«Eterno Ferrarotti!» esclama Giacomo Marramao, mentre ci divertiamo a commentare la pagina 67 di “Conversando, sottovoce, con la morte”, edito da Solfanelli, dove il vegliardo neonato mi emoziona poiché fa rivivere alcuni brani del mio libro dedicato a Elias Canetti. Ha vissuto, fatto e scritto di tutto il mitico Professore che professa, prima cattedra di Sociologia in Italia, caro amico di Cesare Pavese con il quale ha tradotto, senza tradire, incamminandosi con uno zainetto in spalla e muniti di un bordone in mano verso il Santuario di Crea, nel Monferrato, nel 1944, o nelle antiche piòle della periferia torinese a far notte e mattino per trovare la parola giusta, la frase giusta, l’accordo giusto. Ha vissuto, fatto e scritto di tutto, ma non aveva ancora conversato e duettato, anche aspramente, con sorella morte. Poi, alcuni mesi fa, una debolezza, un vuoto fisico generale e improvviso, la percezione esatta che la fine fosse arrivata, che l’alito macabro desse la spinta definitiva verso l’altra parte o verso il nulla, dipende dai gusti, dalle convinzioni, dalle speranze di ognuno.
Scrive Ferrarotti: «Tre mesi fa, sul far del giorno, un’alba grigia di una fredda mattinata d’inverno, ho avvertito sul collo il tuo alito. Poco prima, mi era parso di sentire i tuoi passi felpati. Mi son detto: è fatta, è finita, Deo Gratias! E invece no. Dopo un quarto d’ora, quel senso di completa rilassatezza, che precede il collasso finale, se ne era andato. La morte, ho pensato, mi prende in giro. Credevo che fosse la volta buona, e invece… Dopo tutto, avevo toccato la stessa età in cui sono morti mia madre e il mio fratello maggiore, Giovanni, pittore e violinista. Mi sbagliavo. La morte mi prendeva in giro».
Risponde la Morte: «No. Non ti prendevo in giro. Il fatto è che gli umani si credono gran cosa, mentre sono soltanto prodotti deperibili. Ma non hanno la data di scadenza». Riprende Ferrarotti: «Già. È vero. Non abbiamo la data di scadenza. E non pensiamo mai alla nostra morte. Ma a quella del vicino. Abbiamo dimenticato la massima dell’antica saggezza: Hodie mihi, cras tibi. E tu, comunque, per quanto mi riguarda, perché ci metti così tanto?». Replica la Morte: «Non tocca a me decidere. E poi: la morte bisogna meritarsela. È evidente che tu non ne sei ancora degno».
In effetti, il Professore, 94 anni, non è degno di morire, ma di scrivere, di continuare a scrivere, uomo di carta, secondo la definizione del padre, uomo di parola e di parole, di pensiero, di lettura e di scrittura. Uomo non dell’essere, ma dell’esistere, fedele al tracciato di un altro caro amico, Nicola Abbagnano: «Non facciamo confusioni. Heidegger rapporta l’uomo con l’Essere, ne ha un’idea quasi divina, come, del resto, altri pensatori, propensi a trovare compensazioni a buon mercato in un’esaltazione dell’uomo priva di fondamento, come fa, del resto, anche Emanuele Severino. Tu sei, o morte, per questi pensatori, il limite costitutivo dell’Esserci. Dunque, diventi essenziale. A loro giudizio, occorre “essere con la morte”. Un’evidente assurdità».
Ferrarotti, invece, è un essere con la vita. Finché c’è. E nella conversazione utilizza Socrate, Joyce, Montaigne, Weil, per ricordare che questa lunga attraversata esistenziale se l’è meritata, questa sì, per la straordinaria capacità di oltrepassare ponti, di solcare mari, di essere sempre presente ma sempre altrove. Curioso, intraprendente, coraggioso, avventuroso. Per vivere la vita e giocare scherzi alla morte. Non è lei a prendersi gioco di lui. È il Professore, vegliardo e neonato, che gioca, con la grazia tipica del vecchio e del fanciullo, con quella del famoso Socrate di Platone, «quello che, di domanda in domanda, spinge il povero interlocutore alle corde, lo confuta, lo annienta. Penso al Socrate meno noto, al Socrate di Senofonte. Quello che esce di casa presto la mattina. Pare che avesse una moglie, Santippe, piuttosto bisbetica. Va nell’agorà, la piazza di Atene. Attacca bottone con chi gli capita, con il sacerdote, il ciabattino, il carpentiere. Passeggia. È un flâneur. È il progenitore del sociologo come osservatore partecipante. Se nell’agorà c’è troppa gente e comincia a far caldo, se ne va al Pireo, al porto di Atene, con la fresca brezza marina. E continua a fare domande».
