontare i vissuti emotivi legati all’infortunio in ambito sportivo, consentendo un recupero più rapido ed una diminuzione dei rischi di nuovi infortuni.
Nell’ambito della psicologia dello sport, l'infortunio è un argomento sempre più importante, sia per quanto riguarda la ricerca, sia per il lavoro applicato. Gli atleti si infortunano sovente e sono chiamati a gestire il logorio continuo del proprio corpo: in molti casi la riabilitazione non é solo fisica, ma anche psicologica (Brewer, 2010). Studi precedenti (Podlog e Eklund, 2006) hanno dimostrato come sia frequente che gli atleti che ritornano alle competizioni immediatamente dopo la riabilitazione fisica, non siano ancora pronti dal punto di vista psicologico, per esempio perché vittime di specifiche paure connesse all’infortunio subito (es. paura di un ulteriore infortunio, di non essere in grado di tornare al livello atletico precedente, etc.).
L’effetto controproducente dal punto di vista prettamente sportivo è che il residuo di paure psicologiche ha un impatto sul corpo che per protezione va in tensione; questo processo muta lo stato corporeo complessivo rendendo meno agevoli movimenti che prima dell’infortunio venivano eseguiti con dimestichezza. Tale tensione non riguarda solo movimenti estremi (come quelli che possono aver comportato l’infortunio) ma anche movimenti minimi – per fare un esempio, uno sciatore dopo un infortunio su un salto in discesa libera potrebbe portare delle tensioni successive alla riabilitazione fisica che rendono difficili anche alcune semplici operazioni, come impostare una semplice curva durante una discesa di allenamento. Il trauma psicologico ha quindi questa caratteristica di andare ad interessare potenzialmente l’interno organismo compromettendo la prestazione a vari livelli, anche lontani dall’evento che ha provocato l’infortunio.
Alcuni studi (Podlog e Eklund, 2006; Udry, Gould, Bridges e Beck, 1997; Wippert e Wippert, 2008) che riportano le reazioni di atleti dopo infortuni gravi (es. infortuni di fine stagione o che interrompono la carriera) hanno evidenziato come queste esperienze traumatiche condividano molti aspetti con quelle vissute da persone che soffrono di disturbo da stress post-traumatico (PTSD), come ansia, depressione e lutto, oltre a sentimenti di paura e impotenza, flashback, incubi notturni, disturbi psicologici e fisiologici che si manifestano in presenza di stimoli specifici (Appaneal, Levine, Perna e Roh, 2009; Brewer e Petrie, 1995; Evans e Hardy, 1995; Wiese-Bjornstal, Smith, Shaffer e Morrey, 1998). Il PTSD è una patologia traumatica che, secondo il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders IV-TR (APA, 2000; pp. 467-468), si basa sui seguenti criteri:
Il PTSD è un disordine basato sull’ansia, che può svilupparsi in seguito ad un evento definito da due criteri specifici. Primo, l'individuo vive o è testimone di un evento nel quale è presente una minaccia di morte o la morte stessa, un infortunio grave, o una minaccia all'integrità fisica propria o di altri (criterio A1). Secondo, durante l’evento l'individuo prova paura intensa, sentimenti di impotenza e di orrore (criterio A2).
Dopo l'evento traumatico, l'esperienza tipicamente esita in sintomi come flashback, incubi, disagio psicologico intenso, e reattività fisiologica o esposizione a fattori scatenanti interni o esterni che simboleggiano qualche aspetto dell'evento (criterio B). Inoltre, l'esperienza traumatica spesso porta ad una reazione di indifferenza e di evitamento degli stimoli, che sono collegati in qualche modo al trauma (criterio C) e sintomi di aumentato arousal, che includono irritabilità, iper-vigilanza, e difficoltà ad addormentarsi e a concentrarsi (criterio D). Solo pochi studi hanno focalizzato l'attenzione sul tipo di trattamento che può essere usato per lavorare con atleti che soffrono di PTSD o che vivono difficoltà psicologiche ascrivibili a tale disturbo (Bauman e Carr, 1998; Shearer, Mellalieu e Shearer, 2011).
