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Equilibrismi e ricadute

20 Nov 20

A cura di Dolores Celona

Se cadi ti rialzo.
Oppure mi sdraio accanto a te.
(Julio Cortazar)

Nella caduta ci sono già i germogli della risalita, fragili ma verdi.
Vanno coltivati con premura.
(Carl Gustav Jung)

 

Qualche giorno fa sono caduta tra dormitorio e camper dell’unità mobile. Avevo appena terminato un briefing ed ero con altri colleghi ed utenti. Non è stato piacevole ma per fortuna mi sono sbucciata solo un ginocchio. La mia reazione è stata quella di ridere tanto, in effetti era una situazione decisamente comica… 

“E’ caduta la dottoressa!” ho sentito dire. I colleghi mi volevano prestare soccorso, con disinfettante e quant’altro. Che figuraccia epocale!

È sempre interessante notare quanto e in che modo gli altri si prendano cura di noi nel momento in cui si cade. La reazione dell’altro ti porta a modulare la tua di riflesso. 

Come quando un bimbo cade e guarda l’espressione del genitore per capire se piangere o meno. Se il genitore stempera, spesso alla faccia perplessa segue un sorriso e il ritorno a giocare come prima.

Quando cadi il tuo equilibrio viene a mancare. La tua mente prende coscienza del fatto che il proprio equilibrio è precario e che, se non sei abbastanza attento, inevitabilmente potresti finire a terra. Pensi allora che devi calibrare i passi, fare attenzione alle buche, al terreno sconnesso, alle grate che ci sono a terra, a qualche pozzanghera qua e là.

La scoperta della propria instabilità è sempre traumatica. Ed è in quel momento, quando prendi atto della tua vulnerabilità, che senti il bisogno di aggrapparti a qualcosa o qualcuno che ti è vicino. 

Innanzitutto cercare un appiglio che ti consenta di farti il minor male possibile. In secondo luogo, ma non meno importante, vedere l’effetto che attorno a te provoca la tua caduta in quanto cambiamento. 

Dalla posizione di stabilità a quella di instabilità cambia la prospettiva, dal basso fai attenzione a cose diverse. Con una mano esplori la buca in cui sei sprofondato, con l’altra ti aggrappi a chi, attorno a te, è venuto a soccorrerti.

I tuoi occhi passano rapidamente dal guardare il fondo della strada allo sguardo del tuo soccorritore. 

Noblesse oblige vuole che quanto meno si ringrazi la persona che ti ha dato una mano a rialzarti. E, se dovessi anche zoppicare un po’, questa persona dovrebbe anche aiutarti a camminare per un po’, a sostenerti fino a che non arrivi ad una sedia o una panchina che ti ridoni la tua condizione di stabilità. Poi c’è da vedere se hai avuto danni, e in tal caso chi si occupa di te provvederà anche ad aiutarti nella medicazione, o quanto meno ad offrirsi per farlo.

Non a tutti fa piacere dopo essere caduti ricevere un aiuto a rialzarsi. La frustrazione di avere una debolezza non è facile da tollerare.

Allo stesso modo non ti è sempre facile riuscire a confrontarti con l’altro quando cadi. Men che meno quando ricadi.

Quando ricadi avverti una sconfitta già conosciuta, il sapore amaro di essere già passato da quel momento in cui senti di non essere in grado di garantirti la stabilità da solo.

Hai paura che chi ti è vicino questa volta non sia disponibile come prima a sorreggerti, di non riuscire da solo a rialzarti, hai paura di esserti fatto troppo male questa volta e che non riuscirai a tornare ad essere quello di prima.

Hai paura di essere diventato una versione di te che sa solo cadere e che non è capace di essere migliore. Ti ossessiona l’idea del fallimento, ti toglie il fiato l’idea che allora di te non resterà altro che l’idea di quello che è a terra.

La prospettiva dal basso diventa terrificante, ma non sai come fare a rialzarti. 

Non vuoi che le persone che fino ad ora ti hanno aiutato vedano che sei caduto di nuovo, non sei sicuro di che reazione potrebbero avere. Hai paura che decidano di lasciarti lì, che ti possano giudicare come “quello che cade e ricade”, di aver deluso qualcuno, di leggere nei loro occhi la tua sconfitta. 

Ci sono persone che ricadono dopo anni. Non riescono nemmeno loro a spiegarselo, il male di questa ricaduta è intollerabile. E’ arrivata una persona qualche giorno fa al servizio riferendo una ricaduta dopo ben 17 anni. L’espressione variava dallo sgomento alla disperazione. Abbiamo aumentato il metadone, parlato un po’. E’ di Pozzuoli, abbiamo chiacchierato della nostra terra. Quando è andato via era triste, ma forse un po’ meno.

Mia figlia da grande dice di voler fare il “medico delle ginocchia sbucciate”. 

Le ho chiesto il perché e mi ha risposto che crede che sia molto bello poter prendersi cura di chi cade.

Credo che nei suoi 4 anni di età, abbia colto il senso del nostro lavoro.

 

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