Come ha fatto Ferrarotti negli ultimi 94 anni. Ha ragione Marramao: «Eterno Ferrarotti!».
Scrive Ferrarotti: «Tre mesi fa, sul far del giorno, un’alba grigia di una fredda mattinata d’inverno, ho avvertito sul collo il tuo alito. Poco prima, mi era parso di sentire i tuoi passi felpati. Mi son detto: è fatta, è finita, Deo Gratias! E invece no. Dopo un quarto d’ora, quel senso di completa rilassatezza, che precede il collasso finale, se ne era andato. La morte, ho pensato, mi prende in giro. Credevo che fosse la volta buona, e invece… Dopo tutto, avevo toccato la stessa età in cui sono morti mia madre e il mio fratello maggiore, Giovanni, pittore e violinista. Mi sbagliavo. La morte mi prendeva in giro».
Risponde la Morte: «No. Non ti prendevo in giro. Il fatto è che gli umani si credono gran cosa, mentre sono soltanto prodotti deperibili. Ma non hanno la data di scadenza». Riprende Ferrarotti: «Già. È vero. Non abbiamo la data di scadenza. E non pensiamo mai alla nostra morte. Ma a quella del vicino. Abbiamo dimenticato la massima dell’antica saggezza: Hodie mihi, cras tibi. E tu, comunque, per quanto mi riguarda, perché ci metti così tanto?». Replica la Morte: «Non tocca a me decidere. E poi: la morte bisogna meritarsela. È evidente che tu non ne sei ancora degno».
In effetti, il Professore, 94 anni, non è degno di morire, ma di scrivere, di continuare a scrivere, uomo di carta, secondo la definizione del padre, uomo di parola e di parole, di pensiero, di lettura e di scrittura. Uomo non dell’essere, ma dell’esistere, fedele al tracciato di un altro caro amico, Nicola Abbagnano: «Non facciamo confusioni. Heidegger rapporta l’uomo con l’Essere, ne ha un’idea quasi divina, come, del resto, altri pensatori, propensi a trovare compensazioni a buon mercato in un’esaltazione dell’uomo priva di fondamento, come fa, del resto, anche Emanuele Severino. Tu sei, o morte, per questi pensatori, il limite costitutivo dell’Esserci. Dunque, diventi essenziale. A loro giudizio, occorre “essere con la morte”. Un’evidente assurdità».
Ferrarotti, invece, è un essere con la vita. Finché c’è. E nella conversazione utilizza Socrate, Joyce, Montaigne, Weil, per ricordare che questa lunga attraversata esistenziale se l’è meritata, questa sì, per la straordinaria capacità di oltrepassare ponti, di solcare mari, di essere sempre presente ma sempre altrove. Curioso, intraprendente, coraggioso, avventuroso. Per vivere la vita e giocare scherzi alla morte. Non è lei a prendersi gioco di lui. È il Professore, vegliardo e neonato, che gioca, con la grazia tipica del vecchio e del fanciullo, con quella del famoso Socrate di Platone, «quello che, di domanda in domanda, spinge il povero interlocutore alle corde, lo confuta, lo annienta. Penso al Socrate meno noto, al Socrate di Senofonte. Quello che esce di casa presto la mattina. Pare che avesse una moglie, Santippe, piuttosto bisbetica. Va nell’agorà, la piazza di Atene. Attacca bottone con chi gli capita, con il sacerdote, il ciabattino, il carpentiere. Passeggia. È un flâneur. È il progenitore del sociologo come osservatore partecipante. Se nell’agorà c’è troppa gente e comincia a far caldo, se ne va al Pireo, al porto di Atene, con la fresca brezza marina. E continua a fare domande».
Come ha fatto Ferrarotti negli ultimi 94 anni. Ha ragione Marramao: «Eterno Ferrarotti!».
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