Questa corrispondenza è dovuta al fatto che il trauma puramente psicologico (come potrebbe essere assistere ad un evento drammatico), così come il trauma fisico diretto condividono delle reazioni interne a livello neurofisiologico. L’amigdala, che è il centro della paura, e il tronco encefalico che coordina gli stati più profondi del sistema nervoso autonomo vengono, in entrambi i casi, coinvolti nella rea azione all’evento. Questo ha un impatto profondo sulle strutture fisiche soprattutto per ciò che riguarda la coordinazione motoria, lo stato posturale, e la regolazione viscerale. La teoria poligale di Porges illustra bene come attivazioni del nervo vago nella sua porzione dorsale sono esito di stati di iperattivazione allarmante con vissuti di terrore. Il corpo passa da stati di freezing ad una disattivazione delle difese attive. Questo può perdurare anche successivamente all’evento traumatico a meno che non venga sciolto e rielaborato a livello profondo.
Lo studio condotto da Bauman e Carr (1998) riporta il caso di un giocatore di football universitario vittima di un incidente molto grave, avvenuto al di fuori della pratica sportiva, che comportò l’amputazione della mano sinistra. Per fare in modo che l'atleta potesse continuare a giocare a football ancora per un anno prima della fine del college, il primo obiettivo del trattamento psicologico fu quello di diminuire rapidamente i sintomi del PTSD. Seguendo il desiderio dell'atleta di non utilizzare medicinali psicotropi e ben consapevole dei tempi ridotti, lo psicologo dello sport propose all’atleta l’utilizzo di una procedura all'avanguardia per quei tempi: la Desensibilizzazione e Rielaborazione attraverso i Movimenti Oculari (Eye Movement Desensitisation and Reprocessing, EMDR; Shapiro, 1989, 2001). Alla fine delle sessioni di lavoro furono registrati miglioramenti riguardanti vari sintomi: incremento della concentrazione e del livello di energia, assenza di pensieri intrusivi e di incubi, ritorno alla situazione normale di riposo, incremento dell'appetito, miglioramento del coinvolgimento sociale e affettivo. Questo studio, tra le altre cose, rappresenta un buon esempio della coordinazione possibile fra trattamenti condotti da diversi operatori socio-sanitari (Bauman e Carr, 1998).
Più di recente, Shearer e colleghi (2011) hanno descritto il lavoro svolto con un atleta di tiro a volo che presentava sintomi di PTSD a seguito di una caduta dalla bicicletta. Due interventi paralleli sono stati utilizzati: un primo intervento clinico e neuropsicologico, basato su terapie cognitivo-comportamentali focalizzate sul trauma; un secondo intervento di psicologia dello sport. Lo psicologo dello sport, utilizzando differenti strategie cognitivo-comportamentali, come goal setting e simulazione di allenamenti, è intervenuto sulla fase riabilitazione e di ritorno alle competizioni, oltre che su specifici aspetti come concentrazione, rischio di burnout e di sovrallenamento. Questo studio (Shearer et al., 2011) enfatizza l'importanza di prendere in considerazione specifiche implicazioni quando si lavora con atleti che soffrono di PTSD o di altri disturbi clinici. La letteratura di psicologia dello sport sugli infortuni suggerisce come alcuni atleti infortunati possano sperimentare sintomi tipici del disturbo da stress post-traumatico; pertanto, questi atleti potrebbero beneficiare di interventi che sono stati sviluppati specificamente per curare questo disturbo. Il metodo EMDR (Shapiro, 1989; 2001), presente anche nello studio di Bauman e Carr (1998), rappresenta un intervento particolarmente interessante quando ci si confronta con situazioni di questo tipo.
Il metodo EMDR è un trattamento psicologico costruito in origine per il trattamento di pazienti che soffrivano di PTSD (es. veterani di guerra, vittime di rapimento, adulti o bambini abusati, vittime di disastri naturali, etc.), e solo in seguito è stato applicato in diversi ambiti come quello sportivo, soprattutto per gestire disturbi dell'ansia (Cahill, Carrigan e Frueh, 1999).
La procedura del metodo EMDR è suddivisa in otto fasi, usate in contesto terapeutico per trattare i sintomi di ansia e stress post-traumatico (Cahill et al., 1999; Luber, 2001). La procedura richiede che il paziente si focalizzi su uno stimolo di attenzione bilaterale (ad esempio, movimento oculare laterale seguendo un dito del terapeuta o un puntino luminoso; contatto alternato sui palmi delle mani o un suono direzionato prima ad un orecchio e poi all'altro), mentre gli viene chiesto di richiamare memorie rilevanti legate all’evento traumatico per brevi set di lavoro della durata di circa 20-30 secondi l’uno (Maxfield, 2007). Dopo ogni set, sensazioni, emozioni e pensieri del paziente vengono discussi con il terapeuta ed ulteriori associazioni vengono analizzate al termine del set successivo (Cahill et al., 1999; Maxfield, 2007). Di norma, con il progredire delle stimolazioni le associazioni diventano positive e, di conseguenza, lo stress del paziente viene alleviato. Per monitorare questo processo, il terapeuta può utilizzare una scala per valutare la gravità del disturbo (Subjective Units of Disturbance Scale, SUDS; Wolpe, 1990): si tratta di una scala di tipo Likert a 10 punti per misurare il grado di ansia. Shapiro ha incorporato questa scala, già largamente utilizzate nella terapia comportamentale (Kim, Bae e Park, 2008), per misurare i livelli di ansia prima e dopo la rielaborazione del ricordo rilevante. I punteggi vengono rilevati dal terapeuta con l’uso della SUDS inizialmente, per poi essere rilevati di nuovo alla fine del processo di desensibilizzazione, per valutare i cambiamenti fra prima e dopo e monitorare il progresso del trattamento (Kim et al., 2008). Le credenze positive ottenute con la desensibilizzazione sono poi nuovamente misurate, per ciò che riguarda la loro forza, con una seconda scala che misura la validità del pensiero (Validity of Cognition, VOC). La VOC è una scala di tipo Likert a 7 punti, che valuta come la persona si sente rispetto alla veridicità delle associazioni positive, con valori che vanno da 1 = “totalmente falso” a 7 = “totalmente vero” (Shapiro, 2001).
Complessivamente, il metodo EMDR tende a ridurre le sofferenze causate dall'evento traumatico e aiuta il paziente a considerarlo da una nuova prospettiva, integrata e meno disturbante (Luber, 2001; Maxfield, 2007): la finalità del metodo è quello di passare da cognizioni totalmente negative e disturbanti legate all’evento traumatico (“io sono impotente”), a cognizioni più positive (“io posso gestire la situazione”).
Dopo che l'EMDR ha avuto successo nel trattamento del PTSD, alcuni ricercatori hanno applicato questo metodo a diversi ambiti, lavorando con gruppi e famiglie, ex-stupratori, ma anche artisti e atleti (Ricci et al., 2009). Nel campo della psicologia dello sport, in particolare, si sono sviluppate due principali aree di ricerca: la prima è focalizzata sull'uso dell'EMDR per aiutare gli atleti a controllare l'ansia da prestazione (Foster, 2012; Foster e Lendl, 1995; Graham e Robinson, 2007); la seconda concerne l'utilizzo del metodo EMDR con atleti che hanno subito un trauma (ad esempio, atleti più volte infortunati, esperienze di carriere sportive terminate all'improvviso, morte di un compagno di squadra) (Allen, 2002; Bauman e Carr, 1998; Oglesby, 1995; Shearer et al., 2011).
Fino ad oggi, gli studi che riguardano i traumi sportivi trattati con il metodo EMDR presentano due fondamentali problematiche: la prima è che la maggior parte delle ricerche non sono pubblicate e sono riportate semplicemente negli atti di conferenze (Allen, 2002; Oglesby, 1995); la seconda è che i pochi studi pubblicati su riviste scientifiche, pur coinvolgendo atleti, non si riferivano però a traumi dovuti all’attività sportiva (Bauman e Carr, 1998; Shearer et al., 2011).
Bigliografia
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